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■^O J /4.
^8S3.
C^
RACCOLTA
DI
DIALETTI ITALIANI
ILLUSTRAZIONI ETNOLOGICHE
DI
ATTILIO ZUCCA6NI-0RLAND1NI.
FIRENZE
TIPOGRAFIA TOB'ANI
1864.
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V^ fJNIVFR«'TY ^
fe?4APRlQd7 ?
DIALETTI ITALIANI
CON
ILLUSTRAZIONI .ETNOLOGICHE.
PROEMIO.
Nello addossarmi T incarico di fare una raccolta
di italiani dialetti o vernacoli, non avevo dimenticato
la giusta avvertenza del celebre nostro Niccolini, che
gli studii cioè intorno la lingua furono ormai abba-
stanza esaltati dall'arrogante inopia dei grammatici,
e vilipesi dair orgoglio degli scienziati : lasciando li-
bero il campo ai filologi di sostenere discussioni
suU' italiano idioma, mi dichiaro pienamente disposto
ad adottare le loro conclusioni, ogniqualvolta le trovi
sostenute da giusti argomenti. Per parte mia intesi
di limitarmi a raccogliere eflfettivi esempi, così del
fraseggiare come delle pronunzie ora usate nelle di-
verge italiane contrade, collo scopo di portare mate-
riali da impiegarsi nella costruzione di un solido
monumento, il quale attesti senza vane dispute, qual
sia l'italico dialetto che meriti la preferenza sopra
4
gli altri, e contento dell' evidenza, mi dichiaro alieno
dal prender parte a letterarii conflitti.
Protesto altresì che nel maggiore bisogno di unio-
ne per consolidare il ricupero della indipendenza na-
zionale, mi guarderei bene dal sottopormi air accusa
di voler ridestare le sopite gare municipali, funesto
fomite di cittadine discordie. I fautori passionati, non
dirò del Perticari e del Monti, ma dello stesso mor-
dace Baretti sappiano, che di buon grado acconsento,
che il sonante e gentile idioma si chiami italiano,
troppo splendido essendo un così bel distintivo. Io
pongo a confronto i diversi dialetti, perchè spontanea
ne emerga la preferenza da darsi al migliore : col
quale bensì vorrei, che la gioventù di tutta Italia si
mostrasse sollecita di familiarizzarsi.
Alle tavole comparative che mi propongo di pub-
blicare, premetterò intanto la seguente avvertenza sul-
le cause che mi suggerirono di formar Y annunziata
raccolta. Pochi chilometri, come è noto, segnano la di-
stanza di Bologna dal confine toscano: ora siccome
nei primi viaggi intrapresi neir età mia giovanile, ne
colpì oltremodo la differenza enorme che passa tra
il volgare fiorentino e il popolare linguaggio bolognese,
concepii fin d' allora vivissima brama di conoscere i
principali almeno tra i tanti dialetti italiani ; ma non
mi fu dato di conseguire quelF intento, se non quando
mi nacque in mente V ardito concetto di compilare la
Corografia dell' Italia. Compresi allora esser venuto
5
il momento di ottenere la bramata raccolta compa-
rativa, e difatti potei metterne insieme oltre ai qua-
ranta. Prima però di pubblicarli, farò necessarie
avvertenze sul modo che prescelsi, per meglio addi-
tarne le diversità specifiche ; indicherò poi la norma
adottata per la divisione dei medesimi, conforman-
dola cioè sulla topografica ; dimostrerò infine qual
sia l'importanza delle illustrazioni etnologiche, colle
quali corredar volli V annunziata raccolta.
TRADUZIONE
BEPARTIZIONE E ILLUSTRAZIONI
DEI
PRINCIPALI DIALETTI ITALIANI.
I.
TRADUZIONE DI UN DIALOGO.
Premettasi prima di tutto colle parole stesse dì G. B.
Niccolini, che dialetto, considerato genericamente, è lingua
e maniera di parlare, colla quale una nazione dall'altra
disti nguesi; considerato specialmente, come nel caso nostro,
è particolar maniera di favellare, mercè la quale si distìn-
guono popoli che usano la stessa lìngua.
Neir accingermi alla ricerca di quelle distinzioni non
ignoravo, che il Salviati aveva prescelto la traduzione di
alcune novelle del Boccaccio; che ai tempi nostri il primo
Napoleone, giunto all' apice della sua potenza e conoscer vo-
lendo i principali dialetti dei 130 Dipartimenti costituenti
il suo vasto Impero, adottò il suggerimento datogli di do-
mandare ai Prefetti la traduzione della parabola del Figlio
prodigo; e che modernissimamente il Principe Luigi Luciano
Bonaparte, propostosi di porre a confronto i principali dialetti
di Europa, si è prevalso della traduzione di alcuni libri della
Bibbia: salvo però il debito rispetto ad autorità così solenni,
confesserò francamente di non aver potuto imitarne l' esem-
pio, non sembrandomi atte quelle traduzioni a far conoscere
8
le qualità distintive, ossia lo spirito, dei ^diversi popolari
linguaggi.
Meditando sul mezzo più acconcio a comprendere il
diverso modo di esprimersi dei connazionali, mi era sem-
brata opportuna la traduzione di un qualche brano di storia,
da cui emanassero generosi sensi di amore di patria ;
senonchè nel 1836, quando nella mia Corografia pubblicai
i primi dialetti, l'Italia gemeva tuttora sotto il giogo di
usurpatori stranieri, e pensai che quel nobilissimo sentimento,
animatore di pochi patriotti, non poteva essere compreso e
degnamente espresso da popoli avviliti sotto una schiavitù
vetutistissìma.
Un tale riflesso ne suggeriva di preferire la traduzione
di qualche lettera, slantechè lo stile familiare sarebbe stato
molto più conforme al modo di esprimersi degli abitanti di
ogni classe nei diversi paesi. Ciò mi conduceva, non alla
preferenza assoluta di questo secondo progetto, ma bensì
al divisamente seguente che mi sembrò di ogni altro il
migliore.
Considerando che un giovine padrone debba supporsi
abbastanza colto, per usare espressioni desunte da un vol-
gare corretto, e ripensando che un suo servitore esser possa
la persona più adattata a farci conoscere il vernacoh del
suo paese, mi appresi al partito di scrivere un Dialogo tra
un Padrone ed un suo Servitore. Subietto del Dialogo sono
Te moltiplici commissioni date dal padrone al servo; il quale
dopo essersi recato dalla casa di campagna in città per
eseguirle, al suo ritorno rende conto di ciò che ha fatto a
discarico degli ordini ricevuti: ed in quelle commissioni
studiai il modo di comprendere le varie occupazioni e le
diverse provviste, che sogliono farsi nelF andamento della
domestica amministrazione: ma ciò meglio potrà compren-
dersi, esaminando l'adottato dialogo.
II.
REPARTIZIONE DEGLI ITALIANI DIALETTI
MODELLATA SULLA DIVISIONE TOPOGRAFICA DELLE^ PROVINCIE.
Piacque a taluno istituir confronto tra le origini della
lingua italiana e della greca, ma qui sorge di nuovo la voce
autorevole dell'eruditissimo Niccolini, per dimostrare, che
se la lingua ellenica primitiva non produsse che i due
dialetti attico e dorico, dal primo dei quali derivò più tardi
Y ionico, e dal secondo Y eolio , restando bensì la lingua
comune dei greci madre di tutte, altrettanto non avvenne
in Italia. Vero è che signoreggiò in essa la lingua dei ro-
mani, ma il latino parlato dai popoli delle diverse provincie
non fu mai lo stesso, e ciò in forza delle grandi varietà delle
primitive usate favelle. E quando poi la sciagurata penisola
venne inondata da barbare orde, differenti tra loro di ori-
gine e di linguaggio; cotanta promiscuanza di imperi e di
fortune, di vincitori e di vinti, rese quasi prodigiosa quella
certa rassomiglianza che restò nella lingua italica.
Dopo sì chiara dimostrazione, qual meraviglia se in
ogni angolo d' Italia il popolo fa uso di vernacoli notabil-
mente diversi? Ne reca più presto imbarazzo e non lieve, il
dividere quei dialetti in gruppi o classi alle quali non manchi
una certa conformità, e questa non potrà rinvenirsi che
in un'esatta repartizione topografica per contrade: solo ne
spiace il rischio che corro, di trovarmi implicato nelle an-
tiche astruse dispute sulla primitiva origine dei popoli ita-
liani, ma studierò il modo di schivare gli scabrosi ostacoli
disseminati dall'incertezza in quest'arduo sentiero filologico,
attenendomi alle circoscrizioni naturali anziché alle politiche.
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I. Italia superiore o settentrionale. — Tra le due mon-
tuose catene delle Alpi e dell'Appennino stendesi una va-
stissima valle, che il Po irriga e traversa da ponente a
levante. La benignità del clima e la feracità del suolo at-
tirarono in ogni tempo barbare orde di predoni stranieri
ad invadere e signoreggiare sì bel paese ; tanto più che sulle
cime alpine si contano non meno di venti varchi, più o meno
praticabili, quindi non inaccessibili alle torme di rozze gentil
animate da feroce spirito di invasione e di usurpazione.
È questa la parte d' Italia, che in forza dei suoi na-
turali confini viene distinta giustamente col nome di Alta
Italia o Setttntrionale ; nella quale, per la ragione delle tante
razze di invasori che Y oppressero, mi fu dato di raccogliere
notabile numero di dialetti, provenienti appunto da quelle
popolazioni di origine diversa.
II. Italia Media o Centrale. — Per bene determinare
i confini di questa secónda sezione territoriale, è necessa-
rio premettere alcune importanti topografiche avvertenze.
La catena montuosa che può dirsi veramente italica, è quella
àeW Appennino; ma il suo distacco dalle Alpi è articolo di
storia fisica molto controverso. Rispettando le opinioni dei
geologi e degli storici che mi precederono, a me sembrò giu-
sta 1 opinione, di riconoscere sul Monte Lineo e sulle alture
di Roccabarbena l'origine dell'Appennino. Conseguentemente
la sua prima sezione distendesi dal Monte Lineo fino alle
cime del Monte Getterò in Lunigiana, ed è questo appunto
l'Appennino ligurCy che per le addotte ragioni ritenni come
compreso nel!' Alta Italia.
Ma dal Monte Getterò, o dalle sorgenti della Vara tri-
butario il più occidentale della Magra, con una spina più o
meno tortuosa, si estende da maestro a levante fino all' Alpe
della Luna nell' alta valle del Tevere l' Appennino detto to-
scano; la di cui giogaja serve di confine naturale tra quella
contrada e l'Emilia. Ciò premesso si porti il confine lungo
le rive della Mareccbia fino air Adriatico, e neKlato oppo-
sto presso quelle del Tirreno ; indi si segua la linea politica
di separazione Ira gli antichi Stati pontificii e i napoletani;
così verrà a stabilirsi V estensione dell' Italia Media o Centrale.
In questa era compresa TEtruria, il Lazio, l'antica Roma,
avvertenze non inutili per rapporto ai dialetti che ivi raccolsi.
III. Bassa Italia o Meridionale. — Dall'Alpe della Luna
distendesi una sezione di Appennino fino al Gran Sasso di
Italia negli Abruzzi, dopo aver diviso una parte dell' Umbria
dair antica Etruria ; traversa poi il già Stato papale fino
air eccelsa cima del Velino, ed in quel tratto apre il pas-
saggio alle malagevoli vie del Furio e di Colfiorito, poi della
Forca e di Antrodoco.
Ma il Moate Corno, la di cui sommità chiamasi appunto
il Gran Sasso d* Italia superiore a tutte le alture dell' Ap-
pennino, è princìpio all' ultima sezione della gran catena, la
quale divide gli antichi dominii siciliani di qua dal Faro in
due parti, orientale cioè ed occidentale ; quindi tutto il ter-
ritorio adiacente alle sue pendici, che resta chiuso tra le
rive dell' Adriatico in un lato e quelle del Tirreno e del-
l' Ionio nell'altro, forma quella sezione fisica della Penisola,
che viene distinta col nome di Bassa Italia o Meridionale ;
nella quale non ne fu dato che di raccogliere pochi Dialetti.
IV. Isole appartenenti all' Italia. — Quel cataclisma,
o a dir meglio, quei rinnuovati sollevamenti di suolo che spin-
gevano da un lato la gran catena alpina a tenere separata
l'Italia dalla Francia e dalla Germania, e la giogaja dell' Ap-
pennino a divider la penisola quasi in mezzo, produssero a un
tempo profondi avvallamenti, poscia ripieni dalle acque del
Tirreno e dell'Adriatico, dando origine in tal guisa ad un con-
siderevole numero di Isole, per la loro posizione all'Italia con-
giunte, e che restarono poi anco politicamente ad essa ag-
12
gregale. Dividendole in grandi e piccole si trovano tra le
prime la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, e tra le minori quelle
che formano Y Arcipelago del mare toscane, i gruppi delle
altre più o meno vicine alle grandi, e quello pure di Malta
e delle Tremiti nell'Adriatico.
III.
ILLUSTRAZIONI ETNOLOGICHE.
Ottimo e laudevole divisamente dei moderni economisti
fu quello, di arricchire le scienze morali di un nuovo impor-
tantissimo ramo, costituito dall'erudite ricerche sulle origini
delle nazioni, per cui si rese sempre più vivo il sentimento di
attrazione verso le genti di una stessa agnazione. Sono abba-
stanza noti gli sforzi politici di alcuni popoli, i quali manife-
starono ai nostri giorni le tendenze delle nazioni di una stessa
stirpe a riunirsi, minacciando di frangere i legami coi quali
vennero avvinti dalla prepotenza di violenti usurpatori. Nacque
da ciò modernamente, sì nei geografi come negli storici, il
provvido pensiero di un' accurata descrizione e classifica-
zione delle nazioni, e dar si volle a sifiatte ricerche il di-
stintivo di Etnografia ;àoitrìndi eruditamente svolta dal dot-
tore tedesco G. L. Krieg.
Ma questo nuovo genere di investigazioni, più special-
mente rivolte sul carattere fisico, morale e intellettuale delle
nazioni, colla guida dell'archeologia, della storia, dell'an-
tropologia e dello studR) delle lingue, si volle distinguere
con altro greco vocabolo Etnologia, destinata a ricercare le
remote origini, le migrazioni, le unioni ed i caratteri spe-
ciali dei popoli.
Da ciò deducasi di quanta importanza esser debbano
le illustrazioni che precedono e corredano gli italici dia-
43
letti. Certo è che nel decennio impiegato, dal 1835 al 1845,
nella compilazione della Corografia, alle gravi fatiche so-
stenute in queir ardua intrapresa servirono di grato conforto
le investigazioni etnologiche, che di provincia in provincia
andai raccogliendo, avendo esse prodotto ovunque tali risul-
tati, da farmi insuperbire di aver sortiti i natali in Italia. E
poiché nel far conoscere i diversi dialetti recheranno spesso
ingrata sorpresa le gravi alterazioni prodotte dai vernacoli
nel gentile idioma y nutro la lusinga che verranno addolcite
quelle disgustose impressioni dai miei preludii appunto sul
carattere delle popolazioni diverse.
I.
DIALETTI DELL'ALTA ITALIA
PRECEDUTI
DA ILLUSTRAZIONI ETNOLOGICHE.
Abitanti del Piemonte. — Subilochè nella Cor/ografia
dell' Italia ne incominciai la descrizione dall'alta Valle del
Po, volli calcare Je stesse orme, nel raccogliere i principali
dialetti delle piemontesi provincie e le correlative illustra-
zioni etnologiche.
Tra i più antichi invasori di quella vasta estensione di
ricco suolo circompadano, che resta chiusa tra le Alpi,
r Appennino e il Ticino, le tradizioni storiche additano i
Liguri, approdati da tempi remotissimi alle coste poi dette
ligustiche. Quelle tribù discese sul Po, per lungo tempo
rozze ed incolte , subirono modificazioni notabilissime , in
forza di moltiplici comunanze contratte prima con i Celti
precursori dei Galli, indi colle romane colonie, e più tardi
colle babare razze dei Goti e dei Longobardi.
Ma le uniformi qualità del clima e del suolo influirono
a poco a poco sul fisico temperamentq di quella numerosa
popolazione, e più tardi la dipendenza comune da un solo e
medesimo regime governativo contribuì ad amalgamarne le
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qualità morali; sicché venne a formarsi un tal carattere
nazionale, che con molta esattezza può distinguersi col nome
àìpiemmtese. Sopra di esso ebbero dunque molta influenza
gli effetti fisici delle condizioni atmosferiche e della uniforme
giacitura del suolo; se nonché debbesi aggiungere che Y esser
questo quasi da per tutto molto ferace, risparmiò agli abitanti
di qiielle ubertose campagne le dure fatiche dei Liguri marit-
timi, e perciò vennero giudicati, sebbene a torto, meno di
questi industriosi.
Se si eccettuino intanto le località poste presso la linea
dei confini, ove gli abitanti sempre partecipano più o meno
agli usi ed ai costumi dei limitrofi, si troverà in tutte le
Provincie centrali del Piemonte una popolazione vegeta e
robusta ; di svelte forme muscolari ; di forte espressione nei
lineamenti della faccia ; di colorito tendente al bruno; di ener-
gica attitudine nei più laboriosi esercizii, ma principalmente
in quello delle armi in cui si mostrò sempre assai prode.
Sono queste le principali qualità fisiche dei Piemontesi : ma
del loro carattere morale dovrei per giustizia far tale enco-
mio, da rendermi forse sospetto di parzialità nazionale pres-
so gli stranieri, se non potessi ripetere ciò che già ne scris-
sero tra i loro stessi storiografi i meno favorevoli ai decoro
del nome italiano !
Lady Morgan, che lagnavasi di aver passato con tanto
disagio il Moncenisio, nel porre il piede sulle prime soglie
d' Italia ricevè così grate impressioni, da formarsi il più
fausto augurio per tutto il resto del viaggio. Essa trovò in-
.fatti i Torinesi spiritosi ed attivi^ cardiali ed amabili nell ospi-
talità, forniti di anim^ benevolo, ed ornati di solidissime co-
gnizioni; in generale poi tutto il popolo piemontese le comparve
dotato di egregie qualità e di un meiito eminente. A così no-
bile e non sospetto elogio nulla restami da aggiungere, se
non la semplice avvertenza, che chi volle motteggiare sui
17
pregiudizi i popolari, forse esistenti tra i Piemontesi sul finire
del passato secolo, confuse erroneamente gli effetti di una
inceppata legislazione e del privilegio aristocratico, colla
pretesa e non vera tendenza di tutta la nazione al torpore
ed all'incuranza dei sociali miglioramenti; mentre è certo,
che se la classe dei dotti piemontesi non è tanto numerosa
come in altre italiane contrade, salì però in gran rinomanza,
e non tanto per l' ardore con cui vengono da essa coltivati
i buoni studi, come per le classiche opere scientifiche e
letterarie, prodotte dai valentissimi ingegni, dei quali può
giustamente gloriarsi.
DIALETTI PIEMONTESI.
La lingua volgare usata in Piemonte accostasi spesso
ai modi dell'idioma francese, ma la sua sintassi è italiana.
Essa non manca di una certa grazia e sveltezza, e sebbene
gli storici e i poeti non ne abbiano fatto grand' uso, pure è
adoperata sulle scene da un attore di classe plebea, detto
il Gianduja, che sotto la maschera di uomo stordito nascon-
dendo fina accortezza per ottenere il suo intento, eccita nel
popolo moltissima ilarità.
Gli abitanti del Piemonte parlano abitualmente il loro
dialetto, e quantunque abbiano molta facilità nello esprimersi
in lingua italiana, pure è manifesta una certa loro prefe-
renza per la francese : alla quale poco lodevole propensione
fu sollecito di opporsi l'egregio Cav. Galeani-Napione col
suo aureo Trattato dell* uso e dei pregi della lingua italiana,
dimostrando con energica eloquenza ai suoi compatriotti,
quanto sarà sempre glorioso per essi il difendere coli' opere
dell'ingegno l'italiana letteratura, come le loro armi furono
in ogni tempo l'antemurale dell'italica libertà. E per con-
18
forto di cosi provvido consiglio rammentò loro Vimraortal Duca
Emanuele Filiberto, il quale sebbene educato da oltramon-
tani istitutori ed unito in matrimonio con principessa fran-
cese, pure decretò che ogni atto pubblico dettato fosse in
lingua italiana, e volle tutta italiana V educazione e l' istru-
zione di suo figlio: sicché dal suo esempio eccitati i suc-
cessori, ed alcuni, dei più assennati tra i loro ministri,
promossero il coltivamento del gentile idioma, conoscendo
quanto avrebbe influito un tale studio a rendere più italiana
la popolazione piemontese.
Ma la galanteria cortigianesca, ed il traslocamento allora
frequente dei RR. impiegati dal reggimento di provincie
cisalpine alla residenza in distretti della Savoia, avevano
mantenuta sempre viva la predilezione al linguaggio francese,
onde il Napione invitò saggiamente i Piemontesi a Vendersi
familiare l'italica lingua, e la sua voce venne finalmente
ascoltata. Cessato infatti il dominio napoleonico, ogni legge
ed ogni atto pubblico e privato, tutte le sentenze forensi e
qualunque giuridico procedimento venne dettato in lingua
italiana. Di questa incominciarono poi quasi esclusivamente
a fare uso i dottissimi Socii della R. Accademia delle
Scienze di Torino, che dal 1760 al 1814 avevano spesso
data la preferenza nei loro atti all'idioma francese. Varii
libri elementari vennero pubblicati per iniziare la gioventù
nello studio dell'italiano, e per mantenerne animato il col-
tivamento vi fu perfino chi si die cura di registrare utili
precetti di pura favella in un Giornale letterario, che
periodicamente in quest'ultimi decorsi "anni veniva pub-
blicato.
Era difatti autore il S.' Ponza di un foglio periodico
col titolo di Annotatore Piemontese, che conteneva principal-
mente utilissime e dotte osservazioni sull'uso della lingua
italiana. Il cel. Grassi acquistò doppio titolo alla gratitudine e
19
alla lode dei colti italiani col suo Saggio dei Sinonimi e col
Dizionario Militare; opere sommamente utili pel bene che
hanno fatto e per quello altresì che hanno agevolato e pro-
mòsso. E il eh. Cav. Giacinto Carena, onorevole amico di
sempre cara memoria, pubblicò lavori filologici molto applau-
diti, additando con sana critica molte voci mancanti nei vo-
cabolarii italiani, ed altre meritevoli di emenda.
Ma i moderni avvenimenti, che produssero il risorgi-
mento della nazionale indipendenza, saranno molto più elo-
quenti di qualunque opera letteraria, nel far comprendere
ai Piemontesi T imperioso bisogno di rendere familiare alla
loro gioventù l'uso del puro e sonante idioma; deducendo in
parte questa verità anco dall' esame del seguente Dialogo,
col porre cioè a confronto il volgare corretto con quello da
essi usato.
20
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
ED UN SUO SERVITORE.
Padrone. Ebbene, Batista,
hai tu eseguite tutte le com-
missioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città; ma
poi è piovuto tanto!
Padr. Che al solito sei sta-
to a fare il poltrone in un'oste-
ria, per aspettare che spioves-
se! E perchè non hai preso
r ombrello ?
Serv. Per non portar quel-
l'impiccio; epoi jeri sera quan-
do andai a letto non pioveva
più, se pioveva, pioveva po-
chissimo: stamani quando mi
sono alzato era tutto sereno,
e solamente a levata di sole
si è rannuvolato. Più tardi si
è alzato un gran vento, ma
invece di spazzare le nuvole,
ha portato una grandine che
TRADUZIONE
NEL DIALETTO
TORINESE.
Padroun. Siche , Batista ,
astu fait tute le coumissioun
eh' it eu date?
DouMÉSTi. / peus assicu-
réie eh' i eu proucurà d'féie 7
mèi eh' i eu poudit. Sta matin
a sès ore e un quart % era già
pr' strà, a set e mesa % era a
metà strà, a eut e tre quart
lintrava ani Turiti : ma a Va
piouvù tant !
Pad. Ch, sécond 7 solit, it
sés stait ant n oustaria à fé 7
plandroun pr' aspetè eh' a cés-
séisa, E prché astu nèn pia 7
parapieuva ?
Dou. Pr nèn cariarne d'coul
ambi^eui : e peui jér séira,
quand' i soun andàit a durmi
a piuvia pi nen, osa piuvia,
a piuvia bin poch : sta matin
quand im son Ivàme, a V èra
tutt serén, e a Ì e mach al he
d 7 soul, cK a ré vnù nivou,
e peui un pò pi tard a s' é
Ivasse un ventàss, ma al post
dmandé via le nivoule a V à
21
ha durato mezz'ora, e poi
acqua a ciel rotto.
Padr. Così vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto quasi
niente di ciò che ti avevo or-
dinato ; non è vero ?
Serv. Anzi spero che Ella,
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze. .
Serv. Nel tempo che pio-
veva mi sono fermato in bot-
tega del sarto, ed ho visto con
questi miei occhi raccomodato
il suo soprabito con bavero e
fodere nuove; i pantaloni colle
stafie erano finiti, e la sotto-
veste stava tagliandola.
Padr. Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo e il calzolajo, e di
questi non ne hai cercato?
Serv. Sì signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio, e non gli ^mancava
che orlare il nuovo. Il calzolajo
poi aveva terminati gli stivali,
le scarpe grosse da caccia, e
gli scarpini da ballo.
pourtane na tempèsta eh' ala
dura mes' oura, e peni dóp a
Va ancoura piouvù a sie.
Pad. LouH a ré peuipr vni
a di dì it as fait quasi nen
d loch it avia dite^ né?
Dou. Anssi i sperou eh' a
sarà countènt, quand'a savrà 7
gir ch'il eu fait anf doui aure.
Pad. Sentiouma stè toue
vagliantise,
Dou. Mentre eh' a piuvia
ira soun fermarne ant la .6ow-
tega di' sartour e i eu visi eh
so surlou d Ve già arangiày
e eh' a V à'i eoulét, e le feudre
neuve : so vesti neuv, e i pan-
taloun eon ii tirant a soun già
fini, e 7 eourpét a V era an
camin a tajélou.
Pad. Tant mèi. Ma da già
ch'il ère vsin al eaplé, e al
calie, % astu gnanca faie un
pass?
Dou. Sì sgnour : 7 caplé
a nettava so capei frust, e'I
neuv a V avia mac^pi da our-
lélou. 'L calie peni a Va già
fini i so stivai, le scarpe da
cassa, e i so scarpin da bai
Padr. Ma in casa dì mio
padre quando sei andato, che
questo era l'essenziale?
Serv. Appena spiovuto, ma
non vi ho trovato né suo padre,
né sua madre, né suo zio, per-
ché jeri r altro andarono in
villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno sarà stata
in casa ?
Serv. No signore, perchè
avevano fatta una trottata, ed
avevano condotto il bambino
e le bambine.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa ?
Serv. Il cuoco era andato
ili campagna col suo signor Pa-
dre, la cameriera e due servi-
tori erano con sua cognata, e
il cocchiere avendo avuto l'or-
dine di attaccare i cavalli per
muoverli, se ne era andato col-
la carrozza verso la Certosa.
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
Serv. Non vi ho trovato
che il garzone di stalla, ed a
lui ho consegnato tutte le let-
tere, perchè le portasse a chi
doveva averle.
Pad. e a cà d papà cK a
V era V essensial, quand sestu
andàie?
Dou. Subii eh' a Va finì
d' pieuve : ma % eu nen trouvà
né so papàf né sona mamanj
né so barbay prchè V autr jèr
a soun andait an canpagna, e
a l àn dumà là.
Pad. Pr autr a % sarà bin
siate me fratél, o sou^i foumna?
Dou. No sgnour, prché a
l an fati na spassgiada fina
vers Mouncalé, e a soun mnas-
se 7 pcit, è la pciia.
Pad. Ma i doumésii % érne
iuiti fora d' cà?
Dou. 'L cùsmé a V era an-
dàii an canpagna coun so pa-
pà : la creada e doui doumésii
a % erou coun soua cugnà, e 7
caroussé, eh' ala avù ourdin
d' iaché souta pr mné a spass i
cavai, a Véra andàit con la caro-
sa vers la Cerlousa d'Cmlégn.
Pad . Dunque a f ' èra nssun ?
Dou. f éu mach trouvà 7
palafrnéy e i' eu daie a chiel
tute le litre pr ch'ai pour-
téissa a sou^a adrésa.
23
Padr. Meno male. E la
provvista per domani?
Serv. L'ho fatta : per mi-
nestra ho preso della pasta, e
intanto ho comprato del for-
maggio e, del burro. Per ac-
crescere il lesso di vitella, ho
preso un pezzo di castrato. Il
fritto lo farò di cervello, di
fegato e di carciofi. Per uroido
ho comprato del majale, ed
un' anatra da farsi col cavolo.
E siccome non ho trovato né
tordi, né starne, né. beccacce,
rimedierò con un tacchino da
cuocersi in forno.
Padr. E del pesce non ne
hai comprato?
^ Serv. Anzi ne ho preso iii
quantità, perché costava po-
chissimo. Ho comprato so-
gliole e triglie.
Padr. Cosi va benissimo:
Ma il parrucchiere non avrai
potuto vederlo?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, garo-
fani, cannella e cioccolata, così
ho parlato anche a lui.
Pad. a la buon oura.
E k prouvisioun pr dou-
man?
Dou. L'eu [àie, Pr la
mnéstra i' eu pia d! paste, e
póstou ch'itera, leupià d'four-
mag e d' butir. Pr eh' 7 bui
d' vitél a fousoùna n pò d' pi,
% eu pia un toch d* moutoun.
La fritura i la fareu d' 57'-
véle, d' fide, e d' articióch. Pr 7
stoufà i* eu coumprà d' ani-
mai, e un ania^ eh' i la guar-
nireu d' coi. E peui scoum
i' eu nèn trouvà né d* grive,
né d'prnis, né d' beasse, i ri-
mediireu coun un pitou, eh* i
fareu cheuse ant 7 fourn.
Pad. e V asiu nen coum-
pì^a d'péss?
Dou. Anssi i n eu piane
moutoubin prchè eh' a V erau
a strassapatt. J' eu pia, d'péss
sóla, e d' triglie.
Pad. Va benissim. E 7
pruché l'astu nen poudulou
vede ?
Dou. Ans^ scoum a là la
boutéga vsin a coul foundiché,
andava i % éu pia 7 sùcher, 7
peiver, % garofou, e la dcou-
lata, t eu dcó parlaie.
u
Padb. e che nuove ti ha
date ?
Serv. Mi ha detto che
r Opera in musica ha fatto
furore , ma che il ballo è
stato fischiato; che quel gio"
vine signore suo amico perde
r altra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire colla diligenza.
Mi ha eletto pure che la si-
gnora Lucietta ha congedato
il promesso sposo, e ha fatto
giuramento di non volerlo più.
PiDR. Gelosie.... questa sì
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Ser-v. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbianao fare, prepara tutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli mi-
gliori; tra i piatti scegli quelli
Pad. e cosa /' alou dite
d' neuv ?
Deu, a m'à dime eh' l'ope-
ra a r a fait furour, ma eh' 7
bài a V àn fischialou ; cK coul
giouvnèt so amis a l' a perdù
gross r autra séird al gieugh,
e cK adéss a spiava nén autr
oh' la diligenssa a partiéisa
piando a Genoua. A m-à peni
dea dime, ch'Iota Lusiin àVà
manda a fé scrive so spons, e
eh' a l à giura eh' a vouria pi
nén spousélou.
Pad. Vuai ! gelousie.... a
r é própi dìtola slassi... ma
pensouma n poch a noni.
Dou. S' ass countenta i
vad a mangé un boucoun
d' pan e béive na coupà d[ vin,
e peui i soun sùbit a pie i
so óurdin.
Padr. Ma i % eu prèssa, e
i % eu da sùrtì : sconta bin
prima beh i veui, é peui it
mangeras, e it arpousràs fin-
ch'il veule.
Dou. Ch'ani coumandapura.
Pad. Pr 7 disné eh' i % ou-
ma da de', prounta tùtt aìU' la
saletta mei. Pia 7 mantil mèi,
e le mèi serviete : bùia le
siete d pourslana , e proiicu-
25
di porcellana, e procura che
non manchino né scodelle, né
vassoj. Accomoda la credenza
con frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Srrv. e quali posate met-
terò in tavola ?
Padr. Prendi i cucchiai
d' argento, le forchette e i
coltelli col mànico d' avorio,
e ricordati ohe le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini sia-
no quelli di cristallo arrotato.
Accomoda poi intorno alla ta-
vola le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà servita
puntualmente.
Pàdr. Ricordati che que-
sta sera viene mia Nonna. Tu
sai quanto è stucchevole quella
vecchia! Metti in ordine la ca-
mera buona, fa'riempire il sac-
cone e jMbattere le materasse.
Accomoaa il letto con lenzuola
e federe lepiùfìni,ecuoprilocol
zanzariere. Empi la brocca di
acqua, e siillia catinella disten-
di un asciugamano ordinario
ed uno fine. Fa'tutto in rego-
la, e la mancia non mancherà
Srrv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
ra eh' ai manca nén, né le
scudéle né % cabaret. Prounta
la fruta, e guarda cK ai sia
d' uva, d* myus, d' màndoule,
d' counfiiure e d' boute.
Dou. E che pousàde % en-
ne da buie.
Padr Pia i cuciàr d' ar-
: gent, e le fourceline e i coutéi
coun 7 mani d'avoriou, e
arcórdte d' buté le carafine, i
bicér, e i sanin d'cristàl moulà.
Bùta peui le cadréghe le mèi
ch'ai sia.
Dou. A sarà servi an ré-
goula.
Padr Arcórdte cKsta séira
a % ariva mia maman granda :
ii sàs coula véia coum' a ré
nouiousd. Aràngia la stanssa
de parada, fa empi la paiassa,
e arfè i maiaràss. Arcórdte
d' fé 7 létt, butéje i linseui e
le foudrétte pi fine, e curvilo
coun la sinsaléra. Émp d'aqua
righierd, e bùia ant 7 catin im
suaman e na touaia. Arangia
bin tutt,eitsaràs countent d'mi.
Dou. Ama dimne die
còse : ma eli as dubita d' nèn,
i fareu tiitt.
86
/
AVVERTENZE SPECIALI
SUL DIALETTO PIEMONTESE.
Il signor Valéry suppose di poter pronunziar giudizio sul
Dialetto piemontese, ed ecco le espressioni delle quali volle
servirsi :
« Le dialect piémontais, si rauque, si criard, si gros-
» sier, qui séparé et isole ceux qui le parlent des autres
» Italiens, est une sorte de raonunaent hiatorique, puis-
» quii a conserve des raots des plus anciennes langues, tel-
» les que Je celte, letrusque, le gaulois, le provengal,
» Tespagnol, l'allenaand, et de tous ces barbares guerriers
» qui ont successivement passe les Alpes. Il ne manque
» pas, dit-on, d'originalité, de naturel, de vivacité, si l'on
» en juge par les poesias du P. Isler et du Doct. Calvo. »
[Voyage en Italie, Tom. V, pag. 107). Se le poesie del
P. Isler e del D. Calvo provano che il dialetto piemon-
tese non manca di naturalezza e di vivacità, indicherò colla
seguente nota di voci popolari la sua più probabile prinai-
tiva provenienza, lasciando al signor Valéry la cura di far
conoscere V etimologie gallo-celtiche, e V etruschéJI
VOCI POBOLABI PIEMOMTESl DI PROVENIENZA LATINA.
Abbà
Boulè
Cìser
Douja
Erca
Magister
Oula
Capo del balio
D di altro.
Requie
Fungo.
Seme
Cece.
Stabt
Boccale.
Sterni
Madia.
Maestro.
Tossi
Pentola.
Riposare.
Separare alcune cose.
Stalla.
Acciottolare e ammat-
tonare.
Veleno.
27
DI PROVENIENZA FRANCESE.
Ahimè
Adressa
A fasson de
Agreman
Amusè
Anfonsè
Anvia
Anvirone
Ar angle
Articioch
Badinage
Bendagc
Bergè
Bionda
Bouchèt
Boulversè
Bordura
Borgnon
Bornese
Bourù
Brancard
Brave
Broda
Brode
Brossa
Bufét
Cabaret
Ciadeuvra
Cofou .
Coulissa
Conserge
Colise
Crachè
Cracia
Crajon
Crasè
Creus
Crossa
Custn
Deghisè
Mandarp in precipizio.
Soprascritta.
À guisa di.
Grazia.
Divertire.
Aifrondare.
Voglia.
Circondare.
Acconciare.
Carciofo.
Scherzo.
Fasciatura.
Pecorajo.
Merletto di seta.
Mazzetto di fiori.
Metter sossopra.
Orlatura.
Cieco.
Limitarsi.
Burbero.
Barella grossa con
Affrontare.
Schidione.
Ricamare.
Spazzola.
Credenza.
Vassojo e Bettola.
Capo d'opera.
Cassone.
Scanalatura.
Custode di Castello,
di Carceri ec.
Tassare.
Spacciar favole.
Feccia, Lordura.
Matita.
Sfacelare.
Profondo.
Gruccia.
Zanzara.
Travestire.
Delabre Rovinare.
Desgagesse Affrettarsi.
Dsabilxè
Dupè
Esausa
Famma
Famina
Fanean
Fatras
Flambò
Fiate
Fonate
Forgia
Fronsè
Gage
Garotè
Glissò
Grave
Lapin
Lingot
Lorgnè
Menage
Abito da camera.
Ingannare.
Facilità.
Camerista.
Carestia.
Infingardo.
Mucchiodi cosediverse.
Candelotto di' céra.
Lusingare.
Sferzare.
Fucina.
Increspare.
Salario, pegno.
Arrestare.
Insinuare destramente.
Intagliare.
Coniglio.
Verga di metallo fine.
Sbirciare.
Famiglia e cura della
casa.
Arrestare.
Mouchesse Burlarsi.
Nuansa Mezza tinta.
Locanda.
Carta.
Perno.
Stojato, soffitta.
Ordinare.
Guasto.
Rammarico.
Tenda.
Moulè
Oberge
Pape
Piva
Plafon
Bangè
Ravàge
Hegret
Rido
Sagradonè Bestemmiare.
Sagrin Afflizione.
Sansosi Spensierato.
Scamotè Carpire destramente.
Sesi Sequestrare.
Sol Sciocco.
Tapage Fracasso.
Tota Latta.
9»
DERIVATE DA ALTRE LINGUE VIVE
MA n'iKCERTA PROVENIENZA.
Aghi
Arbi
Arprim
Baricce
Baudevria
Bedra
Boughè
Bren
Brich
Cabassa
Cavioùn
Ciorgu
Cotta
Crin
Crota
Couirou
Faitaria
Faudal
Fea
Fioca
Flina
Front
Garbili
Gariè
Langassa
Loira
Scojattolo
Specie di Tinozza,
Tritello.
Guercio.
Gozzoviglia.
Grossa pancia.
Biroccio.
Crusca.
Piccolo poggio.
Gerla.
Bandolo.
Sordo.
Sottanino dei fanciulli.
. Porco.
Cantina.
Panziera.
Concia.
Grembiale.
Pecora.
Neve e panna montata.
Stizza.
Chiavistello.
Trogoletto.
Stuzzicare.
Cappio.
Svogliatezza per trop-
po calore estivo.
Lourd
Stordito.
Madona
Suocera.
Magna
Zia.
Maraman
Quand' ecco.
Mar gilè
Pastore proprietario
di vacche.
Masnà
Fanciullo
Nech
Malinconico.
Pantalèra
. Tenda e Tettoja.
Pcè
Nònno.
Pceron
Bisnonno.
Sana
Bicchiere col piede.
Sbamè
Spaventare,sbaragliare.
Spina
Favilla.
Sciurgui
Assordare.
Scourata
Calesse scoperto.
Scoussal
Parafango.
Seber
Bigoncio.
Sgairè
Scialacquare, sciupare
una cosa.
Sbrgiairè.
Incalzare, far fuggire.
Smouni
Esibire.
Sia
Secchia.
Tabalouc
Minchione.
Txletto
Notificazione pubblica.
Tup%n
Pentola.
29
DIALETTI D'AOSTA, DI CASALE-MONFERRATO
E DI NOVARA.
li Dialetto piemontese va soggetto a molte varietà, spe-
cialmente in tutti quei distretti che stanno a confine della Fran-
cia, della Savoia e della Svizzera. Che se dei diversi vernacoli
dovei considerare come primario quello di Torino, volli però
porre a confronto la traduzione del Dialogo torinese con (Quella
in Casalasco, perchè il Monferrato non fu che tardi ceduto alle
R. Casa di Savoja; e con un'altra in Novarese, perchè serva
come di passaggio dal dialetto piemontese al lombardo.
Giovi anzi il rammentare, che il Novarese, occupato nei
primitivi tempi dai Levi o Lebui-Liguri, fece parte della
Signoria di Milano fino al trattato di Vienna del 1735, quando
cioè fu ceduto colla Lomellina al Re di Sardegna; e ciò
indusse il primo Napoleone a formarne ,un Dipartimento del
suo arbitrario Regno Italico, dichiarandone capoluogo Novara.
Il Monferrato poi, staccato al tutto dal Piemonte finché formò
stato indipendente, ebbe Aleramo per primo Marchese nel
secolo X; indi dominarono i suoi successori fino a Giovanni I
morto nel 1 305 senza figli : poi passò questo Marchesato nei
principi della casa imperiale dei Paleologhi da Teodoro fino a
Bonifazio V morto senza prole nel 1530 : finalmente Maria sua
sorella ne rese eredi i Gonzaga Duchi di Mantova, che regna-
rono anche nel Monferrato fino al 1708, anno in cui lo sventu-
rato Ferdinando-Carlo fu dispogliato per fellonia dei suoi stati.
Sono queste le riflessioni storiche che mi indussero a
pubblicare un saggio dei due Dialetti Casalasco e Novarese ;
ma non era da dimenticarsi la popolazione alpina della Pro-
vincia e Ducato di Aosta, Nell'alta valle della Dora Baltea,
coronata dalle più elevate cime della gran catena alpina,
furono i primi a fermare il domicilio i Salassi, provenienti
dall' Elvezia e dalle Gallie. Quel rozzi ma intrepidi monta-
30
nari dopo aver sostenute bravamente frequenti zuffe coi li-
mitrofi Levi-Liguri, avevano ardito di far fronte anco agli
invasori romani, ma per diritto di maggior forza Terenzio
Varrone vendè al pubblico incanto 36,000 di quegli alpigiani
da essi chiamati rivoltosi, ed ivi dedusse una romana colo-
nia da cui discesero le antiche famiglie della nuova popolazio-
ne. Decadde poi il romano Impero, e la provincia passò sotto
il dominio dei potentissimi signori della Borgogna, ciò de-
ducendosi dal ricordo storico, che i Longobardi, attentatisi ad
invadere la valle dopo la metà del VI secolo, furono forzati
dal Re di Borgogna a riconoscerlo come assoluto signore; e
solamente due secoli dopo venne restituito da Carlo Magno
il Val d'Aosta ai suoi naturali confini. Nei bassi tempi si
trovano infeudati del territorio i suoi Vescovi, poi i Conti di
Savoia: ai successori dei quali ne venne assicurato il dominio
da Emanuele-Filiberto; e nel 1770 Re Carlo-Emanuele III
estinse ogni germe di indipendenza fomentata da quella po-
polozione, sottoponendo anche quel paese alpino al catasto.
Restarono intanto promiscuati nel territorio Aostano Salassi,
Galli, Romani, Borgognoni e varie tribù germaniche; per cui
nella mia perlustrazione di quella valle alpina restai spesso
colpito dalla tanta varietà dei volgari vernacoli : bastino a
provarlo gli esempi seguenti.
In un rialto assai elevato, che domina la sinistra riva
della Dora, sorge 5. Nicolas capoluogo di Comune, i di cui
abitanti usano un linguaggio di purgata origine francese,
perchè la gioventù recasi annualmente in quelle oltramon-
tane contrade, per esercitarvi diversi mestieri. Non può dirsi
altrettanto del vernacolo adoperato da quei di Morgex, es-
sendo un misto di latino, di francese e di alemanno, introdottovi
dai Borgognoni dopo il V secolo: e di questo stesso gergo fanno
uso gli abitanti dei Comuni di Avise, di Arvier e di Valgri-
sanche, mentre a Prè-S. Didier, alla Thuille ed a La-Salle
31
moltissimi vocaboli ivi usati hanno l'etimologia nel vecchio
gdìlese; Si Cormayeur poi si parla una lingua, che partecipa
del francese, dell' italiano e del piemontese; originata manife-
stamente dalla promiscuanza dei forestieri che vi dimorano
nei mesi estivi, e provenienti dalle precitate contrade.
Nei Comuni ancora del Mandamento di Gignod possono
farsi speciali avvertenze; stantechè gli abitanti di Alleiti
hanno un vernacolo misto di borgognone antico e di latino;
quelli di Gignod, Oyace e Bionas usano il francese moderno
più meno corrotto; in Douves si adoprano frasi di origine e di
sintassi germanica: in tutti gli altri Comuni vien parlato un lin-
guaggio, che sembra derivato da quello degli antichi golesi.
In alcuni Comuni del Mandamento di Qiutrt parlasi un
francese corrotto ; altrove è più conservato Y antico gallese.
E continuando la perlustrazione dei Mandamenti, notai che
in quel di Chatillon parlasi facilmente il corretto francese nelle
località poste sulla via provinciale: ma nel montuoso Comune
di Emarese e nei paesi circonvicini il vernacolo è misto di
latino italiano e francese, ed in Antey si conservano molte frasi
del borgognone antico. Nel Mandamento di Verres odesi il
consueto amalgama di latino borgognone e piemontese ; in
Ayas /però si fa uso di un tedesco, sebbene assai alterato.
Fermiamoci finalmente nel centro del Circondario, ove
appunto siede Aosta suo capoluogo, e così in quella città
come nei circonvicini paesi il popolo risponderà alle nostre
domande o con gergo impastato di voci galliche latine e
piemontesi, o con impuro francese. Debbo anzi notare che
in Aosta la lingua impiegata così nella istruzione, come negli
atti legali e nei pubblici affari, in questi ultimi tempi almeno,
fu la francese, cui ora solamente venne sostituita l'italiana:
e non è questo né T ultimo né il men prezioso frutto della
ricuperata nazionale indipendenza, la propagazione cioè del
nostro idioma nella sua purezza in ogni angolo della Penisola.
3«
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
ED UN SCO SERVITORE.
Padrone. Ebbene, Bati-
sta, hai tu eseguite tutte le
commissioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino ;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città, ma
poi è piovuto tanto !
Padr. Che al solito sei
stato a fare il poltrone in
un' osteria, per aspettare che
spiovesse I E perchè non hai
preso r ombrello?
Serv. Per non portarquel-
r impicciò; e poi jeri sera
quando andai a letto non pio-
veva più, se pioveva, pio-
veva pochissimo : stamani
quando mi sono alzato era
lutto sereno, e solamente a
levata di sole si è rannuvo-
lato. Più lardi si è alzato un
gran vento, ma invece di
spazzare le nuvole, ha porta-
TRADUZIONE
NEL DIALETTO
D'AOSTA.
Métre. J? bin Battista as-te
fèt tutte le commessions què ze
tèté baillia?
Domesteco. Mmseur, ze
pui vo ascherà d' avei ito pon-
teal lo me què tz èpossu. Si
matin a dwué aourè et eun
quar z èro za en zemin; a sat
aourè et demié z èro à la
mézia dou zemin ^ et a ouet
aourè et Irei quar z entravo en
velia ; mai iapouè tan phvu!
Mét. T a ita com^n a
r ordenéro a fare lo pouiron
ou cabaret, pè attendrè qui
UiSsè cessa de pbuvrè, Perquè
n a te pas prei lo paraploze ?
DoM. Pè pas porte set em-
baras, et pouè ier net quan
ze si ala ou liet, i no pioves-
setpas, ou sipiovesset i pioves-
set tan pok rsi matin quan ze
m' e si leva i ère tot serèin,
et maquè quan h sola eh' è
leva lo ten che t'anebla, Pe tard
i che leva eun gran ven, ma
oulùma d' écové le niolè i a
porta èuna grella què Ha derà
33
TRADUZIONE
NEL DIALETTO
DI CASALE.
Padron. Eben, Batista,
t'a fai tut al commission, eh' a
t'o dat?
Servitou. Sgnor poss os-,
skuralo, dm i o fai lui col
ca 'i podu: sta mattina, com
cai sa, a ses ori e un quart j
.eragià par strà; a seti' ori me-
za j era già a mità camin, e
a ott e irei quart mirava en
sita: ma pò Va piouvu tant.
Padr. Già al solit f avrà
fai al poltron ani un oslana
par aspetà calfinissa de pieuvi!
Parche t* a nen pia Vombrela ?
Serv. Par nen porta col
ambreuj ; e pòjar seira quand
a son andai ani al lei al piouvi^
va pu nent, o $ al piouviva,
al piousinava: sta mattina
quand Mm son diva, V era lui
seren, e solam^nl quand a s è
leva le sou V è deventa nivou:
pu tardi s'è miss un gran
vent, ma en leu de spassa li
nuvoli, r a porta una tempesta
TRADUZIONE
NEL DIALETTO
NOVARESE.
Padron. Ehhen, Batistay
ti fai tutti i commission eh' i
f ho dai?
Sarvitor. Crédi d' avess
stai sgaggià pu che ho poduu.
Sta mattina ai ses e n quurt
sèri già in viace ; ai seti e
mezza, sèri a mezza strà, e
ai voti e tri quart, gnévi dent
in città ; ma poeu è piovuu
tant !
Padr. Che, sicond al solit,
ti H sarè cascia in d' ona osta-
rla a fa r lampioon, spicciand
cha cessasè l'acquea! E parche
te mia pia su V ombrella !
Sarv. Par no ave cml
cruzzi ; e poeu jar sira, quand
son andai in leti, pioviva già
pu, sa pioviva, pioviva ap-
pena oun stizzin ; stamattina
quand % son leva su, V era tùli
serén, e appena nassù 7 sol,
è gnu luti nivol. Da li oun
pò è gnu su oun gran ven-
toon, ma inscàmbi da mena
via i nivli, V ha manda tam-
3
ni
to una grandine che ha durato
mezz' ora, e poi acqua a ciel
rotto.
Padr. Così vuoi farmi in-
tendere^ di non aver fatto qua-
si niente di ciò che ti avevo
ordinato; non è vero?
Serv. Anzi spero che Ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore. .
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
Serv. Nel tempo che pio-
veva mi sono fermato in bot-
tega del sarto, ed ho visto
con questi miei occhi racco-
modato il suo soprabito con
bavero e fodere nuove ; i pan-
taloni colle staffe erano finiti, e
la sottoveste stava tagliandola.
Padr, Tanto naeglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellaio, e il calzolajo, e
di questi non ne hai cercato?
Serv. Sì signore: il cap-
pellaio ripuliva il suo cappello
vecchio, e non gli mancava
che orlare il nuovo. Il cal-
zolaio poi aveva terminati gli
stivali, le scarpe grosse da
caccia, e gli scarpini da ballo. .
Padr. Ma in casa di mio
eun ora, et pouè ? plovechet a
toren.
Mét. Pare te vout me fare
entendrè què te n ' a fèt quase
ren de sen què f avevo co-
manda, n esté pas vére ?
DoM. Ou centrerò z espéro
què vo sarei conten, quan vo
sarei lo ior gnè z é fét pella
velia en dovè zaourè.
Mét. Senten vei tè vail-
lienzè.
DoM. Don ien què pioves-
set z è attendu a la boteca
dou tailleur et z ai vu de me
zieu racomoda vetro seurtot
avouè lo collet et le foi^erè
nuove, votra zeppa ' nouva, . i
pantalon avene le zétcffè iéran
azeva, et i copava la souvestè.
Mét. Tan miou. Ma t'avévè
a dò ou trei pass lo zapellé
et lo cordonié, et te né pas
ala le trové?
DoM Oa, monseur, lo za-
pellé polechet vetro zapé usa,
i n avet pas mès què a orlé
lo nou. Lo cordmié aveà fini
votrè bettèy et le grou soler de la-
zasse, et le soler fin dou bai.
Mét. Ma a la meison de
35
caladurà mezzora, e poVacqua
a seggi:
Padr..ì4csì tam vuoli fa
creddi d' avei fat nent, de tutt
coul ca fo cmanda, l'è vejra?
Serv. Anzi a sper cai sarà
conterit, quand cai savrà al gir
ca i fat ent dou ouri par la
siià.
• Padr. Sentoumma is tò
proludessi.
Serv. Eni' al iemp calpiou-
viva am son fei^mà an te la
botega dal sartou e i o vist
con j me eucc a comoda al so
frac con bavar e feudra neuva;
al sol visti neuv e ì so pan-
talon con al stafi a i ero fournt,
e al tajava al 'coipet.
Padr. Tant mei : ma t' eri
anca apress al capelà et al
calia, e de costi te n a nent
dama cunt?
Serv. Si signor : al capelà
al spassava al so capè veu, e
j mancava nen che fa l'orlo
al neuv ; al calia pò V ava firn
i stiva, al scarpi grossi da cas-
sa, e i scarpin da bai.
Padr. Ma a cà de me pari
pèsti, eh' in dura mczz ora ;
e poeu giò acqua a séggii.
Padr. Intani con sii robi,
ti fai squasi gnent da coul
che ti dovevi fa ; V è vera ?
< Sarv. Anzi, quand al sa-
vara al gir eh' ho fai per la
città in do ouri, % speri eh' al
sarà content.
Padr. Séntouma i io bra-
vuri.
Sarv. Intani cha pioviva,
im son ferrnaa in dia bottega
dal sari, e i'hoprbpi vist con i .
me oeucclrigiustaa alsosourtout
coni al bavar e fodri noeuvi; la
so marsina noeuva e ipantaloon
coni i tirant eran finì, e 7 gilè
l'era adrè a tajall fora.
Padr. Tanto mei. Ma pe-
rò gh' era lì poc lontaen ai
capplé e 7 calzolar, e t'è mia
cerca cunt da lòr?
Sarv. Si, si signor: igh
dirò fin, che 7 capplé al sop-
prassava al so cappel vece, e
mancava doma da orla coul
noeuv. Al calzolar poeu teva
fini i strivai , i scarpi grossi
da caccia, e i scarpi par balla,
Padr. Ma, in ca dal me
36
padre quando sei andato, che
questo era 1' essenziale ?
Serv. Appena spiovuto,
ma non vi ho trovato né suo
padre, né sua madre, né suo
zio, perchéjeri l'altro andarono
in villa, e vi hanno perriottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno, sarà stata
in casa?
Serv. No Signore, perchè
avevano fatta una trottata, ed
avevano condotto il bambino
e le bambine.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa ?
Serv. 11 cuoco era andato
in campagna col suo signor
Padre, la cameriera e due ser-
vitori erano con sua cognata»
e il cocchiere avendo avuto
r ordine di attaccare i cavalli
per muoverli, se ne era anda-
to colla carrozza fuori di città.
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
Serv. Non vi ho trovato
che il garzone di stalla, ed
a lui ho consegnate tutte le
lettere, perchè le portasse a
chi doveva averle. "^
Padr. Meno male. E la
provvista per domani ?
Tììon pèi'è quan séte ala, sen
i era l' essensiel ?
DoM. Se io qui % a fini de
plouvrèf mai ze n é trova né
votro pérè,nè votra mère, né vo-
tronclié, perqué i son ala ter ne
campagna et i ian passa la net.
Mét. Por ian mon frérè ou
ma seraou dou moen sarà re-
sta a meizon ?
DoM. Na, tnonseur, perqué
i son ala fere euna promenada
et i an amena avoué leur lo
pitziot et la jntzioda.
Mét. / domesteco i eran
zieut foura de meizon?
DoM. Lo quezeniè i èra
ala en canpagne avoué shon
pére, la serventa et i do
domesteco i éran avoùe sha
bella seraou, et lo carossé
aven regu l' ordré d' atéler le
zeva per le féè sorti, ,i era ala
avoué la carossa shépromené.
Mét. Don, la meizon èra
vouida ?
DoM. ' Lic ren trova qué
lo garson di baou, et lié con-
ségna tote le lettere afin qui
le portasse a cét qué- dovea
avelie.
Mét. Pachence. Et la pro-
vegion pè dèfnan ?
a7
qwmd aie andai, sovchi al
era esensiul?
Serv. Appetm & al a finì de
pieuvi : ma i nen trouvà né
so parine so marine so barba,
parche l'air er j son andai* an
campagna^ e'i an dourmi là.
Padr. Me [radè o <ilmen so
mouiè à la sarà stata a cà?
Serv. No signor perchè j
ero andai a Varcej, e i avo
amnacon lor alpcit e lapcitta.
Padr. Ma i servitou i ero
tutti feura de cà ?
Serv. Al cusinè al era an-
dai an campagna con so pari ;
la creada e doi servitou con so
cugnaja, e al carossè avendu
avu brdin de tacà j cava par
amnaj a spass, al' era andai
con la carossa vers Mortara.
Padr. Dunque la cà al era
veujda ?
Serv. Aio trouva nent
atar, che al garsson de stala,
caio conssegnà à lù tut al
litri par eh' à i pourteissa a
chi as deviva,
Padr. Mane mal. E la pro-
vision par deman !
pa, quand ti sé stai, eh' l'era 7
pu bon?
' Sarv. Appena cessa da
piovv ; ma i' ho trova, né 7 so
pa, né la so mamma, né 7 so
zio, parche l'alir érhin andai
in vigilaiura, e han dormì là.
Padr. Me fradell però, o
la so dmna almen , la sarà
stai in ca !
Sarv. Gnanca lar, parche
i évan fai ouna scorsa vers
Varzei, e % évan mena adré 7
fi^Un, e la fix)lina.
Padr. Ma, e la sarvitù
l'era tutta fora da ca?
Sarv. Al cusinee l'era an-
dai fora coni al so scior pa, la
dmsela e du sarvitour coni la
so cugnada , e al carrocciee^
avéndagh ordina da tacca soutt
par fa movv i cavai,, l'era
andai coni la carroccia t^ers
Mortara.
Padr. Dmca la ca l'era
vàia ?
. Sarv. / ho trova altr che 7
siallee, e gh ho consignà tutti
i lettri parche ai portass d chi
gh' andàvan.
Padr. Manco mal, E la
provvisioon par domaen?
38
Serv. L' ho fatta : per
minestra ho preso della pa-
sta, e intanto ho comprato
del formaggio e del burro.
Per accrescere il lesso di vi-
tella, ho preso un pezzo di
castrato. Il fritto lo farò di
cervello, di fegato e di car-
ciofi. Per umido ho compra-
to del majale, ed un anatra
da farsi col cavolo. E sicco-.
me non ho trovato he tordi,
né starne, né beccacce, ri-
raedierò con un tacchino da
cuocersi in forno.
Padr. e del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perchè costava po-
chissimo.Hocomprato sogliole,
triglie, razza, nasello e aliuste.
Pàdr. Cos\ va benissimo.
Ma il parrucchiere non lavrai
potuto vedere?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista d\ zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e cioccolata,
cosi ho piarlato anche a lui.
Padr. E che nuove ti ha
date ?
Serv. Mi ha detto che
DoM. Ze V ey fète. Pè la
seupa z ey prei de paté, et
hen attenden zay azèta de
fromazo et de beuro : pè axm-
menta lo bouilli di ve, z ey
prèi eun bacon de mouton ; ze
faè pouè la frecacha avoiiè dò
servellèy de fèzo et de zot-
flaou : pè la sossa z ey azèta
de gadin et eun canar pè beta
avouè lo zot : et come ze n ey
pas trova né grivè, né pèrni,
né bècassè, ze remédio pone
avouè cuna polla d'inde pè
la faè collere mi for.
Mét . Te n a pas azeta de
peisson ?
DoM. / contréro, zen ey
prei euna quantità perqué co-
tavon bien pok, lo sóle, lo ro-
zet, lo merleuz, et V ornar.
Mét. / est tré bien : mài
n a te pas possu vére lo per-
requè ?
DoM. / contréro ; comen i
a la boteca a coté de cella dou
drogué, iaou z ei fét provegion
de secro, de peivro, de garof,
de canella, de checolat, et pare
z ey encora parla a gliu.
Mét. Qvè novelle (a té
baglia ?
DoM / ni a det qm /" opè-
39
Serv. a / fata: par amne-
stra aio pia de la pasta, e
antant a 'i o erompa dal fm-
mag e dal butir : per cressr al
boui a j pia un\ toc de mou-
ton: lafritvtra à la farò de
s'arveli, de fidic, e d'articioch:.
par stufa aio erompa dal
pourssè e un ània eon al ver-
si; e^sicom aio nen tronvà
né grivi, ne pive, né becasi
a rimedirò con un pichin al
fourn.
Padr. j? dalpessa tuxi nen
erompa ?
Serv. Anzi ano pia una
quantità, parche al votiva po-
chissim; aio erompa soglio-
le, triglie e razza.
Padr. Achsi al va ben. Ma
a 'l pruehè a te la poudu
veddi?
Serv. Anzi sieom' aV a la
botega da cani a conila dal
foundighè, douva a io provisi
dal zuccar, peivar, garofou,
cicolata, acìm aio parla
anca a lù.
Padr. E che neuvj a t' a
dai?
Serv. A ma dit che /' ope-
Sarv. L'è fai; ho piaa dia
pasta par minestra , e intant
ho erompa dal formagg, e di
buttar. Par eraess al boit 'd vi-
dell, ho piaa n tochda birin.
La frattura la farò da scir-
velia, da moli, d'jarticioch. Par
maett in bagna i ho- erompa
dia carna adporscèy e orni ània
da giusta eount i verzi. E
parche ho mai trova né doùrd,
né starni, ' né galinazzi, igh
rimidiaró eount oun pollin, ch'il
farò coss al forn.
Padr. E paess ti ne erom-
pa mia?
Sarv. Anzi tanto parche
ildavan via a strasoia-m^rcà.
E % ho erompa tratti, tenchi
e inguini.
Padr. Così va d'incanto.
May e 'l prueehee ( il avrissi
mia visi?
Sarv. Altr che; parche
avèndxigh la bouttega ariva a
conia dal Fondighee, dova ho
fai provvista 'd zuccar, pévar,
garofol, cannella, e eiccolatt;
insì ghò parla anca a lu.
Padr. E che noeuvi t'ha
dai?
Sarv. M' ha di che l'opera
40
r Opera in musica , ha fatto
furore, ma ehe il ballo è stato
fischiato ; che quei giovine
signore suo amico perde l'al-
tra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire colla diligenza.
Mi ha detto pure che la si-
gnora Lucietta ha congedato
il promesso sposo, e ha fatto
giuramento di non; volerlo più.
Padr. Gelosie.... questa sì
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangiò un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Pàdr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara lutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli migliori;
tra i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
manchino né scodelle, né vas-
soj. Accomoda la credenza con
ra en meseca glia fèt feraou,
mai qui an sebia lo bai; qm
ce zoveno monseur son ami a
perdu V atra net i già tottè le
gagiurèy et què ara i atten
euna occagion pè parti. J m' a
encora dei què madaafivm Lu-
cietta a coììgièda ckon épajou,
et a dgerà de pas mès lo
vére,
Mét. Zelozia..: ouasen què
me fèt rirè ; ma pensen ara
a no.
DoM. Sé V été conten ze
mingio tzieca de pan et .ze'
beivo eun véro de vin, et ze
torno todinco a prendré votré
zordré.
Mét. Comen z ey prèssa
et ze deivo sorti de maizon,
ècouta devàn sen què ze tè
comando, et pouè te mezéra et
te reposerà tot sen qué te vout.
DoM. Comanda, pera.
Mét. Pé lo denéqusno de-
ven fere, prepara tot deden la
mèiliaou zambra, Pren lo manti
et lé.servietté fine: permi le
plat ser cis de porcellana et fé
ensorta qui no manquet né tmi-
din de la sepa né i plat long.
Arenze lo beufet avouè lo frui,
4«
ra an musica a V a fai furour
ina che V bai a f è stai fisca :
che col giovati signor so amie
r atra sejrd a Va perss al
gievjo tut al scomissi, e che
adess al aspetaya per partì
con la diligenza de Genova.
El rfh a anca dit che là siora
Lusietta à la manda a spass
al^ spouss, e a r a giura an
r ou veu pu.
Padr. Gilosii: costa si cam
fa ridi; mapenssonma a noi.
Serv. 5' al e' content a
mang un pò de pan, e a beiv
un hicer de vin, e tourn subii
ai so or din.
Padr. Sicqm aio premu-
ra, e am besogna ca vada
feura de cà, sent prima che
e at oì^din, e pò te mangerà
e t' arposerà.
Serv. Cai cmanda pura.
Padr. Par al disnà ca
jomma da fa, prepara fUt en
te la saletta benna. Pia al
manti e i mantilot pù bon,
sern j piai mei de porslanna,
e procura chi manca né scu-
deli, ne vas. Arangia le bufet
con de la fruta, uga, nous,
le fiera, ma che 7 ball' l'era
tant dent, eh' han fina subbia:
che coulgiovnott sdor, so amis,
l'altra sira V ha perdù luce i
scommaessi al gioeuch , e che
adess 'l speccia d' andà via
coni la diligenza a Genova.
M'ha dì anca sé, che la sciou-
ra Lussietta gh'a dai al sach
al spos .cha V gha promittuu,
e rjia giuraa da vorrei pu.
Padr. Hin gilosii: cousta
puro m' fa rid ; ma adess pen-
souma a nu.
Sarv. S' l' è content, rn^m-
gi 'n boccoon ad paen, e bevi
oun biccier ad vin , e poeu
torni subit ai so conrnnd.
Padr. Spaccia, parche a-
vend pressa, e dov^nd andà
fora dea, senta prima coss i
voeui, e poeu^ ti mangiare , ti
riposare fin ch'at par e piass
Sarv. Ch'ai comanda pura.
Padr. Par al disnà, ch'%
ouma da fa, prepara tutt' in
dal saloli fior. Pia la tovaia
e i mantin pussé boon ; dai
tound scéma fora coui da por-
cellana, e guarda ben che no
manca né scudelli né ministri-
ni ; ràngia la cardenza con
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Serv. e quali pogate naet-
terò in tavola ?
Padr. Prendi i cucchiai
d'argento, le forchette e i
coltelli col manico d' avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini siano
quelli di vetro arrotato. Ac-
<jomoda poi intorno alla tavola
le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà servita
puntualmente. -
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia Nonna.
Tu sai quanto è stucchevole
quella vecchia! Metti in ordi-
ne la camera buona, fa' riem-
pire il saccone e ribattere le
materasse. Accomoda il letto
con lenzuola e federe le più
fini, e cuoprilo col zanzariere.
Empi la brocca di acqua, e
sulla catinella distendi un
asciugamano ordinario ed uno
fine. Fa' tutto in regola, eia
mancia non mancherà.
Serv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose; ma
farò tutto.
42
resin, niou, mandole, roba dmis-
sa, confitée, et vin eunboteillia.
DoM. Et quinte posate fa
té bete su la tabla ?
Mét. Pren le queillieì'
d'arzen, le forqmllinè et i caou-
té (Ivouè lo manzo d' avorio,
et rapella-tè què le caraffe,
le vétro et i bitzerin sien dà
cristal poli : appresta pouè %
tor de la tabla le pi bone
careyè.
. DoM. Vo sarei servi pon-
tealmen.
Mét. Rapèla tè qué seta
net vindra ma granda : te sa
comen è liet nojaousa sala
viélié : apresta He la mèliaou
zambra ; fei He empii lo ques-
sin et battrè i matèlass. Apre-
sta la couze averne le Hncheul
et le quevertè le pi fine, et
quevra la avouè lo ridau. Em-
pley r éguiére d' égue, éten su
lo catin dò suaman, eun or-
denéro et Vatro fin. Fé tot en
^ réli(9, et la bona man no man-
guera pas,
DoM. Vo m' ey comanda
biendè baguè, ma ze farei tot.
43
mandouli,. bounbon e boutegl'i,
Serv. Qual pcmsddi a bu-
irò à tavmila?
Padr. Pia i cugiar e le
forslinni d' argènt, e i couriè
con. al manni d' avoglio, e ar-
cordti che le boutegl'i, i Ucer e
i bicerin i s'io coi de cristàl
moulà : arangia pò atom a la
taula al mei cadreghi.
Serv. Al sarà scrivi a
pountin.
Padr. Aìxordti che sta sej-
ra ai ven la me dado : ti at
sa cum- eu V è nojosa colla
vega. Butta a l' ordin la stan-
za bonna, fa ampi la pajassa
e bali i matarass. Arangia al
lei con i lansseu e al foudrétti
pù finni e creublo C(fti la zen-
saliera. Ampiss la broca de
r acqua e anf al bassii\distend
un sugaman ordinar] e ^n fin.
Fa tut en regola, e la bonna
man la mancherà nen.
Serv. A' la verità lum'a
ordina moutouben de cosi, ma
a farò tut.
su la frutta, u>ga, brigni, nouss,
màndoli, confiture e botteglii.
Sarv. e chepossàdi mei-
tarò giò in tavla I
Padr. Pia i cuggiar d ar-
gènt, e i forzimi e i ayrtei cmint
al munigh d' avòri, e rigórdat
che i dmoli, i biccier e i bic-
cirin sian coui da cristal m/o-
là. Ràngia poeu attoma la
tavla i cadreghi pussè belli.
Sarv. Al sarà sarvt pu
prest eh' al pensa.
Padr. Rigórdat che sta sira
vegna chi la me nonna. Ti
sé ben- coumm V è nojosa coula
veggia. Dada òrdan la stanza
bouna ; fa impim al pajase, e
ribatt i mattar azz, fa al leti
con i lanzoeu e fodretti di pu
fini, e quércial coni la mon-
tadùra. Impinksa al sidlin
d- a^qua, e distenda sul cadin
oun sugaman fin» e vun ór-
dinari. Insomma fa tuli po-
liti, e bornia maen f han man-
carà mia.
Sarv. Anima pugnatta
quanti robi gho da fa, ma
farò tutt ; pagura gnent.
44
DIALETTI DELL^ ANTICO KEGJVO LOAlBAllDO-YENKTO.
Subitechè le due possanze riunite della forza e della
diplomazia tengono tuttora sotto il giogo straniero quella
bella parte dell'alta Italia orientale che resta chiusa tra il
Mincio e l'Adriatico, vollesi conservare l'odioso nome di
Regno Lombardo-Veneto, col meschino conforto. di designarlo
col distintivo di antico. Bene è vero, che se in forza di
decreti di arbitrari Congressi venne a formarsi un' solo
Regno- de' due territorii Lombardo e Veneto, quella riunione
è di troppo recente data, per promiscuare le condizioni po-
litiche di due paesi da tanti secoli disgiunti; per Qui adottai
il consiglio di raccogliere prima le illustrazioni etnologiche e
i dialetti principali delle provincie lombarde e poi delle
venete: non è forse lontano il tempo che queste suddivisioni
politiche subir debbano un sostanziale cambiamento; ora
siamo forzati a rispettarle. Si facciano intanto Ae consuete
investigazioni sul carattere fisico-morale dei Lombardi, per
far poi conoscere i principali loro dialetti.
Quella popolazione dell'antica Italia the tiene il domici-
lio fra Je due sinistre rive del Ticino e del Po e la destra
dell'Adige, ha la massima parte delle famiglie provenienti
dai vetusti invasori Galli e dai più moderni Goti e Lon-
gobardi; sarebbe vano il negarlo e T occultarlo. Frammi-
schiandosi i primi a quei popoli che ci trovarono stanziati,
è molto probabile che come conquistatori introducessero tra
gli indigeni ìe loro leggi e costumanze; quindi le tribù che
avanti Belloveso erano passate dalla vita pastorale all'agri-
cola, nella loro convivenza con gli invasori contrassero forse
attitudine industriale, carne pure inclinazione passionata ai
bagni freddi, alle caccie, alle guerre, insofferenza di lunghe
45
fatiche e mutabilità di pensiero: nel tempo stesso però ad-
divennero più aperti di animo, sentirono vivo impulso alle
opere d' ingegno, ed impararono a mostrarsi intrepidi nel
campo di battaglia al canto dei Bardi. Certo è insomma,
per testimonianza di Cicerone e di Tacito, òhe venne a
formarsi una gran famiglia italica prode neW armi e di se-
vere costumanze.
L' invasione dei Goti non peggierò le qualità morali di
quella popolazione; la di cui civiltà erasi ormai rovinosa-
mente corrotta sotto il dominio imperiale romano degradato
dai vizii e dall' avvilimento: pur nondimeno sdegnarono que-
gli italiani amalgamarsi coi conquistatori chiamandoli barbari,
mentre forse questi si facevano beffe di quel disprezzo di-
venuto impotente. Ma i Longobardi comparsi dipoi, e per
lungo tempo dominatori assoluti, influirono non poco sull'in-
dole nazionale, modificandola con usi e costumi manifesta-
mente germanici.
. Nel successivo dominio degli Inaperatori e Re franchi e.
alemanni, la corruttela, dei costumi, la cupa ignoranza e le
violenze della usurpazione giunsero al colmo anche nella
contrada ormai detta Lombardia: i ministri dell'altare, resi
strabocchevolmente opulenti, impugnarono colla stessa mano
la croce e la spada : i grandi tranquillizzati nelle loro
depredazioni o ruberie col fondare sacri edifizii e dotarli,
si collegarono con chi tenne il supremo dominio, per dispo-
gliare il popolo e schiacciarlo: cadde questo nel massimo
avvilimento, trovandosi posto a bersaglio di tutti gli' orrori
del feudalismo.
Ma il genio italiano, rimasto assopito, non era spento!
La Lega Lombarda e la successiva conquista della libertà
municipale provarono di qual tempra fossero le fisiche e
morali caratteristiche del popolo lombardo. Aflfrancatosi ap-
pena dalla sofferta schiavitù e imbaldanzito nella speranza
46
di un avvenire anche più felice, addivenne intrepido, pru-
dente, frugale, e solamente proclive alle gare cittadinesche,
in forza dei funestissimi germi di divisione fra esso gettati
dallo spirito di parte.
Quei perpetui dissidii misero in cuore dei Lombardi
rabbiosi sdegni e sì forti, che gli avvezzarono a riguardare
come nemici anco i vicini, e tutto empirono di stragi, di
desolazione, di perfìdie e di rapine, mentre la pace e la
libertà avrebbero dovuto raddolcirne i costumi. Ben è vero
che col ricupero della indipendenza municipale si sviluppa-
rono i germi dell industria ; aumentò la popolazione, per la
facilità degli operai di trovare impiego nelle arti ; si accrebbe
r opulenza dei ricchi ; partecipò ad una qualche agiatezza
anche la plebe. I torbidi interni impedivano il progresso
dell'incivilimento, ma la gioventù pertinente a comode fa-
miglie passava perfino le Alpi, per applicare agli studii in
Francia, ove in allora godevasi molta tranquillità. Nei tempi
poi successivi, fino al termine del dominio dei Visconti, inco-
minciò il clero stesso a sfarzare negli abiti e nei bancheèti,
mentre le dispute per punti d'onore venivano decise nella
classe nobile con duelli regolati da prescrizioni governative,
e intantochè adoperavasi il giudizio di Dia nell* indagine dei
reati e per la scoperta dei rei. Ai tempi finalmente del
Duca Filippo Maria, ultimo dei Visconti, salì in floridezza
r industria e il commercio, ma con poco guadagno neir in-
civilimento dei costumi. [
Nel dominio degli Sforza la popolazione lombarda, imi-
tando la milanese che aveva dato segni non equivoci di spi-
rito oligarchico, si mostrò anch'essa turbolenta, proclive ai
tumulti, superstiziosa, incostante,; se nonché nella capitale
salirono in grande estimazione le arti cavalleresche : anzi è
da notarsi, che il ballo singolarmente imparavasi dai* Francesi
e dagli Spagnoli nella scuola di Milano, ed il ballo compren-
47
deva allora altri esercizii ginnastici, come quello di volteg-
giare il cavalletto e la scherma.
Nel successivo governo dei Re spagnoli, di tutti gli
altri assai peggiore, il cavalleresco modo di vivere della
classe agiata subì notabili raffinamenti, ma crebbero in pro-
porzione il fasto, l'alterigia e là superba ignavia dei grandi,
con proporzionata depressione della classe industriosa ed
ancor più del basso popolo. Era necessario infatti, che dallo
stato miserando in cui era caduta la popolazione di Lombar-
dia Sotto il regime spagnolo, venisse liberata da più saggia
Signoria, quale si mostrò per verità l'austriaca sotto 'Maria
Teresa ed i primi suoi successori, i quali alla fatua. magni-
ficenza spagnola sostituendo un lusso da privati piuttostochè
cortigianesco, dispiegarono provvida sollecitudine nello atti-
vare i diversi rami dell' industria, per migliorare la sorte
del popolo ed aumentare la pubblica ricchezza..
VoUesi dare un rapido cenno sopra i costumi degli an-
tichi Lombardi, per farne accurato confronto coi moderni e ca-
ratterizzarli disappassionatamente. La società milanese, ossia
della città primaria, subiva utili e progressive riforme, quando
scoppiò la rivoluzione in Francia. I nuovi principii politici
divulgatisi cagionarono una grande alterazione di interessi,
di abitudini e di opinioni, producendo scissure nelle stesse
famiglie. L' aristocrazia più non primeggiò: il movimento
dato al commercio, ed alle manifatture procacciò alla classe
media una maggiore agiatezza. Il nuovo sistema di educa-
zione dei due sessi, la riforma degli studii universatarii, l'aper-
tura di scuole per le fanciulle, l'esercizio dell'arte militare
in forza di coscrizione, e le frequenti concitazioni politiche nei
primi anni del corrente secolo, contribuirono a dare alla
generazione moderna un caràttere quasi nuovo. E questo
dovrà subire necessariamente altre modificazioni in forza
dei prodigiosi moderni avvenimenti, ma il tipo caratteristi e
48
della popolazione lombarda non resterà così per fretta alte-
rato. Alta statura e belle forme della persona ; bianca car-
nagione e nobile fisionomia ; apparente freddezza» derivante
da dignitoso contegno ; circospetta riservatezza coli' estraneo
non bene conosciuto, ma duore aperto e nobilmente generoso
verso r ospite trovato realmente degno di amichevoli dimo-
strazioni ; somma attitudine intellettuale agli studii severi, e
ben poca proclività agli inetti giuochi di ingegno ed ai forzati
tratti di spirito. Sono queste le caratteristiche principali della
classe agiata lombarda così nobile come cittadinesca : il po-
polo è operoso, industrioso e assai tranquillo; altrettanto
dicasi dei campagnoli, i quali perciò appunto meriterebbero
sorte migliore.
Dialetti. — I Lombardi hanno un dialetto reso nota-
bilissimo da certi particolari modi di dire e dalle preferenze.
La lingua italiana, scriveva il Verri, vien pronunziata sulle
rive del Po con vocali ed accenti afifatto stranieri alla pe-
nisola; per modochè chiunque sia avvezzo al parlare di Roma
e della Toscana, giudicherà piuttosto francesi che italiani i
Lombardi parlanti il loro dialetto. Aggiunge poi il- precitato
storico di Milano, non esser forse inverosimile l'opinione,
che fino dal secolo X si parlasse in Lombardia un dialetto
poco dissimile da quello- oggidì usato, e che nello scrivere
si adoperasse una lingua diversa dalla volgare. Infatti anche
attualmente i Lombardi, non esclusi i men colti, usano nello
scrivere Y italiano idioma, mentre parlando tra di loro ado-
perano un vernacolo talmente deformato, da non essere in-
telligibile ai toscani. E queste pure sono sentenze ed espressioni
del Verri; il quale investigar volendo Tepoca in cui i Milanesi
incominciarono a far uso del loro dialetto, manifestò l'opinione
che la lingua da essi impiegata nei bassi tempi per la scrit-
tura, non fosse quella del dialogo domestico; indotto a ciò
credere dal non trovare analogia veruna tra una carta e
49
r altra di quel!' epoca. I barbarismi e le sconcordanze sareb-
bero stale costanti, se fossero state in uso nel parlare ; quindi
non può intendersi quella varietà di errori, se non suppo-
nendo che ciascuno si ingegnasse di dare una desinenza latina,
come meglio sapeva, alle cose che cercava di esprimere.
Un' altra ragione che persuase il Verri dell' essere parlato
anche nei secoli bassi in Milano e in Lombardia quasi lo
stesso dialetto che il popolo tuttavia conserva, si fu questa,
che la vocale ^^ e il dittongo eu pronunziato alla francese
ed altre desinenze di gallica impronta, non gli sembrarono
innesti fatti durante la dominazione dei franchi, ma. emana-
zione di antica lingua celtica originale. I Longobardi regnarono
più lungamente dei Franchi, e poche voci hanno i Lombardi
di germanica origine : gli Spagnoli poi che nei due ultimi
secoli tiranneggiarono il Milanese, lasciarono le sole voci
infado, amparo, giunta, desdita e poche altre.. Conseguente-
mente la preferenza lombarda, francese più che italiana, è
tradizionale da padre in figlio; essa risale, per quanto sembra,
alle primitive invasioni. In queste materie la dimostrazione
non può sperarsi, è sempre il Verri che parla; la sola pro-
babilità lo determinò ad adottare T indicata opinione. Un
contadino del Milanese può intendersela in breve tempo con
un campagnolo provenzale, mentre assai difficilmente si in-
tenderanno tra loro un villico lombardo e uno calabrese ;
tanto il dialetto lombardo più si accosta all' idioma francese
che all' italiano.
Alle preindicate opinioni del Verri non si mostrò sorda
Lady Morgan : facendo encomio ai Milanesi del purissimo
francese da essi usato aggiunse,- che la u in singoiar modo
è la pietra di paragone tra gì' italiani del mezzogiorno e i
Lombardi : asserì poi che il linguaggio familiare di tutte le
classi èssendo in Milano il dialetto nazionale, sarebbe ivi af-
fettazione volgare V uso dell' accento toscano, per cui è riguar-
50
dato infatti come supremo cattivo tono. Al quale asserto della
viaggiatrice inglese ignoro se piacer possa ai Milanesi di
soscriversi : astenendonai da qualunque confronto e osser-
vazione, lascio aperto il campo a chi vorrà sottoporre ad
esame il consueto Dialogo italiano, tradotto nei tre vernacoli
di Milaìw, di Mantova e di Sondrio, scelti tra tanti altri,
perchè' usati da popolazioni del teirritorio centrale e di due
suoi estremi confini.
Ma in proposito di opinioni e sentenze di stranieri sul
conto nostro, dopo aver riferito quelle di Lady Morgan, di-
menticavo una notizia di curioso e bizzarro carattere ! È
abbastanza nota la mania di certi viaggiatori di pubblicare
le loro relazioni itinerarie di Italia, lardellandole di stranezze
talvolta ardite tal altra futilissime. Ora sappiasi che il gi-
nevrino Galiffe che perlustrò l'Italia verso il 1817, dopo
avere avvertito il pubblico con solenne bonarietà di aver
vedute le italiche contrade dall' alto dei campanili (Tomo I,
pag. 124), avverte altresì, di aver presa cognizione dei varii
dialetti colla viva voce dei servitori di piazza, che egli chiama
maestri, per averli sempre eletti in modo che non sapessero
affatto r italiano ma la sola lingua provinciale, pagandoli tre
lire al giorno I (Tomo I, pag. i 59-1 60) ; e conseguenza
dell'adottato sistema fu quello, che lo indusse ad. anteporre
a tutti i volgari di Italia, il vernacolo adoperato da un fab-
bro ch'ei trovò in S. Donnino, e non già nel casale omo-
nimo di Toscana, ma in S. Donnino presso Parma ! Dopo
ciò si ascolti cosa egli scrisse del dialetto lombardo.
Il dialetto dei Milanesi (Tom. I, pag 77) è tanto si-
mile alla lingua italiana quanto ad ogni altra d'Europa.
Esso è una strana commistione di diversi linguaggi, sopra i
quali domina è vero V italico ; ma la pronunzia è cosi par-
ticolare, che lo fa in tutto differire dall'idioma di Italia.
La vocale u è proferita a modo dei francesi : anzi alcune
51
parole sono pronunciate e scritte nella medesima maniera,
siccome coeur in vece di cuore. Ed hanno gli abitanti di
Milano i suoni nasali, come i francesi : hanno altresì alcune
desinenze spagnuole, talché il loro favellare è sì aspro, che
io non ho udito il stimile, fuorché in Germania. Andando il
signor Galitfe a Pavia, gli fu recitato da un ragazzo un lungo,
dialogo, nel quale si figurava che un milanese è un vene-
ziano, vantassero nel proprio dialetto i pregii delle patrie
loro. Ma né il. ginevrino, né alcuno di quelli che si trovarono
presenti non dubitjirono, che non fosse il secondo più ele-
gante e grazioso, benché il primo abbia una certa espressione
franca e senza artifizio, la quale mirabilmente si adatta al-
l' indole del popolo milanese. Così gli stranieri, parlando di
noi, usano di passare di sentenza in sentenza con una di-
sinvoltura, da imporre talvolta a quelli ancora che sdegnano
d'ordinario. di rendersi ligii air altrui autorità.
52
DIALOGO ITALIANO
TKA UN PADRONE
ED lìN SUO SERVITORE.
PADRONE. Ebbene, Batista,
hai tu eseguite tutte le com-
missioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino ;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città ; ma
poi è piovuto^ tanto!
Padr. Che al solito sei sta-
to a fare il poltrone in un'oste-
ria, per aspettare che spioves-
se! E perchè non hai preso
r ombrello ?
Serv. Per non portar quel-
l'impiccio; e poi jeri sera quan-
do andai a letto non pioveva
più, se pioveva, pioveva po-
chissimo: stamani quando mi
sono alzato era tutto sereno,
e sala mente a levata di sole
si è rannuvolato. Più tardi si
è alzato un gran vento, ma
invece di spazzare le nuvole,
ha portato una grandine che
TRADUZIONE
NEL. DIALETTO
MILANESE.
Padron. Sicché Battista,
et faa tutt i commission che
t\hò daa?
Servitor. El pò sta sicur
che son staa pontual pu che ho
poduu. Stamattinna ai ses e on
quart, seva già in viace, ai seti
e mezza seva a mitaa strada^
e ai voti e trii quart vegneva
deni del dazi ; ma poeu el s'è
miss tant a pioeuv!
Padr. Che ti, segond al so-
let, te saret staa a mena la gamba
irìd'on guai boeme, per speccià
che l'acqua la balcass. E per-
ché no et tolt su l' ombrella?
Serv. Per no tocummadree
queW infesc, è poeù jer sira
quand sont andaa in lece el pio-
veva pu, e se' l pioveva no scap-
pava che quai goti: stamattinna
quand sont levaa su V era tutt
beli seren, e l' è staa doma al
leva del so che T è tornaa ni-
voi. Pussee in sul tard è ve-
gnuu su un gran veni, ma in-
scambi de boffà via i nivol, l'ha
53
TRADUZIONE
NEL DIALETTO
MANTOVANO.
Padron. e ben Battistay
gK è (fan, cai' t' ho diti?
Servitor. Sior si: al siaga
sicur che mi gK ho fati cai e ho
podù per moslramegh pontual.
Stamattina alle ses e un quart
mi a s era za in viaz : alle
seti* e mezza mi a s'era a
mila strada; alle ott e tri
qyart andava dentar in città,
ma pò al gh'ha tant pioeuvut !
Padr. Eh al solit, ti t'sarè
sta a far al poltron in t' na
qual . ostaria a sptarcK an
pioeuvess. Par cosa n è (
toeult con ti /' ombrella ?
Serv. Oh bella, par an
portar con nti ci' imbroi, e pò
a jer sera, quand' a san andà
a lett an piceuveva miga, e se
piceuveva^pioeuveva pochissim;
sta mattina in ti' alba quanda
mi U m'son leva su, V era seren,
e in d' alvaras al sol al sé m-
volà; a mezza mattina al s è
alvà un gran vent, ma in
cambi da serenarasal è gnu
TRADUZIONE
NEL DIALETTO
DI SONDICI O.
Padroct. e bee Battista,
eet face tut quet che to dice
de fa?
Servitor. Scior, mi poss
assicurai de es sta/)c pontual
più eh'. ho podùt. Stamattina
ai ses e un quart s eri già in
viagg e ai sett e mezza s' eri
a mezza strada, e ai ot e
trii quart entravi in città;
ma se l' è peu pioùt !
Padr. Sicché, segond el so-
let, te sèa stùlcc in t' una osta-
rla a fa el poltron per spec--
eia el tzessas de pieuv ! perchè
eet minga tolt drét l'ombrella?
Serv. Per nmi porta quel
impicc; e peujer sira quand
sont andacc a lece, el pioveva
più, sei pioveva, al pioveva
pochissim; stamattina, quand
son levai su l' era tut seree, e
noma dopo la levada del soù,
le tomài a vegnì nigol. Più
tardi l'è dacc su un gran vent,
ma in scambi da cascia via
i nigoli, P ha portai una lem-
54
ha durato mezz'ora; e poi
acqua a ciel rotto.
Padr. Così vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto quasi
niente di ciò che ti avevo or-
dinato ; non è vero?
Serv. Anzi spero che ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due .ore.
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
Serv. Nel tempo che pio-
veva mi sono fermato in bot-
tega del sarto, ed ho visto con
questi miei occhi raccomodato
il suo soprabito con bavero e
fodere nuove; r pantaloni colle
staffe erano finiti, e la sotto-
veste stava tagliandola.
Padr. Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo e il calzolaio, e di
questi non ne hai cercato?
Serv. Sì signore: il cap-
pellajo ripliliva il suo cappello
vecchio, e non gli mancava
che orlare il nuovo II calzolajo
poi aveva terminati gli stivali,
le scarpe grosse da caccia, e
gli scarpini da ballo.
menaa una tempesta che ha
duraa mezzora; e poeu giò
acqua a secc!
Padr. E insci te voeu famm
capi, che f ae faa squasi na-
goti de quell che t' aveva ditt,
vera ?
Serv. O giust ! el sentirà
el gir che Ito faa in dò or.
Padr. Sentimm i to prò-
dezz.
• Serv. Intrattant chel pio-
veva me son fermaa in del sart,
e ho veduu mi coni i mee oeucc
a giustagh su el sorto, e met-
tegh la foeudra e 7 baver noeuv :
la marzinna bleu, e i panta-
lon coi staff eren a V ordin,
e l' era adree a tajagh foeura
el gilè.
Padr. Benissim; ma ghera
pur li atacch el càpellee, e 7
calzolar, e perchè non andagh
anca de lor^?
Serv. Sissignor : el capei-
ke el ghe tirava su el capell
frust, e ghe calava doma de
orla quell noeuv ; el calzolar
poeti V aveva finii i stivai ^ i
scarpon de caccia e i scarpin
de ball.
55
zò una tempesta che V ha dvr
rat mezzora e pò se miss a
pioRuvar a secc arvers.
Padr. a sia manerati a t'è
m'voressidardmtendarch'ant'è
fait quasi gnent dquel che-mi a
t-gh'avtva comanda. An leverà?
Skrv. Anzi mi vuoei spigar
cK al sarà content, quand el
savrà quant pedgar mi ho fati
per città in do ore.
Padr. Sentem pur le (ò
bravure.
' Serv. In quel temp che
piàeuveva mi a m' soni fer--
ma in bottega dal sartor, e ho
visir con sti me occ giunta al
sorabil col bavar e foeudra noe-
va : al so zippan turchin e le
braghe colte staffe i era finii,
e al giustacor l' era adrè che
al le tajava.
Padr. Tant mei; ma a
gK è pur poch hntan. al ca-
pler, e al scarper, e d' questi
anjnè miga cerca cont.
Serv. Sior sì, al capler al
lutava al so capell vece e an
g mancava che d' orlaral
d'noeuv. ALscaiper al hg ave-
va fra i scarpon da cazza, e
i scarpin da baiar.
pesta che l'è duradq mezz'ora,
e peu dopo acqua a triUruc,
Padr. Inci te veu come
famm capi d' ave face quasi
nient de quel che t' avi dice ;
el vera ?
Serv. Anzi speri eh* el
sarà content, quand el savarà
el gir eh' ho faùc per la zitta
in don our.
Padr. Sentim i teu prò*
dezzi.
Serv. Intani cK el pioveva
em soni fermai in bottega del
sartoù, e ho vedùt coi mee
eugg a conscià el so souriù
con baver e feudri neuvi ; la
sua gippa turchina e panta-
loun coi staffi, jera finii, e el
gilè ] era dreet a tajal seù.
Padr. Tant mei. Ma póch
pas lontàn te ghevet pur el
capelée e el scarpolin, e di
quitsch et minga cercàat?
Serv. .Sdoi* si : el cape-
lée el nettava el so capei vece
e noul ghe mancava che de
orlai de neuf El scarpolin
peu leva finii i stivaj e i
scarpi grossi da cascia e i
scaipin de bai.
56
Padr. Ma in casa di mio
padre quando sei andato, che
questo era l'essenziale?
Serv. Appena spiovuto, ma
non vi ho trovato né suo padre,
né sua madre, né suo zio, per-
ché jeri r altro andarono in
villa,. e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno sarà stata
in casa?
Serv. No signore, perchè
avevano fatta una trottata, ed
avevano condotto il bambino
e le bambine.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa ?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor pa-
dre, la cameriera e due servi-
tori erano con sua cognata, e
il cocchiere avendo avuto l'or-
dine di attaccare i cavalli per
muoverli, se ne era andato col-
la carrozza verso la Certosa.
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
Serv. Non vi ho trovato
che il garzone di stalla, ed a
lui ho consegnato tutte le let-
tere, perchè le portasse a chi
doveva averle.
Padr. Ma e de me pader
quand ghe seti andaa, che V è
che premeva!
Serv. Appenna balcau lac-
qua, ma no gho trovaa, né so
pader né soa mader, né so zio,
perché hin andaa in campa-
gna V altrer, e s hin fermaa
là a dormi.
Padr. Me fradell però, o
soa miee ghe saràn staa in ca?
Serv. Sur no, perchè cren
andaa a far una trottada vers
Cassenzagh, e aveven toh su
el bagat, e i tosanett.
PadR. Ma, e la servitù Vera
tutta foeura de cà?
Serv. Elcoeugh Vera foeura
col so sur papà, la donzella
e dna servito^* ei^encon soa co-
gnada ; e 7 carezze, che gha-
veven diti de tacca sott per fa
moeuv i cavai V era andaa a
la cassina de Comm. .
Padr. Donca in cà ghera
nissun ?
Serv. No gho trovaa che 7
ruée, e gho lassaa a lu tutt
i lettér de portai a che ghe an-
daven.
5t
PApK.Main casa ad'me pa-
der quanìl a gsè t'andà? guest
lera quel ch'am premeva d'pù.
Serv. Appena la tralassat
d'pioeuvar : Vw' an gK ho tro-
va . né sa padar, né so madar,
né so zio, perché V alta di i é
andà in campagna, éi se gK é
fermai anca la noti.
Padr. Ma me fradell, o so
Tmjer almen la sarà stada in
casa ?
Serv. Sior nò, perché i è
andà a far na irottada vers
Pietol, e j ha condott secc al
putin e la putine.
Padr. Ma la servitù erla
tutta foeura d* casa?
Serv. Alcoeugh Fera andà
in campagna col so siur pa-
dar, la camerera e dà servi-
tor % era andà con so cogna-
da; e al carros^er eV aveva
avut r ordin da taccar i cavai
per momvrai, al era andà colla
carrozza vers Marmirol.
Padr. Donca la casa al era
voduda ?
Serv: An gK ho trova ch'ai
mozz da stalla, e a lù a gK ho
consegna tutt le letre, perchè
al i ha daga a cKle va.
Padr. Ma in cà del me
pà quand seet andacc, che
quest r era il più nezzessati ?
Serv. Appena la tzessat
de pieuv ; ma go trovai gné
el so pà, gné la soua mama,
gné él so zio, perchè V altrér
jé andacc in campagna, es je
stacc là feu de noce.
Padr. Ma però el me fra-
dei almanc la soua fenma
la sarà stada in cà?
Serv. Sior no, perché feva
face una trottada vers Beu-
benn, e f èva tolt drét el re-
des e i redesi.
Padr. Ma la servitù erela
tutta feu de cà?
Serv. El coeug l'era in-
daco in campagna col scior pà :
la camerera e i dù servitoti,
f era colla soua cugnada, e el
carozzée, che V evà aut orden
de tacca i cavai per meuvei,
r era indacc colla ca/rroz^a
vers S. Pedro.
Padr. Donca la cà Vera
veujda?
Serv. Non gho trovai che
el stalée, al quàl ho conse-
gnai tutt i letteri, perchè el
ju portass a chi f andava.
58
Padr. Meno male. E la
provvista per domani?
Serv. L'ho fatta : per mi-
nestra ho preso della pasta, e
intanto ho comprato del for-
maggio e del burro. Per ac-
cf escere il lesso di vitella,
ho preso un pezzo di castra-
to. 11 fritto lo farò di cer-
vello, di fegato e di carciofi.
Per umido ho comprato del
majale, ed un' anatra da farsi
col cavolo. E siccome non
ho trovato né tordi, né starne,
né beccacce, rimedierò con un
tacchino dà cuocersi in forno.
Padr. e del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perché costava po-
chissimo. Ho comprato so-
gliole e triglie, razza, nasello
e aliuste.
Padr. Così va benissimo:
Ma il parrucchiere non avrai
potuto vederlo?
Sérv. Anzi siccome ha
la bottega accanto a quella
del droghiere, dove ho fatto
provvista di zucchero, pepe,
garofani, cannella e ciocco-
lata, cosi ho parlato anche
a lui.
Padr. Sì m; e la provista
per doman?
Serv. L' ho fada : per mi-
nestra ho toU pasta, ho toit
del formai e del butter : el
vedell de fa a less l'era pocch
e ghe mettaoo insemma on poo
de castraa, per frittura ghe
darov scinivella, fidegh e arti-
ciocch ; per piati de mezz ho
toh dell'animai, e on aneda
de fa coi verz. Né dord, né
pernis, né galinazz n ho irò-
vaa minga : faremm scusa on
pollin coti in del forna.
Padr. E del pess te nel
minga Ioli?
Serv. Anzi, n ho toh on
bordell <? mezz perchè 7 co-
stava ona ciocca; ho tolt di
sfogli, di trigli, de la trutta,
del branzin e di aragost.
Padr. Benissim, ma elpe-
rucchee f è minga capittaa de
vedell?
Serv. Gho parlaa anca a
lu, chel istà giust de bottega
atacch al fondeghee dove son
staa a proved el zuccher, el
pever, i stecchet de garoffol,
la cannella e 'l ciccolatt.
59
Padr. MenmaL E la spesa
par doman al è f fatta?
Serv. a la gKho (aita:
per mnestra a gK ho toh d' la
pasta, e intan ho compra dal
fai^maj,e dal boter.Par cressere
al less d* avdell a gK ho tolt
un tocc d' castra. La frittura
la farò d' zervelle, d' figa e
d' artioiocch. Per umid a gK
ho compra dal porc e una
nadra da far coi cavai, e com
an gK ho trova dal salvadagh,
a gK rimedierem certi un ne-
droi cott a rosi.
Padr. E dal pess an tn è
miga compra?
Serv. Oh sior sì, arisi a gn
ho tolt tant, parche al gKera a
strazza marca. A gKho compra
dal sturimi, di bulbar,na trutta y
di bosghè, di sevvi, e d'ie sfqje.
Padr. A est al va benon.
Ma al bar Ber ant ti' avrò miga
podù védar ?
Serv. Anca guest, com al
gK ha al negozi avsin a quel
del drogher, dova a gK ho fatt
spesa a f zuccar, t' pevar, a
( brocche d' garofol e t'canella,
e t\la cicolata, e a sta rnanera
a gK ho parlai anca con lu.
Padr. Tu sciavo: e la
provision per dommin ?
Serv. L ho faccia: per
menestra ho tolt pasta, e in-
tani ho crompàt formaj e bu-
tér. Per cres el les de vedel,
ho tolt uù toch de castraa. La
freitura la faroo de scei^ella,
de fideg e de artidoch. Per
umed ho crompàt cioun e un
anedra de fa giou coi verzi.
E perchè ho minga trouvàt
gnè dord, gnè starni, gnè
beccazzi, remediaroo coni un
pcmlin^de fa coeus in tei fouren.
Padr. E pes n et minga
crompàt ?
Serv. Anzi n ho tolt tancc,
perchè % costava pochissim.
' Padr. Insci la va benissim.
Ma elperucchèe, et minga podut
vedel ?
Serv. Anzi, siccome el gha
la bottega atag a quella del
droghee in douva ho provedut
zucoher, pever, garofovj cor-
I nella e cioccoiat, insci ho par-
lai anca a luu.
60
Padr. e che QUO ve ti ha
date?
Serv. Mi ha detto che
r Opera ,in musica ha fatto
furore, ma che il ballo è
stato fischiato; che quel gio-
vine signore suo amico perde
r altra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire colla diligenza.
Mi ha detto pure che la si-
gnora Lucietta ha congedato
il promesso sposo, e ha fatto
giuramento di non volerlo piij.
Padr. Gelosie.... questa sì
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito ia ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara tutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli mi-
gliori; tra i piatti scegli quelli
Padr. Cossa ghavevel de
noeuv?
Serv. El m ha ditt che
r opera l' ha faa furor, e che 7
ball /' ha faa fiasch, ohe quel
giovinoti, quell scior^ quell so
amiss r ha perdua V olirà sira
tuli i scomess al gioeugh, e
che adess el specciava de gira
con la diligenza de Bressa:
el m' ha cuntaa anca che la
sura LusieUa l'ha daa el
luigh al so spos, e no la voenr
saveghen d* olter.
Padr. Gelosii ! oh che
scenna ! ma vegnemm a nun.
Serv. Se l me permett
mangi un crostin de pan con
on biccea de vin, e son chi
subit a ricev i ordin.
Padr. Primma d atra coss
a te vui dì che ghoo pressa
de andà fimra de ca, e puè
dopo mangia e dorma finché
te voeu.
Serv. Chel comanda.
, Padr. Per el disnà che sha
de fa meit gvò in la sala pu bel-
la ; tira a voltra la tovaja e i
mantinpussee fin, teù foeura i
tmd deprocelamm eguarda che
61
Padr. e che hceuve f al
dati ?
Skrv. Al m ha ditt, che
l opra al è andada ai sett cei;
e al bai i la fisscià: che quel già-
ven sior so amich V ha pers al
zoeugh tuli lepirie, e che adess
al spetta d' andar con la dili-
genza a Milan. Al m ha ditt,
che la siora Luzieita V ha dal
licenza a lo mar%, e la fat
giur ameni d' an vedaral pù.
Padr. Gelosie da malt : a
cs% m farà lidar, ma pensem
a ìvu.
Serv. Se lù al è content,
mi a mangi un tocc d' pan, a
bev un bicer d' vin, e veng
subit a vedar cosa al emenda.
PADR.Fecfa^ ojdess a gh'ho
premurcd^bisogna cVvagafoeu-
ra d' casa: dofica ascoltam co-
sa ( ordan, e poi magnare e
( arposarè fin eh' tn' è voja.
Serv. Al cmanda pur.
Padr. Per al disnar eh'
em' da far, pi apara tuli in fla
camrapù bella; a (mettere su
la tvaja e i tvajceui pù fin; mei
su i piati d'porzlana e guarda
PÀDR E che nemvi tal
dacc?
Serv. El m' ha dice che
V opera in musica l'ha fa^ìc
furour, mu che el bai V è siau
fissciàt ; che quel sciour gioven
so amts, Votra sira Ihaperdùt
al gieug tutti i scommessi, e
che el specciava de andò via
colla diligenza per Milan. El
m*a dice anca che la doura
Luzietta V ha lizenziai el mo-
rós cìie r èva de teu e Vha
giurai de più voulel vede.
Padr. Gelosii . . . questa
si che la me fa vegni da rxd,
ma adess pensem a nun,
Serv. Se l'è contenta,mangi
un pò de pan e bevi un bic-
cier de vin e tomi subet a
rezef i seu comand,
Padr. Siccome ho pressa
e ho de andà feu de ca, seni
prima quel che te comandi e
peu te mangerie e te possarée
fin che te ne avrée veuja.
Serv. El comandi pur.
Padr. Per el disnà che
ma de fa, prepara tuti in
del salott mioù. Teu feu la
tovaja e i nmniin più fin ^ di
piati teù feu qu% de porscellana
62
di porcellana, e procura che
non manchino né scodelle, né
vassoj. Accomoda la credenza
con frutta.uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Serv. e quali posate met-
terò, in tavola ?
Padr. Prendi i cucchiai
d'argento, le forchette e i
coltelli col manico d' avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini sia-
no quelli di cristallo arrotato.
Accomoda poi intorno alla ta-
vola le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna. Tu
sai quanto è stucchevole quella
vecchia! Metti in orcjine la ca-
mera buona, faViempire il sac-
cone e ribattere le materasse.
Accomoda il letto con lenzuola
e federe le più fini , e cuopr ilo col
zanzariere. Empi la brocca di
acqua, e sulla catinella disten-
di un asciugamano ordinario
ed uno fine. Fa'tutto in rego-
la, e la mancia non mancherà.
Serv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto
no manca né minestrinnnè tond
de portada. Per el desèr poeù
gxmrda ben che ghe sia fruta os-
see, tiga,nos, armandola e regoì^-
det di bombon e del vin forestee.
Serv. Che possad fio de
mett giò.
Padr. Teù foeura i cugiaa
d' argent e i folzellin, i cortei
col mancgh d' avori e regordet
che % bottelli, i biccer, e i bic-
ceritt han de vess quij de cri-
stali mollaa ; mett peù intorna
a la tavola i scagn pmsee bei.
Serv. El sarà servii a
puntin.
Padr. Regor^det chestassira
ven la mia nonna : tei set che
secoada d' una veggia che V è ;
mett a V ordin la mei stanza,
fa impienì el pajase e batt i
materazz, fa el kit, e mett
dent leozoeu e fodref^ de tela
finna. Empis la brocca, e de-
stend sul cadin on sugaman
ordinari e ona servietta finna;
fa n coss polid e ghe sarà
de bev.
Sery. El me n aà daa
del defàf ma lassaroo indree
nagott.
63
can manca le scodelle né le fia-
menghe. Giusta la cardenzacon
di frutty mettagh d' V ùa, d' le
nos, d' le mandole, di confet e
d' lebozze d'vm foraster.
Serv. e d'ie possade quai
mettaroi in tavola?
Padr. a t' gh' è da tor i
cucciar d' argenl, le forzine e
i coìrei col menagli d' avori, e
ricirrdat che le bozze, i biccier
e i bicerinr i sia qui d' cristal
mola; mett pò intoran la ta-
,vola le scragne più bone.
Serv. Lu al sarà servii a
puntin.
Padr. Ricordai che sta se-
ra vegn me nona; ti (sequant
al è fastidiosa eia veda : mett
in ordan la camra bona, fa
impir al pajon d' scartozz, fa
battar i stram^zz. Fa su al
lett coi lenzoeui e le fodrettepiù
fine, e converzal colla senzale-
ra. Impinissi la brocca d'acqua,
e sul bazzin distendagh un su-
gaman ordinari e un aitar fin.
Fa tutt cofn va, che la bona
man an f la mancarà miga.
Serv. In vrità al m'ha
comandai tante cose, ma le
farò tutte.
e procura ch'ai manchi gnè
scudelli, gne .... : Met in
orden la~ credenza con frutt,
uga,^ noùs, mandoli, bombon e
boutegli.
Serv Che possadi ho de
mett in tavla?
Padr. Teu % cugjaa d* ar-
gent, i forzellini, i cortej col
manegh d'avori, e regorded
che i bozzi, i biccier e biccierin
i sia quij de cristal molàt. Mett
peu intom alla tavola iscagn
mioù.
Serv. La sarà servida
pontualment.
Padr. Regordet die stas-
sira el vee la mia ava. Te sé
quant l'è seccanta quella ve-
gia. Metti in orden la camera
bouna, fa impienì el paiaz e
battei mataraz. Fa sii V legg
con lenzeu e fodretii i più fini
e quattel con tendi. ìmpieniss
el sedelin de acqua e sul batzìl
destend un sugamàn ordinari
e un de fin. Fa tutt in regola
e el mancarà minga la bouna
man.
Serv. A dì la vei^tà el
ma comandai tanti robi, ma
mi farò tutt.
64
ILLUSTRAZIONI ETNOLOGICHE
E DIALETTI DELLE PROVINCIE ITALIANE
TUTTORA 8060BTTB A DOMIMI STBAKIBRI.
11 bellissimo e ricco territorio italiano che dal Mincio
air Adriatico, tra le Alpi e gli Appennini distendesi, è tut-
tora distaccato dal Regno d'Italia, ed è soggetto a signorie
straniere; funesta fatalità! Ma la forza usurpò sempre^ le
ragioni della giustizia, e i fugaci cenni storici che ora darò,
lo attesteranno.
ABITANTI DELLA SVIZZZERA ITALIANA
E LORO DIALETTI.
Il nome di Svizzera Italiana suole risvegliare nella mente
dei meno versati nella storia il pensiero, che un' italica
popolazione all' Elvezia limitrofa, svegliatasi al grido di
libertà in quelle alpine valli echeggiante, ed infiammata di
naturale desio di goderne anche essa i preziosi frutti, deli-
berasse in quei tempi nefasti il distacco dall'antica patria,
per associare le sue sorti a quelle dei prodi compatrioti i
di Guglielmo Teli, del Ftlrst e del Malchtal: solenne errore:
l'Italia fu sempre condannata ad esser preda di stranieri
oltramontani !
I montanari dei tre Cantoni, incoraggiati del trionfo
riportato a Morgarten, valicarono verso la metà del sec. XIV
il Gottardo, intimando minacciosi a quei di Leventina di
non molestare i commercianti che di là passavano per re-
carsi in Valle Orsera. Fu quello un atto di giustizia; ma
non molti anni dopo quei di Uri e Unterwalden, resi più
baldanzosi dalle vittorie di Laupen e di Sempach,' calarono
65
di nuovo giù dalle Alpi a rinnuovare le loro lagnanze, e
trovando che il pestifero germe delle fazioni erasi propagato
fino alle sorgenti del Ticino, colsero il destro per istrappare
dai travagliati abitanti della Leventina un giuraniento di
vassallaggio. Per tale violenza V alta Valle del Ticino fino
al confluente col Breono restò dall'Italia smembrata: né di
ciò pago il governo di Uri portò indi a non molto il suo
confine sulle cime del Monte Ceneri, togliendo il feudo di
Bellinzona ai Sacco, che turpemente avevano richiesto il
protettorato elvetico contro i connazionali. L' imperatore
Sigismondo, usurpatore anch* esso, non aveva esitato ad ap-
porre un suggello di legittimità a quella invasione, e ciò
avrebbe prodotto tristissimi effetti, se non avesse saputo
eluderli Filippo Visconti, perchè in allora regnava nelle sue
schiere ordine e disciplina sotto i prodi capitani Della Per-
gola e Carmagnola. Ma la tirannide degli Sforza che usurpò
la sovranità a quella Casa Ducale, riaperse il varco del
Gottardo agli alpigiani di Uri; i quali per capitolato torna-
rono a impadronirsi della Leventina; poi Luigi XII di
Francia, invasore della Lombardia, fece ignominioso mercato
di Blenio, della Riviera e del Contado di Bellinzona col
governo dei tre Cautoni, e la sorte arrideva di quel tempo
così propizia ai Montanari dell' Elvezia, che la Lega Santa
bandita da Tapa Giulio II contro quel Re francese, li rese
padroni di Valmaggia e del Locarnese, indi aperse loro il
passaggio del Monte Ceneri, sottoponendo alle loro armi le
Valli di Lugano e il distretto di Mendrisio fino alla Pieve
di Balerna.
Nel '151 6 erano ormai sotto la dominazione svizzera le
alpine valli italiche del Ticino e della Maggia, colle adia-
cenze del Lago Ceresio; né a quei meschini abitanti si volle
concedere un giusto pattO' di federale alleanza. La fierezza
dei conquistatori li volle soggetti a durissimo giogo, repar-
66
tendo il territorio in otto Baliaggi presieduti da altrettanti
Commìssarii col titolo di Landwogt, che i XII Cantoni ogni
anno vi spedivano, investendoli di alto e basso donainio,
onde esercitare potessero mero e misto imperio. Pel corso
di quasi tre secoli durò l'abietto servaggio dei Ticinesi,
sotto l'oppressione di quei rapaci ministri; per opra dei
quali una s\ bella parte d' Italia era caduta nella miseria
e nello spopolamento, e rimasa avvolta nella caligine della
pid superstiziosa ignoranza.
Le concitazioni politiche, dalla rivoluzione di Francia
alimentate, forzarono anco i governi della Svizzera a di-
mettere r usata fierezza. Basilea, poi Lucerna, indi ^ad uno
ad uno gli altri Cantoni, a un comando napoleonico, rinun-
ziarono al dominio sopra \ Balùtggi Italiani. Quella popolazione
emancipata costituì due nuovi Cantoni della Repubblica
Elvetica, designando a capiluoghi Bellinzona e Lugano; poi
l'Atto di Mediazione del 1803 li fuse in un solo, Fattuale
Cantone Ticino. Ai tempi del napoleonico Regno d'Italia,
non vollero gli abitanti a questo riunirsi, per cui dopo gli
avvenimenti del 1814 corse il rischio di ricadere nella ser-
vitù dei vecchi Cantoni; ma fortunatamente fu proclamata
la sua indipendenza, subordinata al patto federale.
Ne resta a dare un cenno storico delle Frazioni territo-
riali italiane incorpoi^ate nel Cantone elvetico dei Grigioni. Gli
abitanti della celebre repubblica delle Tre Leghe Grigiey
adescati da un invito di Papa Giulio II, irruppero nel 1512
da tre punti in Valtellina, e in men di tre giorni se ne re-
sero padroni. Il solo forte di Chiavenna resistè per nàesi sei:
frattanto i Valtellinesi ebri di stolta gioja convennero a Teglie
in assemblea popolare, ed illusi dal prestigio di ridentissime
speranze giurarono, e crederono lealmente giurata, un'alleanza
confederativa colle Tre Leghe, ma presto si accorsero di es-
ser sempre vassalli, e di aver solamente cambiato padrone.
67
Gravi furono le sciagure che travagliarono quelle misere italia-
he contrade, addivenute Retiche in forza di atti arbitrarii e di
inganni. Che se per comando del primo Napoleone la Valtel-
lina tornò a far parte dell'Italia, restarono però ai Grigioni
le altre cinque alpine Valli di
Val Calanca e Val Me socco o Mèsolcina,
Val Bregagliay
Poschiavo, e
Val di Monastero o di Ram.
ABITANTI E DIALETTI DELLA SVIZZERA ITALIANA.
Nell'isolamento dei Ticinesi dai connazionali, e nel lungo
loro servaggio sotto i Landwogti, quelV italiana fartìiglia non
perde nelle forme naturali il tipo italico alpino. In tutta la
contrada V età fanciullesca è animata da una vivacità che la
rende briosa, ed annunzia precoce svegliatezza ; ma lo svi-
luppo della macchina è spesso accompagnato da tanti stenti
e disagii e dure fatiche, che se gli adulti sono ben presto
capaci di sopportarle ad onta delle lunghe astinenze, il loro
abito di corpo però non acquista membra nerborute né per-
viene ad elevata statura. A ciò si aggiunga che l'estrema
variabilità dell'atmosfera nei siti più alpestri; l'uliginoso
clima dei bassi piani e di alcune rive lacustri; l'insalubre
angustia degli abituri alpini, e in qualche valle di suolo più
sterile la scarsità dei buoni cibi; altrove V immondezza del
corpo e la luridezza degli abiti, sono altrettante cagioni di
malattie, alle quali i Ticinesi vanno soggetti. E tra le tante
miserie che affliggono l' umana specie, anche in questo Can-
tone è assai comune quella dei gozzuti e di non pochi eretini:
nella bassa Leventina e nel distretto di Riviera sono le lo-
calità, ove più che altrove restano deformati gli abitanti dal
68
broncocele : e tra essi non mancano alcuni idioti dall' enorme
gozzo, che in altri tempi hanno servito di barbaro spettacolo
alle popolazioni italiane e straniere, alle quali una tal mo-
struosità era sconosciuta. Fortunatamente diminuisce da varj
anni il numero di quegli infelici, e ciò è dovuto manifesta-
mente ai progressi che la civiltà va facendo nel Cantone,
dopo la emancipazione dall' antico servaggio. Certo è bensì
che non potrà sparire al tutto l'endemia del broncocele nei
luoghi di cattiva aria e soverchiamente caldi ; ma se gli abitanti
di Biasca e di altre località cessassero di far uso di torbide
acque per bevanda, se provvedessero alla mondezza dei lóro
tuguri, se non condannassero le loro donne alle più dure
fatiche, non si perpetuerebbe nelle loro famiglie lo spettacolo
dei cretini, che con nome umiliante, dal tedesco desunto,
essi chiamano Nar che suona stolido, o amente !
Il Bonstetten e l'Ebel, dimenticandosi a bello studio che
i Ticinesi hrmdino politicamente una tribù elvetica, adottarono
i modi insultanti degli antichi Landwogii, sentenziando esser
quella popolazione italica neghittosa, intemperante, amica della
luridezza e miserabile. L' egregio Consigliere ticinese Fran-
scini si die sollecita cura di confutare le ingiurie di quegli
oltramantani, dimostrando esser falso, che il Ticinese ami
l'ozio: egli è invece operoso e paziente nella fatica, né tra-
scura i mezzi che gli si offrono di migliorare la sua con-
dizione. Per tre secoli il popolo di questo Cantone restò nel
più umiliante servaggio ; ciò nondimeno i suoi progressi nella
moderna civiltà furono di gran lunga maggiori che nel Vallese,
nella Rezia e negli stessi Waldstetten dai quali uscivano i
rozzi ed altieri suoi governatori. A ciò si aggiunga, che mentre
negli altri Cantoni della Confederazione addivenne passionata
abitudine lo aggregarsi in corpi di mercenaria soldatesca,
pochissimi sono i Ticinesi inclinati a così umiliante mercato
delle loro persone. Mostrano in ciò generosità di animo ita-
C9
Uano;chè se a taluni è di adescamento ad arrularsi tra Uf-
ficiali stranieri, l'offerta di lucrose condizioni, dispiegano
allora tutto il valore proprio della nazione cui per natura
appartengono. Un solo voto è comune a tutti i buoni citta-
dini del Cantone, che il popolo cioè si mostrasse meno pro-
penso ai-litigj, e che cambiasse le superstizioni religiose in
una solida devozione.
Dialetti. — Nella parte centrale di Val-Cavergno. sulle
rive della Bavona, abita un piccolo popolo, da cui parlasi il
corrotto vernacolo tedesco, usato dai montanari dell' alto Val-
lese. Quelle famiglie provengono, per. quanto sembra, da
un'antica emigrazione di Vallesani, e non ebbero campo di
cambiare l' idioma, per essersi insieme riuniti nell' isolato
comune di Bosco. In ogni altro paese del Cantone si adopra
la lingua italiana più o meno alterata ; tutti poi comprendono
benissimo chi la parla correttamente. Volendo tener dietro
ai diversi vernacoli, se ne troverebbero molti, ed assai
ben distinti da notabile diversità. Alcuni di essi si rassomi-
migliano al hmhardo^milanese, specialmente al mezzo giorno
del Monte Ceneri ; mentre neir alta Leventina fanno risentire
quegli alpigiani \ influenza del continuo loro traffico colla
Svizzera tedesca. Dalle traduzioni del consueto Dialogo, che
ottener potei dalla somma cortesia del Consigliere Franscini,
potrà dedursi la notabile differenza che passa tra il linguag-
gio usato dal popolo Luganese, e quello degli abitanti nelle
valli più settentrionali. In una separata colonna pensai di
notare diverse necessarie avvertenze ed alcune importanti
osservazioni filologiche.
70
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
KD UN SUO SERVITORE.
Padrone. Ebbene, Bali-
sta, hai tu eseguite tutte le
commissioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere statò
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città, ma
poi è piovuto tanto !
Padr. Che al solito sei
stato a fare il poltrone in
un' osteria, per aspettare che
spiovesse ! E perchè non hai
preso r ombrello ?
Serv. Per non portarquel-
r impiccio; e poi jeri sera
quando andai a letto non pio-
veva più, se pioveva, pio-
veva pochissimo : stamani
quando mi sono alzato era
lutto sereno, e solamente a
levata di sole si è rannuvo-
lato. Più lardi si è alzato un
gran vento, ma invece di
spazzare le nuvole, ha porta-
TRADUZIONE
NEL DIALETTO
TICINESE.
Patrogn. e begn, Batista,
t'è eseguici tucc iordan cà t'hoo
dace ?
Famej. Scior, mi poss si-
gurau da vess stace pionda
puntual ca jo poduu. Sta ma-
tign ai seis e um quart mi sera
jà in strada ; ai seti e mezza
mi sera a mità strada, e ai
voti e tri quart mi entrava in
zita ; ma pee lora V è piovuu
tant !
Patr. Ca sigond al solit
tu sé stacc a faà 'l poltrogn
int um n ostaria, a speccià ca
balcass. Ma parche t' a tecc su
mia l' ombrella ?
Fam. Parnu porta cheli' im-
picc ; a pee jer d' sira quand a
sem nacca durmi piuveva più,
sa piuveva, piuveva sqtms
nota ; stamatign quand a sem
stacc suj Vera tutt saregn, e
dumè a la ruvada du, sou l'è
nicc nugru. Pi tard Ve dacc
su um grand air, ma iscambi
da scova via i nugri, a por-
toti' tampesta e ha durou mcjs-
71
TRADUZIONE
-NEL DIALETTO
DI LUGANO,
Padron. Insù, Battista, ètt
fai tutt quèll che t'hoo dii?
Servitoo. Poss sicurall,
scior, ehm fai quéll choo pò-
duu. Stamattina ai sès e on
quart i era già in strada, ai
sett' e mezza era a mila stra-
da, e ai vott e trii quart nava
dent in città; mu lepoeu vegnu-
da tanta slénza!
Padr. Che segond ol solit
tao saree stai all' osiaria a liz-
zonnà, specdand eh* al cessas
da pieuf! Parche ett minga
tòlt su Vombrèlla?
Serv. Par noo seccam a
portàlla : epoeujer sira quand
nava al cobbi al pioveva più,
sai pioveva al pioveva nient;
stamattina quand sont levaà su
l* èva tutt saren, e V é tomaa
nivol damma alla levada dal
soo. Pussee tard l'è vignuu su
on ariascia, cha l'ha minga ca-
sciaa via i nivol, ma l'ha por-
taa ona tampèsta, cha l'è dw-
OSSERVAZIONI.
OSSBRVAZIOKB I.
Gli articoli ii /o subiscono alterazioni
diverse nei vari Distretti cantonali: in
alcuni luoghi si trasformano in ^IjOt^or;
altrove in n, /«, «r ; talvolta in ro e ru:
anclie il femminile la in qualche paese è
cambiato in ra.
OSSERYAZIOKB II.
Saggio di nomi in diversi modi cUterati.
Carne : carnj chiarn^ chern, chiern^ e' ern.
Capra : cavra, chiavra, chevra, chiò (plur.
chior.)
Calzoni: calzogn, cauz,' chiauz, cheuz,
Ischiauz,
Brache: bragh, braiy brei.
Calza, calzetta : calzela^ cauzeta, chiauze-
ta, tschiauzeta.
Chiesa : cesa^ gesa^ geita, gise^ gisi.
Mano : magn, magàn^ megn.
Fuoco : fcBugh, feugh, fegh^ feui, fin.
Focolare: fogorky fuguràj fugare, fujaré.
72
to una grandine che ha durato
mezz'ora, e' poi acqua a eie!
rotto.
P ADR. Così vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto qua-
si niente di ciò ohe ti avevo
ordinato; non è vero?
Serv. Anzi spero che Ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
Serv. Nel tempo che pio-
veva mi sono fermato in bot-
tega del sarto, ed ho visto
con questi miei occhi racco-
niodato il suo soprabito con
bavero e fodere nuove ; i pan-
taloni colle staffe erano finiti, e
la sottoveste stava tagliandola.
Padr, Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo, e il calzolajo, e
di questi non ne hai cercato?
Serv. Sì signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio, e non gli mancava
che orlare il nuovo. Il cal-
zolajo poi aveva terminati gli
stivali, le scarpe grosse da
caccia, e gli scarpini da ballo.
Padr. Ma in casa di mio
z Ola, e pee lora ju aqm a
squass.
Patr. Isci ti tu vei fam
savei, ca tu e face sqvxiss nota
(li chel ca mi f eoa comandou :
rè vera?
Fam. [scambi mi eradica
sarii conteni, quanta ca sava-
7ii 7 gircajo face par la zita
in dò or.
Patr. Senttm i to bramr.
Fam. Quantacapiuveva,am
sem farmou in la butia du sni-
dru, efho vist coi me eco omna-
dou su 7 vespachesCf con bavar
e fedra new di trinca : la vossa
zacca bleu e i pantaloi coi staff
eran finid, e 7 corpet V era drè
a tàjalo.
Patr. Tantu mèj. Ma tu
ghivat a poch pass 7 capelèi
e 7 sciavattign, e tu ne mia
cattou cunt?
Fam. Sdor sì: 7 capelei u
neteva 7 ves capei vece, e nugh
mancheva più che da orla chel
neu. X calzular pei l'èva finid
i strivai, i cauzei da cascia, e
i scarpign da ball.-
Patr. Ma tu se pè nacc a
73
rada fì\e%si'ora\ e doppo acqua
a segg.
Padr . Insci la voeurat famm
cred d'ave fai quasi nagotta da
quèll che t'hoo comandaa;neel
véra?
Serv. Speri ansi ch'ai sarà
cmienty quand gha diroo ol gir
chòo fai par la città in dò oor.
Padr. Sentimm on poo i
tò bullad,
Serv. Quand al pioveva
ma sont fermaa in la bottega
dal sart, e hoo veduu coni sii
mee oeucc tuttrimettuudanoeuv
ol bavar e i foeudar al so sor-
to : la so marsina turchina e i
calzon coi staff j era finii e 7
taiava foeura ol gilè,
Padr. Tantmei. Ma par-
che seti minga andai dal cap-
pelle e dalsdavattm chajevan
lì press?
Serv. Sctor si cha sont an-
dai: ol cappellee al spazzettava
ol so cappèl, e noo gha manca-
va che orlali da nóeuv. 01 scia-
vattin r èva finii i strivai , i
scarpon da cascia, e i scarpètt
da ball.
Padr, In cà da me padar,
QSBEIIVAZIOFIB 111.
Saggi di verbi in diveni modi tuali.
Leggere : leg, leisg, leng,
Scrivere: scrir, scrtu.
Fendere : fend.
Pendere : pend.
Cuocere : coeuss, cheusi, chiuts.
Piovere : pioeuv^ piou.
Muovere : moeuv, mou.
Mugnere: mongj molg, moug.
iV. B. I polisillabi sdruccioli diven-
gono spesso monosillabi.
' OSSBRVAZIONB IV.
Vocaboli Ticinesi
comuni col Tedttco Svizzero.
Tic. Alp. Ted. Alpe. Ital. Pastura di
monte.
I' Fogn. » Fohn. » Garbino;
venta, di
ponente.
» Chugr- » Gugsete » Pioggia
con neve.
» Chilbi. » Kilbe. » Festa tito-
lare.
» Luina f » Lauine. » Lavina;
slavina. Avalan-
' che dei
Francesi.
74
padre quando sei andatOi che
questo era V essenziale ?
Serv. Appena spiovuto,
ma non vi ho trovato né suo
padre, né sua madre, né suo
zio, perché jeri l'altro andarono
in villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno, sarà stata
in casa?
Serv. No Signore, perchè
avevano fatta una trottata, ed
avevano condotto il bambino
e le bambine.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor
padre, la cameriera e due ser-
vitori erano con sua cognata,
e il cocchiere avendo avuto
r ordine di attaccare i cavalli
per muoverli, se ne era anda-
to colla carrozza fuori di città.
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
Serv. Non vi ho trovato
che il garzone di stalla, ed
a lui ho consegnate tutte le
lettere, perché le portasse a
chi doveva averle.
Padr. Meno male. E la
provvista per domani ?
cà de /ne padri, ca l'era 7
prenzipal!
Fam. a pena balcou: ma
j ho trovau ni vess padri, ni
mam vossa, ni vess barba, par^
che inanz erfen noce in cam-
pagna, e gKan passou la noce.
Patr. Ma almanch a gK sa-
rà stacc in cà 7 me fardél, o
la so femma ?
Fam. Scior nò,parchèfevan
face na irottada vers 7 Poìit de
Biasca (il Ponte di Biasca), c/'é-
van menou isema il tous e 7 tosai.
Patr. Ma la servitù Vera
tuta fora d! cà?
Fam. X cheuch V era nacc
in campagna col vess pà ; la
dunzella, e dui famsi eran con
la vossa chignada, e 7 carocej
ca l'èva ro/ceoii Vordan da tacca
sott i cavaj per movai, /' era
nacc cola carocia verz Gior-
nich (Giornico).
Patr: Donca la cà Vera
veida ?
Fam. Gh'ho truvou dumé 7
stallei, e a lui gh' ho consignou
tucc i lettri da poiHai in de
eh' jeoan.
Patr. Manch mal E la
provisiogn par domàgn ?
75
cha /' èva ol pussee necessari,
quand sétf stai?
Serv. Appena cessao da
pioeuv; ma noo gheva né so
padar, né soa madar né 7 zio,
parche V alirer j è nai in vi-
gilatiiray e j està là a dormì,
Padr. Donca tao avree tro-
vaci in ca me fradèll, o la soa
doìina?
Sérv. No signor , parche
jevan fai ona trottada finna a
Milt, (Melide) e menaa insèma
ol tós e le tóse.
Padr. Ma la servitù leva
tutta foeura da cà?
Serv. 01 coeugh l^eva an-
dai in vigilatura col so scim-
padri ; la donzella e duu sei*-
vitoo jevan con soa cugnada ,
e 1 carocciee avend vuu ordin
da tacca i cavai por fa moeuv,
leva nai colla caroccia verso
Agra {nel piano di Scairolo).
Padr. Donca gh* èva nessun
in cà?
Serv. Gh' èva dommà ol
garzon da stalla, e g hoo dai
iutf % lettri dà portass a chi j
andava,
Padr. Mèi che nagotta. Ei
provvision par doman?
Tic.
(Seguono i
Vocaboli Ticinesi
comuni
col
Tedesco
Svizzero.)
Pizooan,
TnD.BizokeL
iTAL.Gnocchi.
Colma.
it
Gulm ,
kulm-
cuolm.
»
Cima,
vetta.
Sniz.
M
Schnitz
Pere.
Scoccia.
»
Schot-
ten»
Siero con
ricotta.
Zuffa.
»
zaffi.
Siero con
ricotta
molle.
Trolar,
»
Trohler,
Accatta-
brighe.
Tracia.
B
Trikkli.
Cassa da
vetrajo.
Vehaì,
>.
Weibel.
Usciere.
Zigra.
.'
Zieger.
Ricotta.
Snidar.
»
Schnei-
der.
Sarto.
Scribar.
»
Skrei-
ber.
Scrivano.
Snéllar,
»
Schnel-
ler.
Facchino.
Loiiig.
»
Luslig.
Allegro.
Tunar.
»
Thuner.
i>
Garzone o
fattorino.
I
76
Serv. L' ho fatta : per
minestra ho preso della pa-
sta, e intanto ho comprato
del formaggio e del burro.
Per accrescere il lesso di vi-
tella, ho preso un pezzo di
castrato. Il fritto lo farò di
cervello, di fegato e di car-
ciofi. Per umido ho compra-
to del majale, ed ufi* anatra
da farsi col cavolo. E sicco-
me non ho trovato né tordi,
né starne, né beccacce, ri-
medierò con un tacchino da
cuocersi in forno.
Padr. e del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perchè costava po-
chissimo.Hocompra tesogliele,
triglie, razza, nasello e aliuste.
Padr. Così va benissimo.
Ma il parrucchiere non lavrai
potuto vedere?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e cioccolata,
così ho parlato anche a lui.
Padr. E che nuove ti ha
date?
Serv. Mi ha detto che
Pam. L ho faccia : par ma-
nestraj'ho tecc pasta, e intani
j fho crompou formagg e bidu.
Par'cì'ess 7 less dei videi, fho
tecc um tocch det crastrogn. La
I fritura la farò det sciurvel, det
I fidi. . . . Par stuvàfho crom-
I pou carn basdeu, e um nana-
< da da cumadà là coi verz.
I E dajà ca no f ho trovou ni
dord, ni parnis, ni galinasc,
àgh ramediarò cor um polign
da cheuss in du forn.
Patr. e det pès tu n e
j crompou mia ?
j Pam. Al contrari n ho tecc
1 in buììdanza, parche 7 costava
; squass nota. l'ho crompou tiuit,
I tentar, inguili
Patr. Iscì la va benissim,
' Ma 7 barbei tu 7 nurè vidii?
j Pam. Anzi sicoma 7 g' ha
i la bottia d' apreu a chella du
droghej, in de cafho face prò-
visiogn det zucro, pevar, gaio-
fri, canela, e cicolatt, parcìwll
f ho parhu anch' a lui.
Patr. E chi notiziu t'ha
I dacc?
Pam. X m' ha dice ca la
77
Serv. /' hoo fai : par la
menèstra ho tòlt pasta col so
formagg 'i e butter. Parche ol
lèss da vedèll l'èva un popooch,
ho compraoo on toce da castraa.
La frittura la faroo da scervèll,
da fidigh e d'artidocch. Par ol
piatt in umid hoo compraa dal
porcèl, e on annnadadacusinass
coi cavolfior. Dord, pernis, ga-
linasch, n'hoo minga trovaa ,
ma gha rimediaroo coni on poi-
Un còti in dal forno.
Padr. e péss neit minga
compraa?
Serv. iV hoo compraa anzi
tanti, parche i custavan pooch.
Eoo tòlt truut {troie), pèspèsper-
sipg (pescie persico), teng (tin-
che), inguill (anguille) e lam-
préd (lamprede).
Padr. Va benissm. E'iper-
rucchee /' ett minga veduu?
Serv. Scior sì ; e parche al
gha là bottegha press a^ quella
dal droghee, dova hoo tòlt me-
car, pevar, garofoll, cannella
e doccolat, g hoo parlaa anca
a luu.
Padr. E cosa ( hai dii su
da noeuv?
Serv. Almaadiiche l'Ope-
OssBRyAZIo^£ V.
Vocaboli Ttcinen comuìii col vertiacolo
del Vallexe, o Romanzo- francese.
Tic. Butà. VkLL.Bouià. Ital. Abortire.
» Malt. » Mattogn. « Fanciullo ,
ragazzo.
Maia. » Matta. » Fanciulla ,
ragazza.
• Pasiét. t Patseù » Palo da vi-
te.
Osservazione VI.
Di alcuni Vocaboli proprii
dei vernacoli Ticinesi,
ne
, Ini,
Ital
. Dentro.
»
D' jsorint.
»
Palco interno
superiore.
"
D' zottint.
»
Palco interno
a terreno.
»
Sàrodan.
»
Serotino.
»
Incora?
»
Quando ?
»
Gramarzé,
»
Per sua grazia.
«
Vita vita.
»
Vedi, vedi.
»
Trova requie.
»
Trovare riposo.
a
Compie.
»
Basta.
»
Froda,
»
Cascatadi fiume
»
Sajotru ; salta-
martign.
»
Cavalletta.
»
Cogia, soogia,
slavina.
j)
Frana.
78
r Opera in musica ha fatto
furore, ma che il ballo è stato
fischiato ; che quel giovine
signore suo amico perde V al-
tra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire colla diligenza.
Mi ha detto pure che la si-
gnora Lucietta ha congedato
il promesso sposo, e ha fatto
giuramento di non volerlo più.
Padr. Gelosie.... questa si
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
' torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara tutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli migliori;
Ira i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
manchino né scodelle, né vas-
soj. Accomoda la credenza con
Cumedia l'era bellissima. . . .,
e ca cheli jovan scim^ vés amis
rautra sira Ihaperdù algetzgh
tvcc i scommess, e eh' adess 7
specdava da nà via in diligen-
za por Milagn. X m ha anch
dicCy ca la sdora Luzia l'ha
dacc schumiou al sé spous, e
l' ha giourou dà vorè videi
mai più.
Patr. Gialousia... o chesta
sì ca là 'm fa ghigna ; ma
adess vtgnim nui.
Fam. Sa vui sii content,
mangi um boccon d pagn, e
bevi um bider d' vign e vegni
d'subat à razeu i vess cumand.
Patr. Sicoma gh'ho pressa,
ej'ho da nà fora del cà, sconta
prima chel cK at cumandi e pè
lora tu mangiarci, e tu ripo-
sar et fina ca 7 piaserà.
Fam. Cumandeicuma vudi.
Patr. Para al disnà ch'am
da fa, prapara tut cos in la
sarà la pli bella. Tè scià la tu-
vaja e V mantign pi fign ; di
piati (o t&nd) tè fora cui del
porscialana. Prapara frutta,
uga, mms, armandol, bomboi,
e botili.
79
ra in musigaVha fai furor, ma
cKel ball V è sta fisciaà : che
quél scior giovan, so amis, l'ha
perduu r altra sira a giughà
tutt' i scommèss, e cKal spèttaa
adess d' andà. col vebcifar a
Milan. Al maa dii anca che la
sdora Ziètt V ha gha daa ol
rugo al spoos ch'ai gheva im-
ptomettuu da taulla, e l'ha giù-
raa da vedéll mai piti.
Padr. Gelosia . . . questa
mò la ma fa propri rxd : ma
le ì)óra da pensa a numm.
Serv. S' alji0rmet, boccmii
e bevi on zigh, e vegni in on
stralìisch a ciappà i so ordin.
Padr. Porche ghoo pressa,
e voeui nà foeura da cà, scolta
adess quèll cha tee da fd , e
doppo mangia e settat già fin
cha too voeurat.
Serv, Sont chi,
Padr. Pai distia cK emm
da dà, prepara tutt in la sarà
bella. Tira foeura la tovaja, i
mantin pussèe fin, e i tond da
porcellana, e guarda ben cha
gha manca minga ne scudèll,
né basai. Métt in ordin la cre-
denza : fa cha gha sia frutta,
Tic. Afida,
ITAL
. Zlj.
t» Schérz,
»
Arnia d'api.
» Sch'mersc.pri-
»
Precipitarsi da
gurà.
un'altezza.
» Sceng.
n.
Piccola pastura.
» Inscengià,
Chiudere una
bestia in qual-
che luogo.
V Sarudfi,
»
Siero del cacio.
» Sarogn,
»
Siero.
Lac, léc^ casou.
»
Siero bollito.
» LaCj pen.
» ■
Latte avanzato
al burro .
» Lac scramon.
>'
Latte senza
panna»
» Lac gras.
Latte puro.
« Penagia.
»
Vaso per ia cre-
ma.
» Panày pena.
»
Fattura del
burro.
» Grama (lev,) i
» Fiora {bellinz.) >
« Terhm (lug.) )
»
Crema o fior di
latte.
» Slarlusc,8tràlu8C.
»
Lampo bale-
no.
» Starluscià.
»
Lampeggiare.
so
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Serv. e quali posate naet-
terò in tavola ?
Padr. Prendi i cucchiai
d'argento, le forchette e i
coltelli col manico d' avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini siano
quelli di vetro arrotato. Ac-
comoda poi intorno alla tavola
le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna.
Tu sai quanto è stucchevole
quella vecchia! Metti in ordi-
ne la camera buona, fa* riem-
pire il saccone e ribattere le
materasse. Accomoda il letto
con lenzuola e federe le più
fini, e cuoprilo col zanzariere.
Empi la brocca di acqua, e
sulla catinella distendi un
asciugamano ordinario ed uno
fine. Fa' tutto in regola, e la
mancia nop maccherà.
Serv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
Fam. Chi posai j arò da
met in tavoa?
Patr. Ciapa i cugei d'ar-
gent e i forscelL e % ctyrtei col
mane d'avori, e ragordat ca
i buleli, i biàer, e i. bicierit
Sion cui del crustal. Cumeda
pei intorn alla laura % cadì'ii
pi beli.
Fam. Sarii sarvid a dovei.
Patr. Rafjf/rdat ca sta sira
vegn la me ava. Ti tu set
cuma tè mal contenteura chela
vegia! Met in ordan la cambi^a
bona, fa impienì la Insacca, e
fa ball i m^ataras. Fa su, 7
léce con lanzei e fodret ipì fign,
equereialsu con una bella quer-
ta. Impieniss la broca d'aqua,
e sul cadign da stmid vm su-
gamagn ordinari e un fign. Fa
tutt co^ in regola; la bonamagn
la mancarà mia.
Fam. In verità vui m* hii
commdou tanti coss, ma farò 7
tutt.
N, ìi. Qaesto Vernacolo è particolar-
mente usato nella Leventina inferiore.
81
nòosy armandol, bims e bottegli.
Serv. Che possad hoo da
inelt già?
Padr. / Cìigiaa d'argent, i
foìxellinn e i corfeii col manigh
d'avori ; e régordat che i boi-
ìègìiy % Inccier e i ìnccierìn sian
quii da cristall moraa. Mètt
poeu intorno alla tavola % scqghn
pussee bon.
Serv. Cha la lassa fa da mi.
Padr. Régordat che sta sira
vègn là mia nona. To see che
quella véggia l'è mai contenta!
Dà vèrs alla stanza, fa impinì
la pajazzd e batt i matarazz.
Métt in dal legg i lenzoeu e i
fodrètt pussee finn , e quatlal
su cont ona bella coverta. Im-
piniss d'acqua ol sedellin, e sul
cadinmettigh dò serviétt, vuna
fina e l'altra ordinaria. Fa tutt
c6$ in regola, cha ta dappa-
ree la bonaman.
Serv. A digala, al ma co-
mandaa tanti robh, ma faróo
tutt.
Osservazione VII.
Confronto di alcuni vocaboli Leventinesi
col vernacolo Romansch.
RoM. IContns Lev. Qaauc Ital. Quante
uraa? or?
ore?
» Séniestes. » Sunestra. »
Sinistra.
Cuoìm. » Co'mt. »
Montagna.
» Ual. » Ria. V
Rio.
» Maladur- » Sfigura. .»
Sicura.
da.
» Las. b Lue. *
Latte.
» Om, f Eu. »
Ova.
» KaijeL *> Caseu. »
Cacio.
» Komba. » Comba. »
Camera.
» Aurizi. » Aurizi. >'
Turbine.
» Slrempre- » Tamporal. »
Temporale.
di.
-
» Fein. » Fegn. »
Fieno.
» SejniU' y> Sosnù. »
Governare
nar.
il bestiame
nelle stal-
le.
82
DIALETTO ROMENGIO
CON ILLUSTRAZIONI ETNOLOGICHE.
La celebre repubblica svizzera delle Tre Leghe Grigie
rinunziar dovette, per comando napolenico, all'antica con-
quista della Valtellina, naa re3tò padrona di quattro frazioni
territoriali che all' Italia fisicamente appartengono. Sono
vallicene di piccola estensione, distinte col nome di
1. Val Calanca e Val Mesocco o Mesolcina;
2. Val Bregaglia;
3. Poschiavo ; e
4. Val di Miinster o del Monastero.
Ma questo cenno storico richiama alla mente notizie
etnologiche, forse a molti ignote, e che non possono tra-
scurarsi da uno scrittore toscano : dovendo deviare dal su-
bietto per illustrare una contrada transalpina, cercherò un
compenso nella brevità.
Quelle montagne alpine ove scaturiscono l' Inn ed il
Reno, sono coronate da superbe cime, sulle quali biancheg-
gia eterna la neve. Asserisce T. Livio nella prima delle sue
decadir che in quei recessi alpestri penetrarono alcuni po-
poli di losca origine, i quali fermato avevano da qualche
tempo il domicilio nei feracissimi piani confinanti col Po e
bagnati dalFAdda. L'orrida asprezza della nuova dimora
spense a poco a poco ogni germe. di civiltà negli emigrati,
i quali corruppero perfino il primigenio idioma nativo ; e
questo ancora si asserisce dallo storico padovano. Ora sic-
come non è presumibile che per solo capriccio, o per vana
brama di acquistar terreno, una colta popolazione preferir
volesse deserte ed orride contrade al beato soggiorno del-
l' alta Italia, ammetterò di buon grado la tradizione istorica
che quella loro ritirata avvenisse nel primo secolo di Roma,
620 anni prima dell' era volgare, per lo spavento suscitato
83
dalla repentina connparsa delle formidabili orde galliche
guidate da Belloveso; ma che un duce loro di nome Reto
gli spronasse a quella fuga e fosse loro di guida sui varchi
alpini di Val Mesocco, sicché per eternare la di lui memoria,
chiamassero poi Rezia il paese di loro rifugio, ed essi stessi
bramassero cambiare il nome loro di Thusci in quello di
Rezii, è opinione arbitraria, o priva gimeno di documenti
auteutici. Vera è che nel vetustissimo osco idioma, la voce
Rhea esprimeva forse il nome di una qualche divinità, ve-
nerata da quei fuggiaschi nella loro terra di asilo; tanto più
che gli Àtlantidi dell' Affrica veneravano in Rhea la figlia
di Urano, simboleggiando in essa la terra coltivata: vero è
altresì che gli Egizii chiamavano Rhe il sole, e che i Cretesi,
nella loro Teogonia avevano fatto di Rh^a una moglie di
Saturno : ma queste indagini di mitica origine ne condur-
rebbero in controversie intricate, che bramo evitare. Certo è
che nel paese ora fletto dei Grigioni molte località ebbero
il nome desunto dal radicale Rhea, ed alcune lo conservano
tuttora; basti il ricordare Rhaetzun primario castello della
contrada, Rhaeom altra rocca della valle di Ober Halbstein,
Bhaealt casale della valle di Domleschg, Rhaettigau ora
PrettigaUi vasto paese irrigato dal Lanquart.
La rigidezza del clima die gran vigoria al temperamento
dei Rezii; l'asprezza del suolo gli rese indomiti nell'eser-
cizio delle più dure fatiche ; la securtà e le dolcezze del
viver libero svolsero in essi i germi di un passionato amore
all'assoluta indipendenza. E poiché il numero delle loro fa-
miglie andava aumentando, dilatarono le loro frontiere fin
verso il Lago di Costanza: pretendasi anzi che i più vicini
di domicilio air eccelsa giogaia alpina, resi arditi dal sentirsi
più forti, tornassero a varcarla, e non contenti di riprendere
in Valtellina le dimore dei loro antenati, osassero perfino
di provocare a tenzone le legioni spedite da Roma ad oc-
cupare le feraci rive del Po. Ma i destini di quella città
potentissima la volevano di quel tempo signora del mondo
non eravi infatti asprezza di siti inaccessibile alle aquile
latine, né ardua impresa che le romane legioni non con
ducessero a fine con prosperità costante di successo. Lungh
anni costò bensì ad essi il cacciare dalle rive dell' Adda
ferocissimi Rezii, che essi chiamavano 6ar6an; e per rin
chiuderli entro le loro gole alpine attaccare gli dovettero
nell'opposto lato settentrionale, forzandoli a risalire il Reno
sino alla Valle del Prèttigau. Questa ultima impresa fu con-
dotta da Druso, figlio adottivo di Augusto; la Rezia restò
dipoi sotto i Romani qual paese di conquista.
Nelle procelle politiche del V secolo passar dovettero
i Rezii dal giogo imperiale sotto quello degli Ostrogoti ; poi
sotto il ferreo de Longobardi e dei Franchi. È tradizione che
un re di longobardica stirpe concedesse la signoria della
Rezia a un dovizioso possidente della vallata di Domleschg,
chiamato Vittore, e che il potere supremo si mantenesse poi
ereditario nella famiglia sua fino a Tello vescovo di Coirà,
che vivea sul cadere del secolo VIU, e nel cfuale rimase
estinta: successivamente vuoisi che Carlo Magno investisse
di tale dignità i vescovi di Costanza. Certo è che la nobiltà
feudale introdottavi dai Franchi andò propagandosi straordi-
nariamente : sulle rupi isolate di ogni vallone si vide sorgere
una rocca ; entro ciascuna di esse stava rinchiuso un tiran-
nello che infestava colle sue ciurme la subjacente contrada,
portando la desolazione nelle famiglie. A quello stato di
umiliante servaggio aggìungevasi la calamità pubblica delle
guerre perpetue, che quei ladroni feudali tenevano accese
fra di loro: ma nel petto dei Rezii si riaccese il sopito va-
lore ; e poiché i limitrofi abitanti di Glari e di Uri avevano
insegnato loro la via di emanciparsi dalla tirannide, quel
generoso esempio gli eccitò a meditare seriamente sulle loro
85
sciagure; e fece in essi rivivere l'amore alla indipen-
denza.
'Negli ultimi anni del secolo XIV sedeva sulla cat-
tedra di Coirà V ardito vescovo Hartmann, cui venne in
mente il pensiero di stringere in lega i suoi vassalli con i
popoli vicini e con alcuni baroni, onde infrenare altri si-
gnorotti limitrofi che del continuo gli muovevano guerra.
Nel 1396 i sudditi di quel vescovo formarono solenni patti
di alleanza con altri feudatarii : e siccome quella unione erasi
formata sotto gli auspicii d' un prelato, ricoprendola cioè col
manto della religione, le si die il titolo di Lega di Casa di
Dio, per elisione Caddèa.
Era di quel tempo abate e signore di Dissentis Pietro
Ptdtinger, di nascita illustre e di animo virtuoso, che sem-
pre memore delle sventure cagionate alla sua famiglia dalla
prepotenza dei baroni, die facile ascolto alle ferme domande
dei venerabili seniori del popolo, i quali gli si presentarono
col progetto. della formazione di una lega, a imitazione di
quella che già si era costituita : tanto più che a questa pren*
devano parte anche alcuni giovani baroni, e due conti molto
potenti. Essendo intanto invalsa la tradizione, che nell'umile
villaggio di Trons,_ circondato da annose foreste e posto sulla
via che da Coirà conduce a Dissentis, il pio monaco Sigi-
smondo propagasse nel VII setolo la luce evangelica tra quei
montanari, 800 anni dopo i loro discedenti lo scelsero a cuna
della rinascente loro libertà: ecco in qual guisa. Siccome
nel silenzio della notte avevano ivi tenuti i primi conventi-
coli per conquistarla, deliberarono che in quel luogo medesimo
dovesse essere proclamata. In un giorno di marzo del li24
ivi si recarono i più potenti feudatarii, e all'ombra di un
vecchissimo acero trovarono riuniti i venerandi deputati dei
Comuni, vestiti alla rustica con gabbani di colore grigio, ma
tutti di gran core e risolutissimi nell' esigere redenzióne dal
86
servaggio: quel patto dì giustizia non incontrò dissensi, e fu
ferniato con solenne giuramento reciproco. In tal guisa ebbe
origine la seconda Lega detta grigia^ dal colore delle rozze
tuniche dei* deputati, o dalle loro canizie.
Ma i paesi posti a greco del naoderno Cantone resta-
vano sotto la dominazione dell' antica famiglia di Tocken-
burgo; la quale venne finalmente ad estinguersi nel 1236
per morte del conte Federigo, i di cui successori suscita-
rono nella Svizzera discordie gravissime ; e i vassalli retici
del Prettigau deliberarono di imitare i loro compaesani. Con-
gregatisi infatti con perfetta* unione proclamarono la loro in-
dipendenza, è poiché a ciò presero parte i popoli di dieci
distretti, fu perciò appellata questa terza la Lega delle X Giu-
risdizioni.
Sotto gli auspicii dunque della giustizia e di un fermo
volere nacque nel secolo XV la Repubblica delle Tre Le-
ghe, con sanzione unanime non dei soli baroni, ma delle
stesse supreme dignità ecclesiastiche, che con raro esempio
di moderazione evangelica non si mostrarono punto ostinate
nel conservare oltre lo spirituale anche il temporale domi-
nio, arbitrariamente dato loro dagli Imperatori per tenere i
popoli nella servitù. Ad onta di generosità così laudevole, il
conte Arrigo di Werdemberg-Sargans presumeva di.ritenere
i suoi vassalli sotto l'oppressione, ma essi uscirono vittoriosi
da una perigliosa accanitissima lotta. Fu allora che i se-
niori conobbero la necessità di una comune alleanza, e
questa fu costituita nel 1 471 con patti di confederazione
perpetua di tutte e tre le Leghe, e così nacque la Repub-
blica federativa dei Grigioni, con preferenza alla Lega Grigia
che avea promossa la emancipazione popolare.
Qui cade in acconcio il rammentare che nei primi anni
del secolo XVI , Papa Giulio II avendo elevata la mente al
grandioso concetto di purgare la penisola dagli stranieri che
87
la depredavano, mal fu intesa in Italia la voce sua, ed ei
si rivolse agli Svizzeri, adescandoli con molto oro. Fu al-
lora che i Grigioni, svegliatisi dall' invito pontificio, irrup-
pero da tre punti in Valtellina/e se ne resero padroni. Quei
montagnoli ebri di gioia sperarono di poter godere i^ dolci
frutti di una ottenuta libertà, giurando alleanza confedera-
tiva colle Tre Leghe, ma presto si accorsero di esser sempre
vassalli, e di aver solamente cambiato padrone, colla diffe-
renza che gli invasori condannarono alla multa di scudi 250
chiunque avesse osato muover lagnanze !
Frattanto indi a non molto si sucitarouo concitazioni
per fanatismo di fntolleranza religiosa, e da quel subbuglio
non mancò chi trasse partito : nei Grigioni poi segnatamente
primeggiarono tra i traditori della patria i Pianta ed i Salis.
Sopraggiunse poi la combustione rivoluz.onaria di Francia e
nel 1798 un comando Napoleonico costituì la Repubblica
Elvetica, e le Tre Leghe Grigie perderono la Valtellina, non
restando loro che il possesso delle cinque alpine Valli Ita"
liane irrigate dal Calancasca, dalla Moesa, dalla Mera, dal
Poschiavino e dal Ram, delle quali darò ora un cenno par-
titamenle.
i. Fra il distretto di Val-Breno del Cantone Ticinese
e quello di Chiavenna nel Regno Lombardo restano chiuse
due alpine valli , divise da cime montuose, poi riunite in
una sola vallata, là ove confluiscono i due fiumi che le tra-
versano. Uno di questi è la Moesa, l'altro il Calancasca;
quindi il nome di Val-Mesocco e di Val-Calanca alle due
vallicene, e quello di Mesolcina al loro territorio riunito.
Dalle cime del Bernardino fin presso la Valle centrale
di Val-Mesocco presenta il paese un selvaggio ed orrido aspet-
to, non vedendosi che dirupi e vasti depositi di neve tra essi
sepolti, con alcune pasture nelle pendici più pianeggianti,
alternate da folte boscaglie. Nella bassa valle incomincia a
88
respirarsi il temperato aere d' Italia, e la vista è rallegrata
dalle vigne e dai gelsi. Gli abitanti di Mesolcina hanno lin-
guaggio, abitudini e fisonomìa di tipo italiano. Se diversifi-
cano in qualche costumanza, ciò è dovuto all'affinità ger-
inanorretica contralta per la comunicazione sociale di dieci
secoli colla limitrofa popolazione transalpina. È opinione di
dotti scrittori, che nei più remoti tempi la Mesolcina fosse
abitata da una tribù di Leponzii, ma vuoisi .che a questa
un' altra ne succedesse di Thusci, e ciò appunto ne indusse
a queste ricerche etnologiche.
2. La Mera che discende nel Lago di Como, proviene
da una valle denominata Bregaglia, e dai Grigioni Ere-
gìielh Preghell. Quell' alpina contrada comprende le pendici
meridionali del Settimer e delle sue laterali diramazioni.
Pretendesi che il nome antico della moderna Bregaglia foése
quello di Praegallia, ^u?is\ antemurale di frontiera tra i po-
poli transalpini, e quei della Gallia Cisalpina. Alcuni altri
etimologisti però, adottarono V opinione che quel nome sia
derivato da Praejulia, trattandosi di un paese situato alle
falde delle Alpi omonime. Certo è che nei bassi tempi fu
dichiarato distretto libero, sopra del quale non si riserbò che
il diritto di alto dominio l'Impero di Germania; e quando
la sua infiacchita potenza non potè impedire ai popoli i più
animosi di emanciparsi, gli abitanti di Val Bregaglia piut-
tosto che fraternizzare con. quei di ^Cbiavenna soggetti a un
conte , amarono unirsi coi Transalpini della Rezia. Questa
popolazione italiana è tutta di religione rifoimata. Il nuovo
culto e la comunanza con i Grigionr fecero contrarre ai Bre-
gaglini alcuni modi sociali praticati, dai soli popoli transalpini,
ma la fisionomia, la vivacità ed il vernacolo stesso, comecché
corrottissimo, ne fa riconoscere l'origine italiana. Ove il suolo
è coltivabile si dedicano alcuni all'agricoltura ; altrove alla
pastorizia : non pòchi trovano impiego nel trasporto delle
J
89
merci al di là del Settimer e del Monte Giulio. Molti giovani
prendono soldo nelle truppe capitolate, nelle quali sono
piuttosto ricercati per la loro robustezza ed elevata statura.
Ma Y emigrazione piace anche in Bregaglia, essendo nume-
rosi assai quei che suir esempio degli Engaddinesi esercitano
un qualche ramo di. industria in paese straniero, per tornare
poi in patria in età più provetta a terminare la vita nelle
pareti domestiche.
3. Risalendo in Valtellina le rive dell' Adda da Sondrio
a Bormio, incontrasi a metà del cammino la grossa borgata
di Tirano, poco al disotto della quale confluisce coli' Adda
il Poschiavino, sboccando da un' angusta foce nel territorio
di Poschiavo. Questa segregata valle resta divisa dall'altra
dell' Inn dal monte Bernina.
Ora è da sapersi che sul cominciare del secolo Vili
Cuniberto Re dei Longobardi donava la chiesa di Poschia-
vo al vescovo di Como. Col volger degli anni passò essa
dal dominio di questa sede vescovile sotto l'altra di
Coirà ; ma i nuovi signori trovando incomodo il regime go-
vernativo' di una contrada posta di' qua dalle Alpi, ne in-
feudarono i Conti tiirolesi dì Metsch, Nei due secoli XII e XIII,
e fino alla metà del XIV, potè quella signorile famiglia te-
rfersi in possesso di Poschiavo, ma nel 1360 se ne impadronì
Giovanni Visconti, incorporandolo di nuovo m Valtellina :
se non che nei 1486 Luigi Sforza di nuovo lo smembrò,
perchè riuscivali oneroso il mantenimento del varco alpino,
e gli piacque farne offerta ai Grigioni. In forza di quel vile
rifiuto tornarono quelli abitanti ad esser vassalli del vescovo
di Coirà; tna sopportando di mal' animo quella servile con-
dizione, nel 1537 trovarono il mezzo di emanciparsi con larga
offerta di danaro; e addivenuti indipendenti formarono alleanza
colla. Lega Caddèa: Malagurata mente nel primo ventennio
del secolo XVII scoppiarono intestine guerr* civili fra i
90
Poschiavini per motivi di religione : fu sparso molto sangue
fraterno e per eccesso di furore alcuni villaggi vennero dati
ulle fiamme ; ma nel 1629 si ricorse al saggissimo consiglio
di una intiera libertà di coscienza, e con tal mezzo tutto
si ricompose alla calma.
Quasi tutti gli abftanti di Poschiavo trovano la sussi-
stenza nella pastorizia, e non pochi traggono lucro nel tra-
sporto delle merci dalla Lombardia nell'Engaddina, e nella
vicendevole riconduzione di altre. Si dedicano alcuni al
traffico del vino della limitrofa Valtellina, ma molti sono
quelli che recansi al solito in paesi stranieri, per esercitarvi
arti e mestieri diversi. Vuoisi avvertire che nel piccolo ca-
poluogo di Brusio gli abitanti sono di promiscua religione
cattolica e protestante : il tempio degli uni sorge in faccia
a quello degli altri, ma nessuna controversia turba la pace
del paese. Ciò è dovuto principalmente alle . istituzioni di
pubblica utilità e benefìcenza che vi si trovano, destinate
senza privilegio agli abitanti' di qualunque credenza, purché
ivi nati, o domiciliati.
A Tra 1' Engaddina, il Tirolo ed il lombardo distretto
di Bormio resta tutta chiusa un' alpestre vallata , cui tra-
versa il Ram tributario dell'Adige. Prende essa ìì nome da
an monastero di vetusta fondazione, ed è perciò detta Val
di Miinster, Pochissimo è conosciuto quel recesso alpino,
perchè per la sua posizione ed il suo isolamento non vi si
. volgono né curiosi viaggiatori, né commercianti. Ma il fu-
rore delle armi non lo risparmiò: sul cadere infatti del
secolo XV vi cagionò disastri immensi ; questi furono ripe-
tuti nel 1622 e nel 1636, e vennero finalmente rinnovati
nel 1799 e nel 1800.
Dialetto Romencio. — È cosa notissima che tutti quelli che
viaggiano per la Svizzera, non esclusi gli Alemanni, trovano
grandi difficoltà per comprendere i dialetti usati nei diversi
91
Cantoni. Nei paesi occidentali di- Vaud, di' Friburgo, del
Vallese, di Neuchatel, la massima parte degli abitanti parla
il francesCy ma il vernacolo popolare è ivi ancora un mi-
scuglio di borgognone antico, di latino e d' italiano, è da
tante variazioni speciali distinto che le stesse masse popo-
lari dei precitati Cantoni incontrano qualche inciampo per
intendersi reciprocamente.
Ma il linguaggio adoperato in alcune parti del Cantone
dei Grigioni, da essi chiamato romainscio o romencio, ha un
carattere particolare ed è meritevote di essere studiato per
la vetustà delle sue origini o etimologie : svolgasi questa ar-
ticolo più chiaramente
' La storia civile, il regime governativo, e le costumanze
dei Grigioni offrono moltiplici argomenti di utili riflessioni
al filosofo osservatore. Non trascurai di additare ciò che ne
sembrò di maggiore interessamento nella topografia delle
quattro frazioni italiane a quel Cantone aggregate : or ne
piace di dare un cenno dei diversi vernacoli usati da quella
popolazione di retica origine. Gli abitanti della tega Grigia,
che vivono- in vicinanza delle sorgenti dell'alto Reno e nella
vallata di Domleschg, parlano Y idioma tedesco non poco
alterato ; quei della Mesoloina un corrottissimo italiano ; tutti
gli altri usano una lingua di origine vetustissima. Anche nella
Lega Caddèa è comune il tedesco, specialmente nelle giu-
risdizioni di Coirà, di Aberfatz e di Aversa, e gli abitanti
di Poschiavo ivi pure fanno uso di un vernacolo di italico
tipo, stranamente alterato*; ma in ogni altra parte della Lega
parlasi l'indicato antico linguaggio, che dirsi potrebbe 'pri-
n[iitivo, e poiché gli stretti legami sociali e politici, che da
tanto tempo contrasse con gli Engaddinesi la popolazione ita-
lica di Val-di Milnster, produsse l'effetto di farle adottare
anche il loro vernacolo, ragion voleva che se ne facesse
speciale menzione ; lo che ne fa grato, poiché trattasi di un
92
articolo, non di vana erudizione ma importantissimo. Di
tale argomento si occuparono infatti letterati assai distinti :
il jP/anto pubblicò l'istoria di quel retico idioma; il pastore
riformato Ccyrradi ne compose una grammatica. completa; il
dottissimo P. Placido De-Specha ne fece un profondo studio;
il Coace ne formò oggetto di speciali disamine e di ponde-
rati ragionamenti.
Dal complesso di ciò che scrissero quei filologi dedu-
cesi, che la lingua di cui or si tratta è di origine óscorase-
nica, ossivvero tosco-retica. Tito Livio che asseriva avere i
Rezii alterato alquanto il nativo idioma, scriveva un secolo
dopo la loro emigrazione, e per questo motivo appunto non
era forse nel caso di poterne pronunziar giudizio, poiché il
linguaggio da essi usato ai suoi tempi doveva aver subite
non poche variazioni per la comunanza degli indigeni colle
galKf he colonie. È opinione giustissima del P. De Specha,
che chi bramasse ricercare i più puri avanzi del vetustis-
simo idioma tosco, per determinare il senso di non poche
voci latine, e per rischiarare alcune dubbiezze archeologi-
che, recar si dovrebbe nelle alte valli dei Grigioni, ove
tuttora è usitato. I Rezii infatti che- ripararono in quelli
alpestri recessi, non si mescolarono con verun altro popolo;
e se i Barbari non risparmiarono nemmeno ali alla valle del
Reno le loro incursioni, furono quelle altrettante micidiali
meteore, che devastano e passano. Conseguentemente l'idio-
ma retico restò puro e inalterato, come gli usi, .le costu-
manze, le istituzioni civili di quei montanari ;.i quali non
avendo per lunghi anni partecipato ai progressi. della civiltà
degli altri popoli, tennero circoscritte in angusto giro le loro
idee, ma non ebber bisogno di nuovi segni per esprimerle.
Ecco perchè anche al dì d'oggi quel linguaggio è poveris-
simo di parole, non potendo indicare che gli oggetti della
vita domestica : ed infatti il dimesso e semplice fraseggiare
93
che Trscontrasi in alcune conservate pergamene del secolo
Vili, è perfettamente simile ai modi di dire adoperati in
altre carte del secolo XVI, e questi sono usati anche mo-
dernamente.
L' idioma retico è volgarmente detto dai Grigioni ro-
mencio, ma dividesi in due dialetti principali, T una dei quali
è chiamalo dal P. De Specba romtmo, e l'altro ladino: il
primo è usalo dagli abitanti delle alte, valli del Reno, ed il
/oc/mo. da. quei che hanno il domicilio presso le sorgenti del-
l' Inn e del Ram. Dovendo io dare un saggio di quest' ultimo
avvertirò, che siccome il dialetto romano può suddividersi
in vernacolo della pianura, ed in vernacolo àeìYOberland o
di Soprasselva, così il ladino àcìVEngaddina bassa àìversiùc^
da quello dell'afa Engaddina e di Val di Ram II linguaggio
di Soprasselva è probabilmente il più puro, il più fedele,
il più autentico avanzo del vetustissimo osco-rasenico : esso
è laconico, e con i suoi armonici suoni prestasi mirabilmente
alla poesia. È questo il dialetto propriamente chiamato an-
tiqidssm lang^tig de V aula Bhaetia, o romaunsch, e meritano
speciale esame le sue -correlazioni coli' antico Brettone e col
Basco. Che se i rivoluzionar] francesi del 1799 non avessero,
commesso, tra ì tanti loro vandalismi, quello ancora di dare
alle fiamme il monastero di Dissentis ; nella qua! catastrofe
restarono derubati e distrutti i preziosi manoscritti retici che
in quella libreria si. trovavano depositati e.gelosamepte cu-
stoditi; ora che assai più spesso .il Cantone dei Grigioni è
visitato da dotti viaggiatori, avrebber questi potuto trovare
ampio pascolo alle loro dotte indagini, nei codici preziosi di
quella celeberrima Abbadia.
Premesse queste osservazioni, che ne parvero importanti,
offrirò un saggio del vernacolo tedino di Val del Monastero,
traducendo in esso il consueto italiano dialogo.
94
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
RD UN SUO SERVITORE.
TRADUZIONE .
NEI-. DIALETTO
ROMENGIO:
Padrone. Ebbene, Balista,
hai tu eseguite tutte le com-
missioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in canimino ;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città ; ma
poi è piovuto tanto!
Padr. Che al soUto sei sta-
to a fare il poltrone in un oste-
ria, per aspettare che spioves-
se! E perchè non hai preso
r ombrello ?
^Serv. Per non portar quel-
l'impiccio; e poi jeri sera quan-
do andai a letto non pioveva
più, o se pioveva, pioveva po-
chissimo: stamani quando mi
sono alzato era tutto sereno,
e solamente a levata di sole
si è rannuvolato. Più tardi si
è alzato un gran vento, ma
invece di spazzare le nuvole,
^ eh, aiy ù si pronunziano come nel
Padhum. E' baing Batista
est drizo ogr tuoi las cumù
schiums, eia té dò? *
Servitugr Signur eia al
pos asgiirer d'esser stoopuntuel
pu da de pudia. Quista de-
maim alias ses e un quart era
già in chiaming, alias set emez
egra a meza streda, e alias
och e tres quartz entraiva in
zitet; ma zieva ò pluvia tàint!
Padr. Al solii sarogiast
sto in una usteria a fer il pul-
trunif per spater sing chia non
piova più ; perchè nun est pi-
glioo il parisol ?
Serv. Per nun avair qml
incomed, è poi er saira chia
get al letty. nu pluvaiva, e scha
mèpluvaiva, shei pluvaiva pò-
eh : quista domaim cugra chia
sum daschdòy schi egra tuoi
saraing, è be al munter del
sulaigl OS ò rinuvlò. Pii tard
as uzet Un grand vent, ma in--
veze da sj)aze dàvent las nU-
gòles, olpurtò una tampesta ci
francese idioma.
95
ha portato una grandine che
ha durato mezz'ora, e poi
acqua a ciel rotto.
Padh. Così vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto quasi
niente di ciò che ti avevo or-
dinato ; non è vero ?
Serv. Anzi spero che ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
Serv. Nel tempo che pio-
veva mi sono fermato in bot-
tega del sarto, ed ho visto con
questi miei occhi raccomodato
il suo soprabito cori bavero e
fodere nuove; i pantaloni colle
staffe erano finiti, e la sotto-
veste stava tagliandola. ^
Padr. Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo e il calzolaio, e di
questi non ne hai cercato?
Serv. Sì signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio , e noa gli mancaya
che orlare il nuovo. Il calzolajo
poi aveva terminati gli stivali,
le scarpe grosse da caccia, e
gli scarpmi da ballo.
' duvet mez tigra, e zieva * ova
a del ruot.
Padr. Uschea am vogst fer
incler da nun vair^ quasi fot
iinguotta, dà chiè ad vaiva or-
dinò ; è vaira?
Serv. Anzi de spreinza
chial sarogia cuntainl,.cura sa-
vrogia il ciaming fat per la
zitet in dues ugras.
Padr. Sentinsa la Ha.
Serv. Nel temp chi più-
vaiva me a fermò in butia del
schneeder, e dà vigs con quist
mias ógls racomadò sia sopra-
bit, (:on bavra e flogdra nogva:
sia chitel blov è chioces con las
stafes egran ligvros^ e il gilè
egrel zieva a taglier.
Padr. Taint milder. Ma tìi
vaivest piigr pocha passa il
ciapellèr è il cialger, è da
quells nun est scharcio?
Serv Signur schi; il ca-
peller ripuligva sia ciapè vegl,
è nun mandava oier sceè urler
il nogf. Il cialger vaiva glivrò
ils stivels, las sdarpcs grosses
di cada, e las sdarpignas da
trametg.
^ L* di ova (acqaa) si pronunzi molto Btretto.
96
Padr. Ma ÌD casa di mio
padre quando^sei andato, che
questo era l'essenziale?
Serv. Appena spiovuto, ma
non vi ho trovato né suo padre,
né sua madre, né suo zio, per-
ché jeri r altro andarono in
villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno àarà stata
in casa?
Serv. No signore, perchè
avevano fatta una trottata ver-
so Milnster, ed avevano con-
dotto il bambino e le bam-
bine.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori' di casa ? .
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor pa-
dre, la cameriera e. due servi-
tori erano con sua cognata, e
il cocchiere avendo avuto l'or-
dine di attaccare i cavalli per
muoverli, se ne era andato col-
la carrozza verso 5., Maria.
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
Serv. Non vi ho trovato
che il, garzone di stalla, ed a
lui ho consegnato tutte le let-
tere, perchè le portasse a chi
doveva averle.
Padr. In desa da mies bap
cura est sto, quel' egs r esen-
I ziel?
! Serv. Apaigna spluvia: ma
j nu de chiatò ne sias bap, né
sa mamma, né sias barba ; per-
chè sterzas sume %as in cian-
pagna, e sum stos sugr not.
Padr. Mia frer e sa liuona
almaing sarogian stos in ciesa.
' Serv. Signiir nò, perchie
i avaiven fat Una truteda vers
j Miinster, è vaim conjlut il ma-
I ting è las matignas.
I Padr. Ma la servitiit egra
twt ogr ciesa?
Serv. // cuschinier egra ia
in ciampagna con sia signur
bap ; la cameriera e dues ser-
vitugrs egran con sia guinò, è
il guscier avaind già T uorden
da 'tacher ils .. chiavals per
schmuanter,, egra ià con la eia-
rozza cunter S. Maria.
Padr. Dunque la ciesa egra
voda?
Serv. Nu de chiatò oter
sexi il giarsum da stalla, e à
quel daja consegnoo, tuot las
ciartas, dal purtès a quels ci
vaiven da vair.
97
Padr. Meno male. "E la
provvista per domani?
Serv. L'ho fatta : per mi-
nestra ho preso della pasta, e
intanto ho comprato, del for-
maggio e del burro. Per ac-
,crescere il lesso di vitella,
ho preso un pezzo di castra-
to. Il fritto lo farò di cer-
vello, di fegato e di carciofi.
Per umido ho comprato del
raajale, ed un' anatra da farsi
col cavolo. E siccome non
ho trovato né tordi, né starne,
né beccacce, rimedierò con un
tacchino da cuocersi in forno.
Padr. E del pesce non ne
hai comprato ?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perchè costava po-r
chissimo. Ho comprato so-
gliole e triglie, razza, nasello
e aliuste.
Padr. Così va benissimo.
Ma il parrucchiere non avrai
potuto vederlo?
Serv. Anzi siccome ha
la bottega accanto a quella
del droghiere, dove ho fatto
provvista di zucchero, pepe,
garofani, cannella e ciocco-
lata, così ho parlato anche
a .lui.
Padr. Maing mei; e la pi^o-
vischium per domeim ?
Serv. Zè fatta: per la mi-
nestra daja piglioo delles pa-
stesy intaint da ja cunproo
chiaschòl, è painch; per ojcre-
scer la ciam daja piglioo Un
pò ciastro. La friteda farogia
da cervels, da fio e ciarciofi.
Per la sosa daja cunproo del
alimeri, e Un anatra da fer con
il cavel Perche nun de chiato
né tordi, né starne, né heccac-
cias, acomédero con una tachina
da kogscher in fuorn. ^ .
Padr. E peschs nun est
cunproo ?
Serv. Anzi andè piglioo in
grand quantitet , perché cu-
staiva pochischem. De cunproo
sogliàs, trìgliaSy razzas, nascel-
hs, e aliustras.
Padr. Uschea va bainngni-
schem , ma il paruchier nun
varogiest vigs?
Serv. Anzi lo la butia da
spera quella del droghier, inwi
de fat la provista da sUcher,
paiver, garoffols, cidnella e do-
colatta, uschea daja discheuria
cun el.
98
Padr. e che nuove ti ha
date ?
Serv. Mi ha detto che
r Opera in musica ha fatto
furore , ma che il ballo è
stato fischiato; che quel gio-
vine signore suo amico perde
r altra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire colla diligenza.
Mi ha detto pure che la si-
gnora Lucietta ha congedato '
il promesso sposo, e ha fatto .
giuramento di non volerlo più.
Padr. Gelosie.... questa sì
che mi fa ridere ; ' ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio Un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà..
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara tutto,
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli mi-
gliori; tra i piatti scegli quelli
VADfi.Ecè nuvited at el dò?
Serv. Mo dit chia l'opra
in musica vegia fai furUgr, ma
il tramelg egs sto schilflo; chia
quel giuveri sìgnùr sia amich
végia pers l' otra saira al giò
tuoi la soomessa, e uossa spa-
taivel da partigr con la dili-
genza per Trent. Ma pilgr dit
chia la signugra Luciette vegia
congedia il promiss spugs, e
ò fot il giuràment da nun vu-
lair vair pU.
Padr. Gelosia. . . . che lo
schi am fo rier; ma inpisainsa
un pò sUn nugs.
Serv. Scha el askuntainta
mangiarogia ùnpopeim, e bai-
vero Un magiòl ving, e tuorn
dalum à lisceiver sias comands.
Padr. Sicome de prescia,
e stu \gr ogr ciesa, tegla prU-
ma a mias uordehs, è zieva
mangiarogest è riposaregiest
quant à t pie scha.
Serv. Chial comanda pilgr.
Padr Per il gianter eia
vains da fer, prepara tuoi nella
meldra seletta. Piglia la tuaglia
e las servietes pil fignas ; tra-
inter il platz elegia ogr quels
99
di porcellana, e procura che
non manchino né scodelle, né
vassoj. Accomoda la credenza
con frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Serv. e quali posate met-
terò in tavola ?
Padr. Prendi i cucchiai
d* argento, le forchette e i
coltelli col manico d' avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini sia-
no quelli di cristallo arrotato.
Accomoda' poi intorno alla ta-
vola le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà -servita
puntualmente.
Padr. Ricofdati che que-
sta sera viene mia nonna. Tu
sai quanto è stucchevole quella
vècchia! Metti in ordine la ca-
mera buona, fa'riempire il sac-
cone e ribattere le materasse.
Accomoda il letto con lenzuola
e federe le più fini, e cuoprilo cól
zanzariere. Empi la brocca di
acqua, e sulla catinella disten-
di un asciugamano ordinario
ed uno fine. Fa'tutto in rego-
la, e la mancia non mancherà
Serv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
da porcelana, e procugra eia
nun maincia né copes né vasois.
Acomada la chianschià con
frutta, uva, nugschs^ man-
dorìSy tampastignas e butiglias.
Serv. È quella puseda met-
terò in maisa?
Padr. Piglia il sdums d'ar-
gient, e las furchetes è ils cur-
tels col mang hugs; e t'algordet
eia las klochias è magòls è
sònigns sajen quels da vaider
mulo. Acomeda intorn la m^isa
il melders ciadregias.
Serv. Et sarogia servia
puntuelmaing .
Padr. Talgordet eia quisfa
saira vegna ma nonna. Tu sest
baing quant eia legs supstiga
qella veglia. Metta in bum ur-
den la chiambra bumd, fo
riempigr la bisaccia, è ribater
la materazza. Acomeda il lei
con l'inzòls e fodra la pU figna,
é capirei con zanzaria; impla
la broeacia d'oca, è sii la coppa
distenda Un sUamem ordinari
e Un fing : fo tuot iti regia, e
la mancia nu maincerò.
Serv. In verdet al am ò
ordinoo bjeras cioses, ma fa-
rogta tuoi.
100
DIALETTO DEL TRE]\TI]\0
CON ILLUSTRAZIONI ETNOLOGICHE.
Un italiano di qualsiasi condizione» che abbia avuta
r opportunità di perlustrare i paesi del Trentino, detto da
alcuni Tirolo italiano, deve per necessità sentire indignazione
e rammarico, che la bella e italianissima Valle dell' Adige,
in forza di arbitrio diplomatico, si trovi condannata ad es-
sere provincia tedesca ! Se le frazioni territoriali italiane
addette alla Lega Grigia e alla Caddea meritarono speciale
ricordo, perchè incorporate nel Cantone dei Grigioni, ove
ebbe domicilio, in vetustissima epoca una colonia etrusca,
tanto più è degno di illustrazioni etnologiche il Trentino,
oppresso, negli anni che corrono di redenzione nazionale, da
servaggio straniero! Lo proverò con argomenti incontrastabili.
Nella grandiosa, ricchissima, tanto celebre vallata co-
stituente r Alta Italia, è secondo in grandezza il fiume Adi-
ge, solo tra i tanti altri dell' Insubria che sdegna farsi tri-
butario del Po, e che soverchia non di rado le solide e
custodite arginature del Polesine di Rovigo, discendendo an-
ch' esso minaccioso alla marina col ricco tributo ài dodici
grossi confluenti. Corrisponde alla grandezza di quei real
fiume la vastità delle Valli Trentine che coi più ricchi ^tri-
-butarj egli trascorre: valli sono quelle rese di pittoresco
aspetto dalla natura, che nelle circonvicine alpi ^grandeggia:
ricche per varietà e copia di prodotti. E Valli Italiane, non
Tirolesi o Tedesche, per legge invincibile della natura sono
esse : che se nei trascorsi tempi i Duchi dell' Insubria e i
Dogi Veneti non conobbero, o non vollero conoscere, l' alta
importanza di aggregarle ai loro stati, tollerando che sulla
X Regione Italica, profanato il sacrrt confine alpino, scendes-
sero gli oltramontani ad esercitare la loro tirannide, non per
questo degenerò giammai la popolazione trentina dalla no-
101
bilissima primigenia italica stirpe, poiché nelle opere d' in-
gegno lasciò travedere quelle slesse scintille di genio con-
genito che distinguono la nazione italiana, e nell' esercizio
dell'armi conservò e conserva il primato tra tutti gli altri
popoli della Penisola e per valore e per fedeltà: di così
importante territorio italiano, era dunque necessario far men-
zione più partitamente.
Quella parte di Alpi Retiche che dal Monte Finisterre
al Pico dei Tre Signori da ponente a levante distendesi,
per debita rettificazione orografica formar deve distinta
sezione col nome specificato di Alpi Trentine: e la Valle
dell'Adige, del pari che quelle irrigate dai suoi, influenti,
costituiscono la contrada italiana propriamente detta il Tren-
tino, non già Tiralo, come suol praticarsi inavvedutamente
dagli storici e dai geografi ; che Tirolo è voce bensì originata
da vetusta rocca o castello feudale torreggiante nell' alta valle
dell'Adige, ma non può al più designare che una piccola
parte di essa, mentre al di là delle alpi quel nome vien
dato ormai ad una provincia tedesca.
Formata essendo questa frazione territoriale italiana da
un aggregato di valli alpine, le quali però si aprono sulle pen-
dici meridionali della gran catena, comparisce perciò appunto
il di lei aspetto di una sorprendente varietà pittoresca : laghi
coronati da ri^dentissime rive ;. alvei di fiumi e di torrenti, ora
aperti in mezzo a verdeggianti praterie, e talvolta escavati
tra orridissimi dirupi ; vallate più o meno grandi, tutte of-
ferenti i rapidi passaggi da scene che dan terrore a pro-
spettive di seducente amenità ; ghiacci e nevi eterne sui
vertici eccelsi della gran catena ; folle boscaglie presso le
su^ falde, e campi sativi con vigne che non lungi di là inco-
minciano ad arricchire ead abbellire progressivamente i bassi
terreni fino al- confine meridionale ; meravigliosa unione della
natura selvaggia e del terreno coltivato, che presenta opre
<02
artefatte, ove supporrebbesi che la mano dell uomo non
avesse potuto giammai penetrare ; queste ed altre condizioni
non meno importanti rendono V alta valle dell' Adige, o il
Trentino, una delle più belle provincie della nostra Italia.
La storia di questa, come delle altre contrade italiane,
tutte di classica celebrità, ha il suo periodo mitico e tra-
dizionale. Fuvvi chi pretese che di razza Euganea fossero i
primi suoi abitatori. Altri gli volle derivati dalla potentissima
nazione Etrusca, ed aggiunse che un duca chiamato Reto
die il nome alla famiglia Retica di etrusca derivazione.
Piacque poi a taluno lo additare in un modo assai diverso
la comparsa degli antichi Etruschi nell'alta valle dell'Adige:
a quella irruzione si assegnò per causa T avere alle spalle
i barbarissimi Galli, coli' aggiunta che ai fuggitivi non si die
tregua finché non ebbero varcate le alpi per cercarsi un.
ricovero sulle rive dell' Inn, restando padroni di quelle
dell' Adige i prepotenti invasori venuti in Italia da^ oltre-
tnonte. Con molta circospezione conviene procedere nell' in-
dagine degli, avvenimenti tradizionali, e tanto più nello am-
metterli, rigettarli. Livio, Plinio, Trogo non parlarono di
questa parte della Rezia in modo da farci comprendere chi
fossero i primi a fermarvi il domicilio : la verità storica ci con-
cede unicamente di asserire, che ai tempi di Augusto Trivento
era opjyido] forse città. Nel 705 di Roma Cesare concedeva
la cittadinanza alle colonie già dedotte sull' Adige : più tardi
Augusto faceva erigere un fortilizio sulla Tridentina verruca
perchè i Reti dell' Inn si affacciavano di tratto in tratto ai
varchi alpini : di fatti nel 740 di Roma erano discesi fino
nel centro della bassa valle, ma Druso e Tiberio furono sol-
leciti nel disperderli. Certo è intanto che dai primi anni
dell' Impero fino a Teodosio spesso tentarono gli Alemanni di"
invadere questo territorio italiano, più per derubarlo che per
farne la conquista. Ma quando si assise Onorio sul trono
103
imperiale, Stilicone recatosi sulle rive dell'Adige eccitava
da prode gli abitanti* alla difesa ; se non che educato nei
principii della greca ingordigia scendeva poi alla bassezza
di patteggiare a denaro la ritirata degli invasori, senza aci-
Gorgersi che queir esca appunto dovea presto rendergli pa-
droni della sventurata Italia. Majoranó infatti gli discacciò
per r ultima volta, ma in quella fuga, sembra che pronun-
ziassero orridi giuramenti di vendetta, poiché tornando a
isignorirsi della. Penisola, la resero stranamente deserta.
Goti, poi Bajoari,. indi Longobardi formarono un ferreo
periodo di tirannica dominazione ; durante il quale per ben
sette volte le rive dell'Adige furono flagellate da fiere pe-
stilenze, che mieterono miseramente la vita di un gran nu-
mero di abitanti. . Al quale ripetuto flagello succederono
talvolta disastrosi fenomeni di terremoti, di alluvioni, e per-
fino della lebbra, propagatasi fra i Trentini nel 616; e fu
quella la coorte di fatali disastri che accompagnò in così
deliziosa valle la sanguinolenta signoria dei Longobardi.
Dopo una serie di avvenimenti che qui lungo sarebbe
il registrare, basti il ricordo che in forza del barbarissimo feu-
dalismo i vescovi di Trento addivennero anche Principi del
Trentino: Pietro Viglio o Virgilio fu l'ultimo dopo la rivoluzione
di Francia a riunire il potere spirituale col temporale sulla
sede vescovile di Trento. Nella pace di Luneville firmata
nel 1802, il Principato Trentino fu trasferito nella Casa
d'Austria, che lo uni alla limitrofa provincia del Tirolo. Non
molto dopo, per vicende di guerra restò ingrandito il vici-
no regno di Baviera con questa contrada italiana; che per
lo stesso etfetto guerrésco nel 1810 addivenne Dipartimento
del Regno d'Italia col nome di Alto Adige: nla nel 1814,
dopo il rovescio del trono Napoleonico, l'Austria ne tornò
padrona, e* non occultò le mire di ridurre questo italiano
territorio a provincia tedesca, dichiarandone capoluogo Inn-
404
sbruch, e forzando i Trentini a ricorrere in caso di liti ci-
vili a quel Tribunale di Appello tedesco, sebbene essi non
conoscano l'idioma dei loro padroni!
Abitanti. — Se gli abitatori dell'alta Valle dell'Adige
sono al tutto conformi nelle qualità fisiche al tipo delle
altre italiche famiglie, gareggiano altresì con molle di
esse nelle doti di animo e d'ingegno, e ne superano al-
cune in certe virtù sociali fatte spesso infievolire dal pre*
dominio della forza politica. La storia ci addita diverse co-
lonie che in questa importantissima contrada fermarono il
domicilio ; qui giovi lo avvertire che i benefici influssi della
natura sul clima e sulle altre condizioni, fisiche dell'Italia,
agirono potentemente anco sugli stranieri che da lungo
tèmpo nel Trentino stanziarono, in generale son tutti di belle
forme, svelti della persona, di sorprendente robustezza ; nelle
caratteristiche intellettuali e morali sono italiani. Ciò premesso
ne piace additare le qualità fisico-morali più partitamente.
Gli abitanti di Lungo-Adige e àeW Agro Trentino hanno
il volto pallido e bruno, animato però da vivo occhio nero
castagno ; e i capelli sono di egual colore. Più adusti dal
sole e scarni per le f^atiche compariscono i contadini, ma
svelti e vigorosi. Generalmente sono i Trentini sinceri,
affabili, cortesi, cordialissimi nell'ospitalità. Intenti- agli af-
fari domestici, alla cultura delle campagne ed al commercio,
poco si curano degli agi e delle dissipazioni dtttadinesch^ :
se non che ivi è accaduto, cóme in tante altre parti d' Italia,
che ai generosi sentimenti di amore patrio è venuto a so-
stituirsi, quasi per necessità» quel dannoso interesse privato
suggerito dall'egoismo, che fa dimenticare il bene pubblico.
Hanno ì Trentini svegliato ingegno ed eccellenti disposizioni
a qualunque opra, singolarmente poi alle arti belle. In questi
ultimi anni si videro non pochi fanciulli del popolo, senza quasi
veruna istruzione elementare, far disegni, figure, incisioni, scul-
105
ture ed anche poesie da destar meraviglia nei più intelligeDii.
Risalendo verso le sorgenti dell' Adige si rende notabile
una certa differenza negli abitanti di Bolgiano: statura piuttosto
alta, omeri stretti, corpo pingue, faccia rotonda, capellatura
bionda o castagna, colorito bianco-roseo, svegVìatezza in
volto: dediti al commercio alternano quelle loro occupa-
zioni con pratiche religiose, cercando sollievo nella tavola,
poco curanti del resto. Gli abitanti della campagna Bolgia-
nese hanno costituzione fisica più grossolana e non molto
spirito ; ciò gli rende tenacissimi nel conservare le avite co-
stumanze, ma vengono queste ingentilite da una bontà e
lealtà singolare, comecché accompagnata da sollecita tema
di non cadere vittima dell' altrui mala fede.
I Meranesi e gli abitanti della Valle Passeria sono di
elevata statura, muscolosi e di formò ben pronunziate, re-
golari n^lla fisionomia; di costumi e di vesti semplici; di
pochi desideij e molta contentezza. Rozzi per mancanza di
educazione e pertinaci per natura sono però obbedientissimi
ai loro parrochi: i doveri religiosi, la cura degli armenti,
la tavola e il tiro al bersaglio formano l'oggetto esclusivo
di tutti i loro pensieri.
Nella Valle-Venosta gli abitanti della parte inferiore e più
basica hanno piccolo e gracile il personale, pallido il volto. Le
case loro, non escluse quelle poste lungo le vie della valle del-
l' Isarco e dell' Arienza hanno la tettoia acuminata e la facciata
principale nel lato più stretto: la sola parte abitata è il terreno,
sopra il qual6 trovasi il fienile: la cucina e la sala comune han-
no pareti di materiale, tutto il resto è di legno. Moltissime
fanciulle di quelle vallate, qjtregassato l'anno quindicesimo,
abbandonano i genitori e 1' abituro nativo per procacciarsi
altrove la sussistenza in qualità di cuoche o di cameriere ;
pochissime tornano alle loro famiglie. Altrettanto dicasi dei
giovani, i quali ordinariamente cercano servizio in estranei
V
paesi in qualità di macellari e di cocchieri . Concludesi che
gli abitatori delle alte Valli Alpine rassomigliano i limitrofi
tedeschi, ma non senza una qualche caratteristica italiana.
Tornando a discendere nelle vicinanze di Trento, ren-
desi ben giusto un esame speciale suir indole e sopra i
costumi degli abitatori della Naunia : l'eruditissimo Pina-
monti mi sar^' di scorta. ^Le costumanze dei Nauni sono in
generale le stesse della classe agricola. Quel popolo assai
sveglio di mente ama il rispetto alla religione e docilmente
ascolta la pura voce evangelica : in virtù di quel potentis-
simo mezzo la credenza nei sortilegi, che in altri tempi fece
delirare i Nauoi, cessò da per tutto. Il criterio e l'emula-
zione rendono ogni classe laboriosa : rarissime sono le
contravvenzioni alla sicurezza pubblica ; comune è invece
l'amore dell'ospitalità. Fuvvi chi accusare pretese i Naùni
di mala fede nei traffici: è quella una pretta e nera ca-
lunnia; chi ha 1! animo volto a beneficare il suo simile non
è rapace, e la classe indigente è in questa, come nelle altre
valli Trentine, pietosamente soccorsa.
Passando dalla destra alla sinistra valle dell'Adige, ra-
gion vuole che si dia una qualche notizia anche di quei
popoli di straniera origine, che da lungo Jempo- fermarono
il domicilio nelle gole, nei dirupi ed in qualche ripiano mon-
tuoso delle valli dell' Avisio e della Brenta. Quegli abitanti,
che si distesero anche nei due territorii Vicentino e Vero-
nese,' costituiscono nel Trentino tredici comuni. Sono di
statura piuttosto alta, ma di fisionomia, di portamento e di
vesti talmente diversi dal resto dei loro vicini, da distin-
guerli facilmente a prima vist* Lento è il loro sguardo,
pesante e mal fermo il , camminare : i loro volti sono più
bruni che rossastri, la capellatura è di ordirtarìo di color
castagno cupo : la fisionomia ben poco animata comparisce
un poco più vivace in quei di Lavarone e di Villa^di Fol-
- \07
garia. Debbesi avvertire che da poco più di quaranta anni,
questa popolazione' avvicinatasi agli abitanti dei territorii
linnitrofì, si affezionò ad essi caldamente, ingentilì le rozze
sue costumanze e cambiò perfino 1- originario dialetto nel-
r Italiano, venendo così a formare una nuova indigena fa-
miglia, buona, leale, religiosa; di ottima, indole.
Dialetto di Trento. — La diversa origine delle po-
polazioni Trentine, la vicinanza di alcuna di esse ai Lom-
bardi, di altre ai Veneti, di non poche ai Tedeschi,
produsse necessariamente una notabile difformità nei ver-
nacoli delle principali vallate. Di ciò rese conto con aurea
precisione il dotto avvocato Bernardelli nei suoi Cenni sta-
tistici modernamente pubblicati ; ne piace trascriverne let-
teralmente il correlativo articolo. « Nei circoli di Trento e
» di Roveredo si parla esclusivamente la lingua nazionale,
» cioè r italiana. Sulla destra dell' Adige il comune dialetto
» è lombardo; quello della stessa valle dell'Adige, ma degli
» abitanti della sinistra è veneto. Anche nel Circolodi Bol-
» zano io molti paesi la lingua- italiana è la naturale, in
» altri si parla promiscuamente V italiana e la tedesca : in
» pochi altri e nelle frazioni subalpine degli altri due Cir-
» coli solo quest' ultima. Non pochi abitanti della Valle di
» Badia, circolo di Brunoppli, parlano la lingua romancia, un
» misto d'italiano cioè, di latino, di francese, di tedesco è spa-
» gnuolo, somigliante a quello della Valle Grigionà di Mo-
» nastero e deli' Engaddina, che taluni ritengono di origine
» Etrusca. Non dissimile è il dialetto della Valle Nascia,
» del Livinallongo o Valle d* Andrazzo e della Valle di Am-
» pezzo. «Pai sopra esposto deducesi manifestamente, che in
questa italiana contrada, sebbene di non grande estensione,
notabile è assai la diversità dei vernacoli : qui basti dare
un saggio di quella di Trento, e nel perlustrare le provineie
venete, farò conoscere V altro di Tel ve in Val Sugana.
408
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
KD UN SUO SERVITORE.
Padrone. Ebbene^ Bali-
sta, hai tu eseguite tutte le
commissioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
sa assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino ;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città, ma
poi è piovuto tanto !
Padr. Che al solito sei
stato a fare il poltrone in
un' osteria, per aspettare che
spiovesse ! E perchè non hai
preso r ombrello?
Serv. Per non- portar quel-
l'impiccio; e poi jeri seria
quando andai a letto non pio-
veva più, se pioveva, pio-
veva pochissimo : stamani
quando mi. sono alzato era
tutto sereno, e solamente a
levata di sole si è rannuvo-
lato. Più tardi si è alzato un
gran vento, ma invece di
spazzare le nuvole, ha porta-
TRADUZIONE
NEL DIALETTO
DI TRENTO.
Patron. E co^, Battista,
fiat fat tutt quel, che t' ho or-
dina?
Servidore. Sior, mi pass
assicurarlo d' aver fati pù ben
che ho podù. Slammattina alle
sei e n quart era za en cam-
min; alle sette e mezza a metà
strada, e alle ott e tre quarti
entrava 'n zitta; ma 7 s èpò
m£ss a piover tant. . . ! .
Patr. Che al solit te sarai
sta a far 'Ipoltron en ten osta-
ria, per spettar che noi pio-
vessi E perchè non hat tolt
r ombrella?
Serv. Per no aver impedi-
menti ; e po'jer sera, quai]tde
son nà a lett, noi pioveva pù,
se 'l pioveva el pioveva pò-
chissim: stamattina, quande
son leva, l'era tutt seren, e noi
sé 'nnugolà che al levar del
sol. Pù tardi è pò vegnù 'n
gran vent, ma n vezze de
piazzar via le nugole, V ha
porta na tempesta, che l'ha
iOÒ
to una grandine che ha durato
mezz' ora, e poi acqua a ciel
rotto.
Padr. Cosi vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto qua-
si niente di ciò cheti avevo
ordinato; non è vero?
Serv. Anzi spero che Ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due óre.
* Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
Serv Nel tempo che pio-
veva mi sono fermato in bot-
tega del sarto, ed ho visto
con questi miei occhi racco-
modato il suo soprabito con
bavero e fodere nuove ; i pan-
taloni colle staffe erano finiti, e
la sottoveste stava tagliandola.
Padr, Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo, e il calzolajo, e
di questi non ne hai cercato?
Serv. SI signore: il cap-
pellajo ripuliva il sud cappello
vecchio, e non gli mancava
che orlare il nuovo. Il cal-
zolajo poi aveva terminati gli
stivali, le scarpe grosse da
caccia, e gli scarpini da ballo.
Padr. Ma in casa di mio
dura mezz'ora, e pò acqua a
sèccei.
Patr. Cosi te vuoi farine n-
tender de no aver fati quasi
gnent de quel che fovea or-
dina; è 7 vera?
Serv. Anzi spero che 7
sarà content, quande 1 saver a 7
giro che ho fati per zitta in
dò ore.
Patr Sentinte k tò pro-
dezze.
Serv. Entant eh' el piove-
va, me som ferma n la bottega
del sartor, e ho visi costi meocd
giusta 7 so soravestt con bàver
e fodre nove, el so gilè nof e
i trogoni cotte staffe i era fi-
nidi, e l'era lì che 7 tajava
la sottovesta.
Patr. Tunto mejo. Ma t'a-
vevi pur a pochi passi el cap-
pellar e 7 cagliar, e de questi
nò hai zercà no?
Serv. Si signor: eì cap-
pellur 7 nettava 7 so cappel
veccio, e no ghe mancava die
orlar 7 novo. ^El cagliar pò
l'atea termina i stivai, le scar-
pe grosse da cazza e quelle da
ball.
Patr. Ma en casa de me
MO
padre quando sei andato, che
questo era I' essenziale ?
Serv, Appena spiovuto,
ma non vi ho trovato né suo
padre, òè sua madre, né suo
zio, perchè jeri l'altro andarono
in villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno, sarà stata
in casa?
Serv. No Signore, perchè
avevano fatta una trottata, ed
avevano condotto il bambino
e le bambine.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa ?
Serv: Il cuòco era andato
in campagna col suo signor
padre, la cameriera e due ser-
vitori erano con sua cognata,,
e il cocchiere avendo avuto
r ordine di attaccare i cavalli
per muoverli, se ne era anda-
to colla carrozza fuori di città.
Padr. Dunque la, casa era
vuota ?
Serv. Non vi ho trovato
che il- garzone di stalla, ed
a lui ho consegnate tutte le
lettere, perchè le portasse a
chi doveva averle.
Padr. Meno male. E la
provvista per domani ?
pare, quande set na^ che Vera
r essenzial ?
Serv. Appena cessa da pio-
ver: ma no ho trova né so papà,
né so Tnamma, né so zio; pelu-
che r altréri i è nòdi n vilhy
e i sé fermaci lì anca la noti.
Patr. Me fradél però, o so
myèi^ almen la' sarà stàda a
casa.
Serv. Non signor; perchè
i aveva fati na trottada vers
Avis, e % avea tolt con lori ama 7
poppo e le puttelle.
Patr. Ma la servitù creila
tutta for de cà?
Serv. El cogo l'era andà n
campagna col so sior papà; la
cameriera e dò servitori con so
cugnada, é 'l cùcciér, che i ga-
vea ordina de laccar i cavai
per farghe far moto, V era nà
colla carrozza vers Matarello
Patk. Dunque la Casa la
era vuoda ?
Serv. No ho trova che 7
staller, e ael ho consegna tutte
le lettere, perché elle portass
à chi le nèva.
Patr. Thai fatt ben. E la
pi*ovvista per doman? •
\i\
Serv. L' ho fatta : per
minestra ho preso della pa-
sta, e intanto ho comprato
del formaggio e del burro.
Per accrescere il lesso di vi-
tella, ho preso un pezzo di
castrato. Il fritto lo farò di
cervello, di fégato e di car-
ciofi. Per umido ho compra-
to del naajale, ^d un anatra
da farsi col cavolo. E sicco-
me non ho trovato né tordi,
né starne, né beccacce, ri-
medierò con un tacchino da
cuocersi in forno.
Padr. e del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perchè costava po-
chissimò.Hocomprato sogliole,
triglie, razza, nasello e aliuste.
Padr. Cosi va benissimo.
Ma il parrucchiere non l'avrai
potuto vedere?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista d\ zucchero, pépe, ga-
rofani, cannella e cioccolata,
così ho parlato anche a lui.
Padr. E che nuove ti ha
date?
Skrv. Mi ha detto che
Serv. L'ho fatta: per me-
nestra ho toh della pasta, e 'n-
fant ho erompa del formai e
del bottér. Da aggiunger alless
de vedétta ho tolt n pezz de
castra. El fritto 7 farò de zer-
vel, de figa e d'articiocchi. Per
umido ho erompa del rugant
e un ànedra da far, coi eaoli.
E stecome no ho trova né tordi,
né pernis, né ieceazze, ghe so-
stituerò envézze 'na dindotta
cotta en tei forno.
Patr. e pese, n' hat prò-
vist ?
Serv. Anzi n ho tolt n
quantità perché 7 eostava pock
affatt. Ho compra trutte, sar*
dene e barbi.
Patr. Cosi va beriissem.
Ma 7 perrucehèr no te avrai
podù vederlo no ?
Serv. Anzi siccome el gha
la bottega arént a quella del
droghete dove ho fatt provvista
de zuccher, pèver, garòfoi can-
nella e cioccolata; eos% ho parla
anca con el.
' Patr. E che nwe f ha 1
dat?
Sery: El m'ha diti, che
142
r Opera in musica ha fatto
furore, ma che il ballo è stato
fischiato; che quel giovine
signore suo amico perde l' al-
tra sera al 'giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire colla diligenza.
Mi ha detto pure che- la si-
gnora Lucietta ha congedato
il promesso spesole ha fatto
giuramento di non volerlo più.
Padr. Gelosie.... questa si
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
. Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure. ^
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara lutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli migliori;
tra i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
manchino né scodelle, né vas-
soj. Accomoda la credenza con
t'opera en musica r ha' fati fu-
rar, ma che 7 ball rè sta fisdà;
che quel sior zòven, so amigo,
r ha pers V altra sera al zoch
tutte le scommesse, e che adess
l'aspettava de partir per Ge-
nova colla diligenza. El m'ìm
dift anca, che la siora Luzietia
l' ha dat la zesta al so spos,
e che r ha fati zurametit de
no volerlo pù. -
Patr. Gelosie: questa sì la
me fa rider ; ma adeso pen-
sante a noi.
Serv. Se 7 se contenta,
magno n pò de pam e bevo ti
biccher de vim, e torno subii
a torr i so comandi.
Patr. Siccome gho fretta,
e cògno nar fw' de casa, scolia
prima, cosa te ordino, e pò te
. magnerai e te polserai fin che
te vuoi.
Serv. El comanda pur.
P^TR. Per el disnar che
dovèm far, prepara tutt en sala;
tòi la tovaja e i manìpoi pù
boni, e i piatti di porzelana,
e varda che no manca ne scu-
delle né vasi. Fornisci la cre-
denza de frutt, uva, nos ,
mandole, confetture e bottiglie
413
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Serv. e quali posate met-
terò in tavola?
Padr. Prèndi i cucchiai
d' argento, ,le forchette e i
coltelli col manico d' avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini siano
quelli di cristallo arrotato. Ac-
comoda poi intorno alla tavola
le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. ^ Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna.
Tu sai quanto è stucchcvola
quella vecchia! Metti in ordi-
ne la camera buona, fa' riem-
pire il saccone e ribattere le
materasse. Accomoda il letto
con lenzuola e federe le più
fìniy e cuoprilo col zanzariere.
Empi la brocca di acqua, e
sulla catinella distendi un
asciugamano ordinario ed uno
fine. Fa' tutto in regola, eia
mancia non mancherà.
Serv. Per verità élla mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
' Serv. E che possedè meU
ter en tavola ?
Patr Tòi i Cacciari d'àr-
zent e le forzine e i cortei col
mànech d* avorio : e recordete
che le bozze, le bicchere e i
biccherini el sia quei de cri-
stali mola. Comoda pò 'ritorno
alla taola le careghe pù bone.
Serv. El sarà servì a
pontin.
Patr. Recordete che sta se-
ra ven me nonna. Te sai quant
che V è seccante quella veccia.
Metti all'orden la camera bella,
fa 'mpienir 'l pajarizz è batter
el sdramaz. Prepara 7 lett con
linzòi e fodre dei più fini e
covèrzelo con ^na zenzalliera.
Porta acqua en tei boccal, e
sul bazin distendi un sugaman
ordinari e wi fin. Fa tutt n
regola e la^ bona man nò In
mancherà,
Serv. En verità el m'ha
ordina molte . cose, ma farò
tutt.
M4
DIALETTI DELLE PROVIIVCIE VEìVlETE
CON ILLUSTRAZIONI ETNOLOGICHE.
Sempre più doloroso ed infausto si rende il subietto di
queste mie investigazioni etnologiche ora che debbo rivol-
gerle alle Venete provincie ! Per far sorgere di mezzo alle
acque marittime una grandiosa e superba città, che sgo-
menterebbe i prù sublimi ingegni architettonici se una si-
mile costruir dovessero in terra ferma, era necessario il genio
e V ardimento di Italiani, che tutto possono quando vogliono.
Or bene -quella prodigiósa città che. per tanti secoli fu si-
gnora di vasto territorio, per opra d' un Italiano, geme ora
.sotto il giogo tedesco ! '
Vuoisi premettere che l' antico Stalo Veneto compren-
deva e comprende tuttora :
7/ Dogado di Venezia,
Il Padmmno,
Il Polesine di Rovigo,
Il Veronese,
Il Vicentino,
La Marca Trevigiana col territorio di BellunOy e
Là Provincia del Friuli:
si avverte che dall' antico territorio repubblicano restarono
distaccati il Bresciano, il Bergamasco e il Cremasco.
Se l'aspetto della Lombardia è reso grandioso dalla
gran catena alpina, e se imponente è la sua parte che pia-
nieggia per la straordinaria feracità del suolo, altrettanto può
dirsi delle Venete provincie. Le Alpi Giulie e le Gamiche
grandeggiano a settentrione, offrendo tutte le scene sublimi
e svariate che ammiransi nella gran catena. I colli subal-
pini sono di ridentissimo aspetto, grazie alla mano industre
fl5
dell'uomo che gli ha mirabilmente abbelliti. La parte pia-
neggiante è per verità alquanto bassa in proporzione degli
alvei dei grandi iiumi che ,la irrigano e la traversano, ma
alle loro rive formano ornamento fronzuti alberi, e J bassi
fondi sono ben coltivati, sebbene di tratto in tratto palustri.
Oscura come quella di altre afttiche nazioni è Y origine
dei popoli che primi abitarono la Venezia. Mentre tutti gli
scrittori si accordano col chiamarli Veneti, alcuni dissentono
nello stabilirne la provenienza ; giacché taluno gli vuole
stirpe di Galli, ed a tale opinione è forse condotto da Stra-
bene, benché 'questo scrittore non.se ne mostri pienamente
sicuro; si V vero dalle parole di Polibio, che rappresenta i
Veneti nel vestiménto e nelle abitudini simili ai Galli, ma
differenti da loro nel favellare. Altri gli afferma Pafflagoni
venuti dall'Asia Minore, e condotti da Antenore a stanziare
in Italia: a sostegno del quale asserto si citano Catone,
Livio e Cornelio Nipote, ai quali piacque ravvisare la iden-
tità del loro nome con quello della regione onde i Pafflagoni
furono tratti alV impresa di Troja ; lo che dall' originale di
Omero dichiarò il Monti nel modo seguente:
Dair Eneto paese ove è la razza
Delie indomite mule conducea
Di Pilemeiie V animoso petto
1 Pafflagoni ....
Questa derivazione fu accolta da molti, ai quali parve
altresì confermata da Sofocle in un passo di una sua tra-
gedia, citato da Straboue^ e più chiaramente dall'Imperatore
Giustiniaho nella XXIX delle sue Novelle Costituzio/ni. Al
contrario Dione Crisostomo reputa favoloso l'arrivo di An-
tenore in Italia, ed asserisce che i Veneti qui esistevano
avanti quella pretesa venuta. Comunque ciò sia, sembra
fuori di dubbio che un popolo straniero soggiogasse o di-
sperdesse gli Euganei, gente che abitava fra il mare e le
H6
alpi, e che ha lasciato il proprio nome alle colline del Pa-
dovano. La posizione geografica di quel terreno, come nota
il Silvestri nelle sue Paludi Adriane, esposto a frequenti ed
estese alluvioni, indocili alla stessa mano regolatrice delluomo,
faceva sì che gli abitanti ne tenessero una gran parte a
praterie, serbandole a pascolo di numerosi cavalli : per la
qual circostanza non mancherà forse chi scorga analogia
d'abitudine fra questi popoli e gli Eneti della PafSagonia,
occupati nel propagare la razza delle indomite muk. Frat-
tanto quella disagiala, situazione servì ai Veneti di salva-
guardia, preservandoli lungo tempo dalle Galliche invasioni :
e di ciò persuade ancora il silenzio sotto cui, per varj se-
coli, gli passa la storia che per ordinario tace dei popoli
vissuti in età remote, quando i loro avvenimenti non siano
congiunti ai fatti di un altro popolo venuto in relazione con
essi. Quella che passò fra i Veneti e i Romani, dopo che
questi sul declinare del terzo secolo di Roma ebbero var-
cato il Po, ci si preèenta come amichevole ; giacché se co-
nosciamo da Polibio che quando Roma fu invasa dai Galli,
i Veneti mossero in di lei i juto, sappiamo altresì che i Ro-
mani minacciati poi da invasori transalpini, domandarono
soccorso ai Veneti ed ottennero che questi ne trattenessero
rimpeto, e facessero a quei barbari una strategica diversione.
Certo è in somma che i Veneti unirono sempre le loro armi
con le armi romane, anche prima della spedizione di Annibale;
ed è forza il concludere, che mentre i predetti Veneti resta-
vano oscuri alla storia, mantenevano la loro indipendenza, ed
avevano forze sufficienti per soccorrere un popolo amico.
Ma Roma era ormai agitata da spirito infrenabile di
conquista ; quindi avvenne, che circa la metà del settimo
secolo di Roma, al tempo della guerra coi Cimbri, Venezia era
ormai divenuta provincia romana e la governava un Romano
Pretore, mentre le sue città addivennero municipi!. La nuova
117
Provincia Veneta seguì poscia i destini dell' impero ; e poi-
ché il suo territorio aggiaceva alle alpi e perciò soggetto
alle' reiterate incursioni dei barbari, gli Imperatori pre-
sero il partito di mantenere stabili eserciti nei luoghi più
esposti. Ma dopo il trasferimento della sede imperiale a
Bisanzio, verso Tanno 400 dell'era volgare, la discesa dei
Goti non trovò argine che la trattenesse, e fu allora che con
grandiosa fermezza d' animo ardirono i Veneti di costruirsi
abitazioni sulle isole t le disseminate nelle loro lacune, e così
ebbe principio la prodigiosa Venezia. E già sul declinare
del secolo VII tenevasi una concione popolare in Eraclea,
ed approvata la proposta del Patriarca di Grado, venne
adottato il partito di concentrare il potere governativo in
un capo unico, cui si die il titolo di Duca, convertito poi
in quello di Doge. Luca Anafesto fu il primo di quei Magistrati;
Lodovico Manin fu V ultimo, per essere stato dispogliato della
sua autorità per ordine Napoleonico.
La durissima condizione per gli abitanti delle venete
Provincie di essere costretti a formare tuttora una teclesca
famìglia , rendeva necessario un cenno storico sulla caduta
di quella Repubblica ! È noto che alla coalizione europea
formatasi contro la Francia nel 1793, il Governo veneto
non volle mai associarsi : il Senato vedeva il suo ^lladio
nella neutralità disarmata, ed in quella trovò invece la propria
rovina. Buonaparte sdegnavasi nel 1796 perchè al fratello
di Luigi XVI era stato conceduto un ricovero in Verona ;
poi gli Austriaci entravano' in Peschiera e per quella occu-
pazione fu chiesta la consegna dei capitali e navigli spet-
tanti alle Potenze in guerra colla Francia ed un imprestito
di cinque milioni. Nel 1797 le Aquile Francesi scacciavano
le Austriache : a Leoben ebbe luogo una prima trattativa di
accomodamento : ma nel funestissimo e sempre memorabile
trattato di Campoformio del 17 ottobre 1797 fu proditoria-
H8
niente ceduta all' Imperatore d' Austria l' Istria, la Dalmazia,
le Isole venete dell' Adriatico, le Bocche di Cattare, Venezia
con le Lagune e le regioni comprese fra l' Adriatico, l'Adige,
il Tartaro, il Canale 'della Polesella, ed il Po. Quel trattato
meritò a Napoleone le congratulazioni del volpino Tayllerand,
perchè con tanta destrezza avea condotto un tal negoziato;
tanto più che in esso comprese altresì una contribuzione di
tre milioni in denaro ed in munizioni navali, la cessione di
tre vascelli con tre fregate armate, e la consegna di non
pochi oggetti di belle arti. La pace ingomma di Campo-
formio fiegnò l'estinzione della Repubblica Veneta.
Abitanti DELLE pRovfNCiE venete. — Qualunque sia
r origine che dar si voglia agli antichi abitatori delle venete
lagune, certo è che essi costituiscono un popolo di eroi; i
quali sdegnando con magnanimità di cadere nel servaggio
dei barbari, vincer seppero gli ostacoli della natura créduti
indomabili, fabbricandosi una città in mezzo alle acque !
Non è quindi meraviglia se tra le varie forme ' di governo
si elessero la repubblicana, e nei prinai tempi democratica :
ma la demagogia dovea ben presto profanare la santità dei
primitivi statuti, e restar cosi condannati i Veneti a passare
per la consueta trafila dalla prepotenza aristocratica, indi
della tirannide oligarchica. Ad onta però di tutti quei cam-
biamoti, e sempre in peggio, la Repubblica sussistè per
quattordici secoli, temuta, odiata, calunniata, ma impavida
nelle procelle che fecero proUare tanti troni : dunque gover-
nata con più saggezza, o per lo meno in modo migliore !
Ciò doveasi rammentare, anco per tener dietro alle
fasi principali dell'incivilimento di questa parte d'Italia. È
ormai noto che la povertà e le sventure resero cara ai
Veneti primitivi l'eguaglianza: profughi dal continente e
rifugiati in mezzo alle acque, non ebbero che i prodotti di
esse, saie e pesca. Portando in commercio il sopravanzo di
quegli oggetti non poteano ritrarne che mezzi di vivere
frugalmente ; ma quella stessa parsimonia mantenne fra^loro
lungamente la economia e la semplicità dei costumi. Narra
il Sabellico che i cibi e le abitazioni erano in allora per
ciascheduno dello stesso genere e qualità : in quelle angustie
si mantennero i Veneti prodi, postanti, virtuosi, buoni cristiani.^
. Trasvolando ai primi. anni del secolo XV li troveremo
cinti di gloria : armate vittoriose ; erario pubblico col-
mo d' oro ; industria animatissima in tutti i suoi rami ;
popolo contènto di sua condizione. Ad oggetto di frenare il
fasto della classe nobile, si erano promulgate leggi sontua-
rie, ma queste non si opponevano a quel genere di lusso
che dà moto alla ricchezza interna senza farla dissipare
fuori dello Stato. E questo genere di lusso èra condito dal
buon gusto:. la classe nobile accoppiava allo splendido vi-
vere una saggia parsimonia in tutto ciò che non ledeva le
apparenze: era tenuto il clero sotto un regime piuttosto
severo, ma ciò lo rendeva castigato e virtuoso : le milizie
erano valorose è fedeli : il medio ceto mostravasi operoso
in ogni genere di traffico ed arricchivasi con onesti lucri.
Regnava insomma ^tra i Veneziani la civiltà : i cittadini ed
il popolo viveano nella contentezza, e senza tema alcuna della
Inquisizione di Stato, creata per infrenare, i troppo avidi del
potere e ad impedimento di intrighi con corti straniere.
Ma la Repubblica Veneta era istituzione sociale come
tante altre governate del p^ri da uomini pertinenti a classe
privilegiata ; doveano dunque questi degenerare, ed essa col
volger degli anni decadere e poi perire. L'insaziabile avi-
dità, eterna compagna delle nazioni principalmente dedite al
commercio, suscitò tra i Veneti gelosia, e . quasi aversione
contro ogni estraneo, ancorché pertinente ad altre parti
d' Italia. Nel secolo XVI erano s\ dure le Leggi pubblicate
su tal. proposito, da vietar per fino l'accoglienza sui basti-
120
menti di bandiera veneta di mercatanti forastieri: e se questi
approdavano ai porti della. Repubblica, erano condannati a
raddoppiare i diritti doganali, e non potevano in essi far
costruire, e nemmeno acquistare in compra navigli : che se
per mala ventura insorgevano liti tra essi ed un suddito re-
pubblicano» si trovavano esposti alla rovinosa conseguenza
del disborso di somme enormi per ottenere una lentissima
giustizia. Le navi insomma e i commercianti esser dovevano
veneziani : intérdicevasi le società tra questi e i forestieri,
ai quali f^^n si concedevano né privilegi, né protezioni. Tutti
i diritti andavano. annessi alla qualità di cittadino veneto;
accadde perciò che un Principe di Servia restò talmente
sconcertato dalle tasse gravanti gli oggetti seco portati, che
impetrò il tilolo di veneziano onde essere esonerato da quei
dazi. Gli stèssi sudditi della Repubblica erano guardati ge-
losamente quando si recavano alla capitale: nulla acquistar
potevano che non provenisse da officine o botteghe di ve-
neziani : per mettere una fabbrica fuori del Dogato, rende-
vasi necessario ottenere il privilegio ; e; duro lungamente
l'obbligo delle città di terra ferma di non poter mandar
fuori merce veruna, senza farla passare per Venezia ove
pagava un diritto.
Volli notare le sopra esposte particolarità per dedurre
più agevolmente quali caratteristiche fosse venuta adacqui-
starei la nazione veneta, e di qual tempra esser potessero
gli usi e le costumanze popolari di quella Repubblica. Oli-
garchia potentissima per ricchezze, avara più che altiera per
non dar sospetti col soverchio fasto, severissima nell' esercizio
del potere contro lo straniero, sospettosa e tirannica contro
chi ad esso era ascritto, rilassatamente autorevole verso la
sola plebe : operosi erano i cittadini ed a preferenza dedicati
ad un qualche ramo d'industria-; favoriti dagli ordinamenti
governativi nella innata smania del commerciante di prò-
1
121
cacciarsi lucro con qualunque mezzo e per qualunque via,
sagaci e scaltri perciò, più che accorti nei traflBci: plebe
frugale, condannata a dure privazioni, mal guardata ed im*
punita in licenze di scostumatezza, e perciò contenta.
Neir indicato andamento degli affari politici e sociali
nascondevasi manifestamente il germe della corruzione ge-
neratrice di decadimento, non aspettando a svolgersi che
circostanze opportune. Giovi il ricordare che la Veneta Re-
pubblica non contenta della possanza commerciale, volle
essere anche conquistatrice : si assoggettò italiani, greci e
dalmatini : lasciò è vero ai popoli conquistati gli antichi pri-
vilegi di cui godevano, le abitudini, la religione, la lingua e
perfino ie leggi municipali ; ma pur nondimeno i nuovi sud-
diti non riconobbero mai che un solo vincolo comune coi
Veneti, quello cioè di esser soggetti a quattro ò cinquecento
famiglie della capitale : ed a ciò contribuì ben anche il si-
stema adottato di impiegare truppe dalmatine o albanesi per
tenere in obbedienza gli abitanti della terra ferma, e di
spedire invece soldati italiani in guardia dei Deputati al
Governo di Colonie di oltre iriare. Bene è vero che nella
capitale continuò a dominare una tranquillità inalterabile,
mantenuta da una polizia oltremodo vigile per un lato, e
tollerantissima nelle licenze innocue alla politica. L' af-
fluenza dei forestieri attirati dal lieto vivere ; il ipoto per-
petuo di una moltitudine innumerabile di opificj aperti
air industrioso e air indigente, per sodisfare ai bisogni del
povero e sfidare tutti i capricci del ricco ; gli apparati del-
l' opulenza ; il russo delle arti e i trofei delle vittòrie; l'am-
ministrazione finanziera ricca ed economa che soddisfaceva
il popolo con liberali imprese di edilità ; i magnifici festeg-
giamenti di frequente ripetuti : tutto quello spettacolo di
grandezze, di ricchezze, di allegria contentava il popolo e
nascondeva a un tempo i vizi delle forme governative.
i
122
Frattanto per le ragioni istesse, in forza delle quali 1' am-
bizione delle conquiste aveva fatto traviare il governo d^lla
semplicità repubblicana, l' anoiore delle ricchezze e la pas-
sione per licenziosi modi di vivere corruppero lo spirito
pubblico. Allorquando echeggiarono per l'Italia i primi ru-
mori della rivoluzione francese, la condizione politica e sociale
dei Veneti era appunto quale io la delincava: conseguenza
naturalissima sarebbe stata un sostanziale cambiamento, di
regime governativo, naa la caduta sotto il giogo straniero fu
punizione enorme, ingiustissima !
Dialetti. — Se vero è che i Toscani debbono essere
giudicati maestri del gentile idioma, mi si conceda il dichia-
rare che nessun dialetto italiano riesce si grato alle orecchie
di chi sortì i natali sulle rive dell' Arno, come quello dei
Veneziani. L' inimitabile Goldoni lo rese tra noi quasi fami-
liare, gustar facendolo sulle scene dei pubblici teatri; mentre
non avrebbe al certo ottenuto lo stesso intento né col Gi-
rolamo milanese, né col piemontese Gianduia : e sebbene il
Pulcinella napolitano abbia in passato divertito assai la fio-
rentina plebe, essa però continua tuttora a prendere vivissima
parte alle cotìimedie di veneto dialetto. Essendo mio scopo
di far conoscere i vernacoli principali adoperati in uno stesso
Stato italiano, ma in contrade distanti dalla capitale consi-
derata conie centro di diverse limitrofe popolazioni, ad og-
getto di far meglio conoscere la varietà delle frasi e delle
proferenze, reputai perciò conveniente di dare la traduzione
del consueto Dialogo nel dialetto usato in Venezia, poi in
altri tre dei quali in seguito renderò conto.
1S3
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
ED UN SUO SERVITORE.
PipRONE. Ebbene, Batista,
hai tu eseguite. tutte le com-
missioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino ^
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città-, ma
poi è piiovuto tanto!
Padr. Che al solito sei sta-
to a fare il poltrone in un*oste-
ria, per aspettare che spioves-
se! E perchè non hai preso
r ombrello ?
Serv. Per non portar quel-
l'impiccio; epoi jeri sera quan-
do andai a letto non pioveva
più, o se pioveva, pioveva po-
chissimo: stamani quando mi
sono alzato era tutto sereno,
e solamente a levata di sole
si è rannuvolato. Più tardi si
è alzato un gran vento, ma
invece di spazzare le nuvole,
ha portato una grandine che
TRADUZIOI^IE
NEL DIALETTO
DI VENEZIA.
Patron. Dunque^ Tita, ha-
stu fatto tutto quello che (ho
ordina ?
Servitor. Posso assimA-
rarh de esser sta pontml più
che ho possùo. Sta matina alle
sie e un quarto gerà za in stra-
dai alle sette e mezza gera a
mezza strada, e alle otto e tre
quarti entrava in città, ma
dopo gha piovùo tanto !
Patr. Al solito ti sarà sta
a far ilpoltron in (una ostaria
per aspettar che sbaiasse! E
per cosa non ti ha tolto l om-
brella?
Serv. Per no portar quel-
V intrigo ; e pòjersera quando
sòanda in letto, no pioveva più
molto poco; sta mattina quan-
do son alza gera tutto seren ;
e solamente sul levar del sol
xe torna a scurir. Più tardi
ha scominzià a ventar, ma
invece de portar via le nuvo-
le, xè vegnùo anzi una tem-
pesta che ha dura mezzora,
124
ha durato mezz'ora, e poi
acqua a ciel rotto.
Padr. Così vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto quasi
niente di ciò che ti avevo or-
dinato ; non è vero ?
Serv. Anzi spero che ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
. Padr. Sentiamole tue pro-
dezze.
Serv. Nel tempo che pio-
veva mi sono fermato in bot-
tega del sarto, ed ho visto con
questi mìei occhi raccomodato
il suo soprabito con bavero e
fodere nuove; i pantaloni colle
stafife' erano finiti, e la sotto-
veste stava tagliandola.
Padr. Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo e il calzolajò, e di
questi non ne hai cercato?
Serv. Si signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio, e non gli mancava
che orlare il nuovo. Il calzolajò
poi aveva terminati gli stivali,
le scarpe grosse da caccia, e
gli scarpini da ballo.
Padr. Ma in casa di mio
e dopo la shù butà t'un scra-
vazzo.
Patr. In sta maniera ti me
fa capir de no aver fatto quasi
gnente de queìh che te aveva
ordina, no xe vero?
Serv. Anzi spero che la
sarà contento co la savarà el
ziro che ho fatto per città in
due ore.
Patr. Sentimo le tue bra-
vure.
Serv. Intanto che pioveva
me son ferma in botega del
sartor, e ho visto coi mi occhi
che el so soratultò xè giusta,
che ì gha messo e la pistagna
e le fodre nove: la ma velada
toìxhina, e k braghe colle staffe
i gera fenii, e 7 gilè e stava
tagliandolo.
Patr. Tanto megio. Ma
gera da vicin anche el cappel-
laro e 7 scarparo, e de questi
non ti ha cerca ?
Serv. Si signor: el cappeU
laro gera dno a nettar el so
cappello vecchio, e no ghe man-
cava nome che orlar ci novo.
El scarparo aveva finio i sti-
vai, la scarpe grosse da cazza
e i scarpini da bailo.
Patr. E a casa de mio
1^5
padre quando sei andato, che
questo era l'essenziale?
Serv. Appena spiovuto, ma
non vi ho trovato né suo padre,
né sua madre, né suo zio, per-
chè jeri r altro andarono in
villa, e vi hanno pernottato.
Padu. Mio fratello però, o
sua moglie almeno sarà stata
in casa ?
Serv. No signore, perchè
avevano fatta una trottata, ed
avevano condotto il bambino
e le bambine.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa ?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor pa-
dre, la cameriera e due servi-
tóri erano con sua cognata, e
il cocchiere avendo avuto l'or-
dine di attaccare i cavalli per
muoverli, se ne era andato col-
la carrozza.
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
Serv, Non vi ho trovalo
che il garzone di stalla, ed a
lui ho consegnato tutte le let-
tere, perchè le portasse a chi
doveva averle.
Padr. Meno male. E la
provvista per domani?
pare quando xestu andà, che
questo gera t essmzial?
Serv. Appena sbalà. Ma
no gho trova né so pare né siui
mare, né so barba, parche jer
l' altro i xe andai in campa-
gna dove i gha dormìo.
Patr. Ma mio fradelloo
sua muger almanco sarà stada
in casa?
Serv. Sior no, perchè i
gavevc^ fatto una trotta, e i
s aveva mena drio el puttelo
e le putlek,
Patr. E i servitori gereli
tutti fora de casa ?
Serv. JF/ cogo era andà in
campagna con so sior pare, la
cameriera, e i do servitori i
gera con sua cugnada, e 7 coc-
cio essendoghe sta ordina de
mover i cavai, el xe <indà colla
carrozza. ^
Patr. Dunque la casa gera
voda?
Serv. No gho trova, nome
che 7 mozzo de stalla e a lù
ho consegna tutte le lettere per-
che le dasse a chi le ghe ve-
gneva.
Patr. Manco mal. E la
spesa per doman ?
1^6
Serv. L'ho fatta : per mi-
nestra ho preso della pasta, e
intanto ho comprato del for-
maggio e del burro. Per ac-
crescere il lesso di vitella,
ho preso un pezzo di castra-
to. Il fritto lo farò di cer-
vello, di fegato e di carciofi.
Per umido ho comprato del
majale, ed un' anatra da farsi
col cavolo. E siccome non
ho trovato né tordi, né starne,
né beccacce, rimedieròcon un
tacchino da cuocersi in forno.
Padr. e del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perché costava po-
chissimo. Ho comprato so-
gliole e triglie, razza, nasello
e ali uste.
Padr. Così va benissimo.
Ma il parrucchiere non avrai
potuto vederlo ?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e. cioccolata,
così ho parlato anche a lui.
Padr E che nuove ti ha
date ?
Serv Mi ha detto che
Serv. La xe fatta: per ma-
nestra ho tolto delia pasta, e in-
tanto ho compra del formaggio
e butirro. Per zonta ai lesso di
vedelb ho tolto un tocco de castra.
El fritto lo farò de cervella, de
figa e de arzichiocchi. Per umi-
do ho compra delporcoeunane-
ra da farse col cavolo. E siccome
no gho trova né tordi, né stame,
né galinazze, ripiegherò co un
dindiotto da cusinarse in forno.
Patr. e pesce ghe nhastu
compra ?
Serv. Anzi molto parche
el costava poco. Ho compra
trie, rasa
Patr. Cuà va benon. Ma
el parrucchier non ti V avrà
possilo veder?
Serv. Anzi siccome el gha
la bottega darente a quella del
droghier, dove ho provvisto el
zuccaro,pevare, brocche de ga-
re folo, cannella e cioccolata,
co8% ho parla anche co lu,
Patr. E che nove te ha-
lo dà?
Serv. El m'ha ditto che
127
r opera in musica ha fatto
furore, ma che il ballo è stato
fischiato ; che quel giovine
signore suo amico perde Y al-
tra sera al giuoco tutte le
^scommesse, e che ora aspet-
tava di partire colla diligenza.
Mi ha detto pure che la si-
gnora Lucietta ha congedato
il promesso sposo, e ha fatto
giuramento di non volerlo più.
Padr. Gelosie.... questa si
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara lutto
nei salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli migliori;
tra i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
manchino né scodelle, né vas-
soj. Accomoda la credenza con
l opera itimmica ha fatto furw,
ma che el balh i lo gha fischia;
che quel zQìoene so sior amigo
f ha perso l altra sera al ziogo
tutte le scommesse, e che adesso
r aspettava de andar via colla
diligenza. El m'ha ditto an-
che che la siora Lucietta gha
licenzia el so moroso e che la
gha zwà de no volerlo più
veder.
Patr. Gelosie questa
si xe proprio da rider ; ma
pensemo a noaltri.
Serv. Se la xe contento,
magno un poco de pan e bevo
un goto de vin, e pò tomo su-
bito ai so' comandi.
Patr. Siccome ho pressa
de andar fora de casa, ascolta
prima cosa te devi far, e dopo
tè magnerà e bevarà quanto
ti voi.
Serv. La me diga pur.
Patr. Per el disnar che
se deve far, prepara tutto
nella megio stanza. Tiò la
tovagia e i tovagiòi piti fini,
scegli i piatti de porcella-
na, e varda che no manchi né
scucile , né fiamenghe , metti
in cradenza frutti, wa, nose,
L
f28
frutta, uva, noci, mandorle >
dolci, confetture e bottiglie.
Srrv. e quali posate met-
terò in tavola ?
Padr. Prendi i cucchiai
d'argento, le forchette e i
coltelli col manico d' avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini sia-
no quelli di cristallo arrotato.
Accomoda poi intorno alla ta-
vola le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna. Tu
sai quanto è stucchevole quella
vecchia ! Metti in ordine la ca-
mera buona, fa'riempire il sac-
cone e ribattere le materasse.
Accomoda il letto con lenzuola
efedere le più fini,ecuoprilocol
zanzariere. Empi la brocca di
acqua, e sulla catinella disten-
di un asciugamano ordinario
ed uno fine. Fa' tutto in rego-
la, e la mancia non mancherà.
Skrv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
mandok, confetti, e bottiglie.
Serv. E che possade ho
da metter in tavola ?
Patr. Tiò i cuechiari d'ar-
zetìto, e i pirmi e eortelli col
manego de avoglio, e ricordete
che i fiaschi, i goti e i gotesini
sia quei de crestal mola. Metti
pò intomo alla tavola le megio
careghe.
Serv. La sarà servìo ben.
Patr. Bicordete che sta se-
ra vien mia nonna. Ti sa za
quanto brontolona xe quella
vecchia! Metti in ordene la ca-
mera bona. Fa impenir elpa-
giarizzo e sbatter i stramazzi.
Metti sul letto i lenzioi e le
intimelle piti fine, e mettighe
de sora la zanzaUera.~ Impe-
nisci la brocca de acqua, e sul
cain stendighe un sciugaman
ordinario e un fin. F,a tutto
pulito, e la bonaman no man--
cherà.
Serv. A dir la verità la
m'ha ordina troppe cose, ma
farò tutto.
129
DIALETTI DI VAL8UGANA, DI BCLLUNO E DI VERONA
CON ILLUSTRAZIONI ETNOLOGICHE.
Sul confine veneto, tra il borgo di Pergine ed il paese
di Primolano, apresi l' alta Valle irrigata dalla Brenta, vol-
garmente denominata Valsugana. Politicamente questo ter-
ritorio appartiene al Trentino, ma fisicamente farebbe parte
dello Stato veneto : comunque sia, vi si trovano ora ac-
quartierate le stesse orde tedesche, quindi poco importa
che io faccia conoscere il dialetto di quegli abitanti come
confratelli di Veneti, anziché di Trentini 1
Riferiscono alcuni la fondazione di Belluno agli Euganei
antichi abitatori delle Alpi ; certa è però la sua esistenza
fino dai tempi di Plinio e di Tolomeo. Sotto i Romani fu
retta dai Governatori delle Gallio, e nelF ultimo triumvirato
ebbe la cittadinaoza e la qualità di Municipio. Poi soggiacque
ai Goti e ai Longobardi : costoro ne fecero una Contea, ed
inalzarono nei dintorni diversi fortilizii. Libera nel secolo XI
fu governata dai suoi Vescovi e Podestà, poi prese parte
nella Lega Lombarda : nel secolo XIII soggiacque succes-
sivamente ad Ezzelino, agli Scaligeri, ai Carrara, ai Visconti.
In mezzo ai disastri che afflissero quel Ducato dopo la morte
di Gian Galeazzo, i Bellunesi si diedero alla Repubblica
veneta. Fu poi occupata dall' Imperatore Massimiliano nella
circostanza della Lega di Cambray ; ma al ritorno di quel
principe in Germania, i Veneziani la ricuperarono. Caduta
la loro repubblica, anche Belluno fu data air Austria ; indi
nel 1806 fece parte del napoleonico Regno d'Italia come
capoluogo del Dipartimento della Piave ; e finalmente, per
effetto della inconcepibile politica di Bonaparte, trovasi ora di
nuovo soggetta all'Impero austriaco, dando il nome a una
130
delle italiane provincia dipendenti dal tedesco Governatore
di Venezia.
Frattanto se Plinio assegna agli antichi Euganei per
loro antica sede anco i monti di Verona, è naturale il de-
durne, che quei vetustissimi abitatori del Veronese, ne fos-
sero cacciati dagli Eneti, i quali possedettero quelle contrade
prima che i Galli le invadessero, e delle quali i Normanni
poi si impadronirono. Assoggettati a quel popolo conquista-
tore, i Veronesi servirono da prodi nella seconda guerra
Punica, e di ciò Silio Italico fa onorevole menzione.
Nel 665 divennero colonia latina ; nel 706 ebbero la romana
cittadinanza, facendo parte della tribù Publicia. Il Veronese
fu non poche volte teatro di sanguinosi combattimenti nelle
diverse fasi politiche a cui soggiacque : nell' epoca repub-
blicana Mario vi soggiogò i Cimbri : sotto gli Imperatori ivi
accaddero sanguinose pugne fra Ottone e Vitellio, tra Co-
stantino e Massenzio ; e più tardi sotto i Goti fra Stilicene
e Alarico e tra Narsete e Totila. Il Re Teodorico mostrò
predilezione a Verona, che fu poi anche la sede ordinaria
dei Re Longobardi ; e Carlo Magno ne fece la residenza del
suo figlio Pipino. Ottone primo le concedè la indipendenza :
allora si governò a Comune nella forma adottata dalle altre
città di Lombardia. Solleciti si mostrarono i suoi abitanti
nel partecipare alla Lega Lombarda contro il Barbarossa :
dopo queir epoca la storia dei Veronesi offre nei secoli X, XI
e XII gli stessi torbidi di fazioni, di odj municipali e di
guerre che allora sconvolsero tutta la Insubria : scelsero poi
nel 1225 a Capitano del popolo V immanissimo Ezzelino, che
gli travagliò con feroce tirannide Nel 1262 vennero in po-
tere di Mastino della Scala, che gli resse con governo, per
quei tempi, assai moderato, ma ciò non potè liberarlo dal-
l' assassinio sulla pubblica via. Gli Scaligeri suoi successori
esercitarono il potere con apparente moderazione, ma tutti
131
furono più o meno inclinati alla sovranità assoluta, finché
non restò estinta la loro famiglia per mano di assassini. I
Veronesi passarono dagli Scaligeri sotto i Visconti; poi sotto
i Carraresi di Padova fino alla Lega di Cambray, dopo la
quale tornarono ad unirsi alla Repubblica Veneta, seguendone
i destini e addivenendo per conseguenza provincia tedesca !
Nella limitrofa Vicentina provincia trovasi il montuoso
distretto di Asiago, conosciuto più comunemente sotto la
denominazione di Sette Commxi : esso è abitato da una po-
polazione che parla il dialetto germanico. Molte sono le in-
dagini degli eruditi sulla origine di quelle famiglie : alcuni
le fecero discendere dai Cimbri, rifugiatisi in quelle monta-
gne dopo la sconfitta avuta da Mario : altri da una colonia
alemanna stabilitavi dagli Ottoni : ultimamente se ne è tratta
la provenienza dai Tedeschi sconfitti da Carlo Magno, ai
quali Teodorico diede quivi ricovero. Ma T abate Dal Pozzo,
nato in uno di quei villaggi, riguarda quella gente come un
miscuglio di Alemanni colà ricoverati in epoche diverse.
Qualunque sia la vera fra queste opinioni, certo è che gli
abitanti dei Sette Comuni sono di razza tedesca, e che non
variarono ancora il primitivo linguaggio coir idioma italiano;
quindi il loro dialetto non meritava di esser registrato tra
gli altri di più o men pura tempra italica.
132
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
KD UN SUO SERVITORE.
Padrone. Ebbene, Bali-
sta, hai tu eseguite tutte le
commissioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino ;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città, ma
poi è piovuto tanto 1
Padr. Che al solito sei
stato a fare il poltrone in
un' osteria, per aspettare che
spiovesse ! E perchè non hai
preso r ombrello?
Serv. Per non portarquel-
r impiccio; e poi jeri sera
quando andai a letto non pio-
veva più, se pioveva, pio-
veva pochissimo : stamani
quando mi sono alzato era
tutto sereno, e solamente a
levata di sole si è rannuvo-
lato. Più tardi si è alzato un
gran vento, ma invece di
spazzare le nuvole, ha porta-
TRADUZIONE
NEL. DIALETTO
DI TELVE IN VALSUGANA.
Paron. 'N ben Tita èUu
esegme tutte le commissioni che
fho 'dato?
Famegio. Sior, mi posso
segurarlo de esser sta pontuale
pu che ò podù. Stamattina alle
sie e n quarto era da in viado;
alle sette e meda era a meda
strada, e alle otto e tre quar--
ti 'ndeva entro in zitta, ma dopo
V ha piovesto tanto / . . .
Par. Che al solito ti si sta
a far 7 poltrm n te na ostaria
par aspettar che 7 spiovesse!
E parche no èttu tolta la om-
briella ?
Pam. Par no portar drio
quel 'mbrogio, e pò geri sera
quando che son 'ndà a dormir
noi pioveva pù, e se 'l pioveva 7
piovesinava demo ; stamattina
quando che son lem l'era tutto
seren, e demo w tei levar del
sole 7 sa scurì. Pù tardi sa
alza un gran vento, ma nveze
de spazzar via le nuole Va
porta na tempestaa che la ha
133
TRADUZIONE
NEL DIALETTO
DI BELLUNO.
Patron Ben, Tita, ha tu
fai tut quel che (ho ordina?
Servitor. Sior sì, la me
creda che ho fai megio che ho
podèst. Sta matina alle sie e
un quarto ere su la strada; a
le sete e meda ere a meda stra-
da, e a le oto e tre quart ari-
vae in cita; m>a dopo ha piovest
tant !
Patr. Za al to solito tu è
stai a far elpoltron aWostaria
per aspetar che sbaiasse! E
par cosa no t'ha tu tolt la om-
brela?
Serv. Par no portar quel-
la intrigo; e pò gerisara quando
son andai in lei no piovea p%,
se piovea, piovea pochissimo;
sta matina quando son leva
gera ttU seren e solamente tei
sol levar è torna a vegner nu-
voi Pi tardi è vegnest un gran
veni, ma inveze de cazzar
via le nuvole, V ha mena 'na
tempesta che ha dura me-
TRADUZIONE
NEL DIALETTO
DI VERONA.
Padrone. Dunque eh Bat-
tista etu fato quel che tò dito?
Servitore. Si Signor ò
fato iuto e più pulito che ò pò-
dù. Sta matina ale siè e un
quarto era anche via, ale sete e
tn quarti a meza strada e ale
oto e un quarto dentro in sita,
ma a pò piovti tanto! . . .
Padr. Che za come el to
solito te sarè stado a far el
poltron in una osteria aspetar
che cala F acqua. Per cossa mo
no etu tolto su lòmbrela?
Serv. Per no averghe quel
imbrqjo, e pò jeri sera quaixdo
son andado in leto no piovea,
Q se piovea, piovesinava. Sta
matina pò quanda son leva su
ghera seren, ma al levar del
sol sa nuvola. Dopo credea che
quel gran vento che sa alza
podesse spazar el ziel, ma in-
vege sior nò, zo na tempesta-
da malingi^eta, e pò acqua a
L
13i
io una grandine che ha durato
mezz' ora, e poi acqua a ciel
rotto.
Padr. Così vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto qua-
si niente di ciò che ti avevo
ordinato; non è vero?
Serv. Anzi spero che Ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
Serv Nel tempo che pio-
veva mi sono fermato in bot-
tega del sarto, ed ho visto
con questi miei occhi racco-
modato il suo soprabito con
bavero e fodere nuove ; i pan-
taloni colle staffe erano finiti, e
la sottoveste stava tagliandola.
Padr, Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo, e il calzolajo, e
di questi non ne hai cercato?
Serv. Sì signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio, e non gli mancava
che orlare il nuovo. Il cal-
zolajo poi aveva terminati gli
stivali, le scarpe grosse da |
caccia, e gli scarpini da ballo, i
Padr. Ma in casa di mio '
dura tia meddora, e pò do e
do acqua a pù non posso.
!*AR. Cossi ti voi darme da
ntender de no aver fatto de-
botto gnente de quel che te avea
ordenà; èlh vero?
Fam. Anzi mi spero che 7
sarà contento co 7 savarà 7
giro che ò fatto intomo alla
zitta Vi ten do ore.
Par. Sentimo le to bì'àure.
Fam. 'Ntanto che 'l pioveva
me son fei^mà n te la bottega
del saltor e ò visto propio co'i
me occi confwdà 7 so soratutto
con collaro e fodre nove : la so
velata turchina e le braghe colle
staffe i era da fenii ; e 7 gi-
lè Hghera drio a tagiarh.
Par. Tanto megio. Ma ti
gavevi pur vizin 7 cappelUiro,
e 7 callighero, e de questi no
ti è cerca no?
Fam. Sior si ; 7 cappelle-
ro 7 nettava do 7 so cappeUo
veccio, e no ghe niancava altro
die orlar 7 novo. X callighero
pò r aveva rivi i stivai, le scar-
pe grosse da cazza, e le scar-
pette da ballo.
Par Ma a casa de me pare
135
ora, epa un gran screvazz.
Patr. Cum tu voi darme
da intender de no aver fat
quasi gnent de quel che te avea
ordina; vera?
Serv. Aìizi spere che la sa-
rà content, quando la saverà
el giro che ho fat par città in
do ore.
Patr. Sentimo le to hraure.
Serv. Intani che piovea me
son ferma in botega del sartor
e ho vist co i me ochi giusta
el so veladon coli decol e le
fodre nove : la so velada tor-
china e le braghesse co le stafe
gera fenidi, e 7 gilè el stava
tagiandolo.
Patr. Tanto megio. Ma tu
avea vizin anca el capeler e 7
scarper, e de questi no tu ha
zercà ?
Serv. Sior sì; el capeler el
netéa el so capei vechio, e no
ghe manchea che orlar el novo.
El scarper pò avea fenì i sti-
va, le scarpe grosse da cazza
e i scapini da baio.
Patr Ma da me pare quan-
sece roverse per na mez óra.
Padr. Queste je tute eia-
dare per farme capir che no*
t'è fato gniente de iuto quel che
fo ordinado; eb vero?
Serv. Ben vedaremo quan--
do anco el savarà el giro che
ò fato in sita in do ore.
Padr. Sentimo ste to bra-
vure.
Serv. Fine à piovxi sòn
sta in botega dal sartor e co
sii od ò visto a giustarghe el
so veladon dal bavaro cole
fodre nove e la so velada, le
braghe coi tiranti jera finide,
e al gilè jera drio a tajarlo
fora.
Padr. Tanto mejo, ma dal
capelar e dal calzarer par
cossa ma no ghe setu andà
che jera li vizino?
Serv. Si signor che ghe
so sta. El capelar el netava
el so capei vedo, e no ghe
volea che l'orladura a quel
novo ; el calzarer pò V avea
fini % stivai e % scarponi da
caza e le scarpe da baio.
Padr. Ma quel che ms im-
1
136
padre quando sei andato, che
questo era V essenziale ?
Serv. Appena spiovuto,
ma non vi ho trovato né suo
padre, né sua madre, né suo
zio, perchè jeri l'altro andarono
in villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno, sarà stata
in casa?
Serv. No Signore, perchè
avevano fatta una trottata, ed
avevano condotto il bambino
e le bambine.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor
padre, la cameriera e due ser-
vitori erano con sua cognata,
e il cocchiere avendo avuto
r ordine di attaccare i cavalli
per muoverli, se ne era anda-
to colla carrozza fuori di città.
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
Serv. Non yi ho trovato
che il garzone di stalla, ed
a lui ho consegnate tutte le
lettere, perchè le portasse a
chi doveva averle.
Padr. Meno male. E la
provvista per domani?
quando si tu andà pò? Che l'era
quello che me premeva de pù.
Fam. Pena che /a mola da
piover; ma no ò catà né so
pare, né so mare, né so amia
perchè gerì l* altro % é 'fidai
alla villa eia dormisto là.
Par. Ma me fradello parai-
tro e la so femmena i sarà pur
stai a casa ?
Fam. Sior no, che i aveva
fatto na trottaa verso la Purbia,
eia mena 7 tosatto e le to-
satte.
Par. Ma e la servitù erela
tutta fora di casa?
Fam. X cogo l'era 'ndà al
campo col so sior pare, la ca-
margiera e i do famegi col so
cugnà; e 7 noledin avendo avù
r ordene de toccar sotto i ca-
vai, l' era andà colla carrozza
verso Montone.
Par. Donca la casa la era
voda?
Fam. No ò catà che 7 gar-
den de stalla ealugo consegna
tiUte le lettre parche 7 le por-
tasse a chi le ghe vegneva.
Par. Manco male, E la
provvista par doman ?
137
do è tu andày che questo pre-
mea de pù?
Serv. a pena sbalà: ma
non ho trova né so pare, né
so mare né so barba, parche
ger V altro i é andati in vila,
e i ha dormi là.
Patr. Me [radei paraltro,
so f emena almanco la sarà
stata a casa?
Serv. Sior no parche i
avea fat una trotada par ....
e i s avea mena drìo el tosat
e le tosate.
Padr. Ma i servitori ereli
tuti via?
Serv. El cogo era andat
in campagna co so sioi' parer-
la camargera e i do servitori
i ger a co so cugnada, e 1 co-
chio avendo avii l'ordine de ta-
car i cavai par moverli y Vera
andat co la carezza verso. . . .
Patr. Dunque la casa era
voda?
Serv. No ho trova che Fon
de stala e ghe ho consegna a
lu tute le letere, parche el le
portasse ai so paroni.
Patr. Manco mal.
roba par diman?
E la
porta de più de saver le a che
ora te si sta da me papà.
Serv. Apena cà fini de
piovar ma no ghera ne so papà,
ne so marna, ne so sio, parche
jera andadi in campagna a
starghe anca la note.
Padr. Ma me fradel, o so
mujer almanco i sarà stadi in
casa?
Serv. No Signor gnanca
quei parche jera andadi a con-
dur el putin e la patina in
caroza.
Padr. Ma gherà dunque
via anche tuti i servitori?
Serv. El cogo V era andà
in campagna drio so papa, la
camariera e i du servitori jera
con so cugnada, el cocio pò
eh' el gavea V ordine de movar
i cavai /' era fora cola caroza.
Padr. Dunque ghera la ca-
sa uda?
Serv. Mi certo no ò trova
eh' el solo cocio e anzi gò con-
segna tute le telare parche el
ghe le daga a ci le dovea andar.
Padr. Manco mal, ma la
spesa del disnar?
L
1
138
Siìnv. L' ho fatta : per
minestra ho preso della pa-
sta, e intanto ho comprato
del formaggio e del burro.
Per accrescere il lesso di vi-
tella, ho preso un pezzo di
castrato. Il fritto lo farò di
cervello, di fegato e di car-
ciofi. Per umido ho compra-
to del majale, ed un' anatra
da farsi col cavolo. E sicco-
me non ho trovato né tordi,
né starne, né beccacce, ri-
medierò con un tacchino da
cuocersi in forno.
. Padr. e del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perchè costava po-
chissimo.Ho comprato sogliole,
triglie, razza, nasello e aliuste.
Padr. Così va benissimo.
Ma il parrucchiere non l'avrai
potuto vedere?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e cioccolata,
cosi ho parlato anche a lui.
Padr. E che nuove ti ha
date ?
Serv. Mi ha detto che
Pam. La ò da fatta : par
menestra ò tolto della pasta,
e intanto ò eomprà del formai
e del sinalzo. Per far vegner
de pù 7 lesso de vedello ò prov-
vedèsto n tocco de castrado. X
fritto 7 farò de zarvelctti, de
figa e de carcioffi. Par far del
tonco ò compra del poìx e na
anara da far coi caoli fior. E
siccome no ò cala né tordi, né
starne, né beccazze ghe rime-
diarò con n tocchino da cosarse
tei forno.
Par. e pesce no ti né
compirà no?
Pam. Po si, anzi ne ò tolto
bonqueltotto, parche l'era tanto
a bon marca. Ho compra so-
gliole, trighe, e razza.
Par Cossi la im benon.
Ma e 'l perrucchiero no ti é po-
destà vederi no?
Pam. Anzi; siccome 7 gà
la bottega vizina a quella del
droghiero dove ò provvedeste
zuccaro, pevar, garofoli, ca-
nella e cioccolata, e cos^ ghe
ò parla anca a elio.
' Par. e cossa (alo conta
I pò de novo?
YAìA.'Lma dito che laopara
139
Serv. Lho fatta: par me-
nestra ho tolt paste, e intan
ho compra formagio e butiro.
Par dofiUar alla carne de vedel
ho tolt un toc de castra. El
fritto elfarò de zarvéla, de figa
e de arziciocchi. Par umido ho
compra del porco e un anera
da farse coi caoli. E sicome
no ho trova né tordi, né starne,
né galinazze, rimedierò co un
dindiot da cusinarse tei foì^no.-
Patii. E pesce ghe n ha
tu compra ?
Serv. Anzi ghe n ho tolt
tant, parche el costeapoc affato.
Ho tolt sfogi, trie, rasa, bran-
zin
Patr. Cussi va benon. Ma
el perucchier no tu averà pò-
dest vederlo?
Serv. Anzi siccome l'ha la
botega vizin a quela del dro-
ghiere dove ho fat provista de
zuchero, pever, broche de ga-
rofol, canele, e cioccolata, cmi
ho parla anca con lu.
Patr. E cossa te ha lo
coìità ?
Serv. El me ha dit che
Serv. Eh ghe l'ò anca fata
mi noi se pensa. De minestra
gò de la pasta, e intanto ò comr
prà formajo e botier. Par cres-
sar el lesso de vedel ò tolto un
toco de castrado. La fritura la
farò de zervel, de figa, , e de
arziciochi. Par umido ò com-
pra del porzel e un anara da
magnar co le verze. Sicome pò
nò ò trova gniente de osci pic-
coli, ne de salvadeghi faremo
servir par rosta na dindieta
cota in tei forno.
Padr. e pesse no te ghe
ne é tolto?
Serv. Eh si ghe nò tolto un
sp*oposito,par lagranrasonche
el costava poco. Ò compra sfogi,
triglie, raza, bacala e astese.
Padr Va ben, va là che te
se brao. Ma al paruchier no te
avarémigapodu parlarghe ah?
Serv. Si-po anzi che gò
parla parche el ga la botega
vizina a quela del droghier do-
ve ò compra sucaro, pevar,
canela, broche de garofolo, e
Giocolato.
Padr Tato conta gniente
de novità?
Serv. Elma dito che lope-
uo
r opera in musica ha fatto
furore; ma che il ballo è stato
fischiato ; che quel giovine
signore suo amico perde Y al-
tra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tavadi partire colla diligenza.
Mi ha detto pure che la si-
gnora Lucietta ha congedato
il promesso sposo, e ha fatto
giuramento di non volerlo più.
PiDR. Gelosie.... questa sì
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara tutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli migliori;
tra i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
manchino né scodelle, né vas-
soj. Accomoda la credenza con
in musica la à fatto furori, ma
che 7 ballo V è sta fischia; che
quel sior dovene so amigo là
perso r altra sera al dogo tutte
le scommesse, e che adesso 7
spettava de marciar colla di-
ligenza par Genova. X ma
ditto anca che la siora Luzietta
la ga dato combià al so pro-
messo sposo e la à giura de
no vederlo pù.
Par. Gelosìe! Questa sì che
la me fa ridar.
Fam. Se elio l'è contentOj
magno n boccon de pan e be-
vo 'na tazza de vin e torno su-
bito a tor i so comandi.
Par. Siccome gò pressa e
bison che vaghe for de casa,
scolta prima cossa che ordeno
e pò ti magnare e ti doìmirè
quanto che ti voi.
Fam. 'L conmnde pur.
Par. Par 7 disnar che ga-
von da far asgia la sala polito.
To la toagia e i toagioi pu bei.
Tra i piatti cerca foì^a quei de
porzellana, e varda ben che
no manche scvdelle né fiamen-
ghe; 'npienissi la dispensa con
frutti, uà, nose, mandole, con-
141
l'opera ha fai fur<yi\ ma che
el baio % l'ha fischia; che quel
dovena signor so amigo l'ha
pers V altra sera al dogo tute
le scomesse, e che ades el spelea
de andar via co la diligenza
par El me ha dit
anca che la siora Luzzieta Iha
lizenzià el so sposo ^ e l'ha dura
de no vederlo p%.
Patr. Gelosie . . . questa
pò me fa rider, ma ades pen-
sen a nualtri.
Serv. Se el me parmete
magne un poc de pan e beve
un goto de vin, e pò tome su-
bito a veder cossa che el voi
Padr. Sicome ho pressa e
ha da andar fora de casa, scolta
prima cossa che tu ha da far,
e pò tu magnerà e tu te destra-
cherà quant che tu voi
Serv. El me dighe.
Padr. Par el disnar che
doven far, prepara tut te la
megio stanza, To la tavagia
e i tavagioipi fini ; tra i piati
sdelgi quei de porzelanà, e
varda che no manche né scu-
dele, né fiamenghe. Meli su la
cardenza fruii, uà, nose, man-
ra à fato furor ; che el baio V è
sta fiscia ; che quel zovene so
amigo là perso l'altra sera
tute le pirie e che noi vede
loì^a de svignarsela a la prima
ocasion, El ma dito pò anca
che la siora Luzieta Va messo
in libertà ol so novizo dando-
ghe indrio le sa comise.
Padr. Gelosie . ... ah que-
sta V è proprio da rider. Ma
adesso pensemo a noaltri.
Serv. Se el se contenta ma-
gmi un bocon de pan e bevo
un gozo de vin e vegn^subito
a sentir cossa cK el voi
Padr. Veditu, sicome gò
pressia parche bisogna che va-
da fora de casa, te dago i ordini
e pò magna e bevi fin che te vò.
Serv. El diga su alora.
Padr. Pareda la tavola nel
linei tò le mejo tovaje e i mejo
toajoi, tira fora % piati de por-
zelanà, guarda pò caro ti che
no manca ne fondine ne piati
grandi. Pareda la cardenza
con su i fruii, uà, nose, man-
dole, dolzi un pochi de confeti
V
1
lisi
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Serv. e quali posate met-
terò in tavola?
Padr. Prendi i cucchiai
d'argento, le forchette e i
coltelli col manico d' avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini siano
quelli di cristallo arrotato. Ac-
comoda poi intorno alla tavola
le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna.
Tu s# quanto è stucchevole
quella vecchia! Metti in ordi-
ne la camera buona, fa' riem-
pire il saccone e ribattere le
materasse. Accomoda il letto
con lenzuola e federe le più
fini, e cuoprilo col zanzariere.
Empi la brocca di acqua, e
sulla catinella distendi un
asciugamano ordinario ed uno
fine. Fa' tutto in regola, e la
mancia non mancherà.
Serv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
[etti e bottilgie.
Fam. Che possade gotti da
metter pò a tavola ?
Par. To i cucciàri de ar-
dento e i cortei coìi manego de
olgioy e recoi'dete ben che le
bozze, le tazze e i gottesini i
sia de quei de cristallo infiora.
Comèda dopo attorno alla taola
le careghe pu belle,
Fam. Elio 7 sarà servì pon-
tualmente.
Par. Recordete ben che stas-
sera gen me nonna. Ti ti sé
quanto che la è fastidiosa quel-
la veccia; regola ben la camara
bona, fa mpienir 7 pagiarizzo
e battar 7 sdramazzo, comoda 7
letto con ninzoi e le foìete piti
fine e metteghe sora 7 podi-
glion. 'Npienissi 7 lavaman de
acqua e asgieghe la n suga-
man ordinargio, e uno n fin ;
fa tutto n regola e la bona mmi
no la mancarà no.
Fam. W verità che elio l
m' à ordenà tante cose, ma mi
le farò tutte.
j
143
(Iole, con feti y e boiilge.
Serv. e che possade mete-
rò a tola?
Padr. To i cuchiari dar-
zento , e i pironi e cortei col
inanego de avorio, e recordete
che i fiaschi, i goti e i gotesin
i sia quei de eresiai mola. Meti
pò atorno la tola le megio ca-
reghe.
Serv. La sarà servì a so
modo.
Padr. Bècmdete che sta
sera vien me nona. Tu sa che
secada che la è quella vecchia!
Prepara pulito la camera bona,
fa impenir el pagiaz e sbater
i stramaz. Meti sul let i nizói
e le intimele jn fine, e cover-
zelo col padiglioni. Impenisci
la broca de aqua, sul cadin
meti un sugammi gros e un fin.
Fa tut pulito, e la bonaman
no mancherà.
Serv. Da sen l' ha me ha
comanda tante cosse, ma fa-
rò tut.
e dele botiglie de vin.
Serv. E che possade vol-lo?
Padr. Meti pura i cuciari
d'argento, ma i cortei e i pironi
de quei coi maneghi d* avorio.
Ma no desmentegarte par ca-
rità che le boze, i goti, e i bi-
cerini i sia de quei a mola.
Meti pò a tomo a la tavola
i careghini mejo.
Serv. El sarà servido in
regola el staga sicuro.
Padr. No state desmente-
gar che sta sera vien me nona.
Te sd come l è fastidiosa quela
occia. Meteghe in ordine la ca-
mera dei forastieri, faghe im-
pienir de scartozi novi elpajon,
e botar anca el stramazo ; ti-
reghe fora un par de ninzoi
fini e de le bone forete, metteghe
pò desora el rido. Impienesse-
ghe la broca dal' acqua e sul
bazin destendeghe dusugamani
uno grosso e uno fin. Va là te
rammando de far ben che te
gaverè la bona man.
Serv. A dir la verità el ma
impient la testa de ordeni ma
gran fato! guardavo de fanme
onor.
U4
DIALETTI DELL* EMILIA
CON ILLUSTRAZIONI UTNOLOOICHE.
Passiamo ormai dalla sinistra alla destra riva del Po»
e nella parte centrale e orientale di. quella grandiosa val-
lata, troveremo lungo le falde settentrionali degli Appennini
uh ferace ed ampio territorio, il quale riprese modernamente
quel nome di Emilia che i Romani gli diedero, allorquando
il Console Emilio Lepido condusse a traverso quella regione,
da Rimini sino a Piacenza, la magnifica via consolare chia-
mata perciò essa pure Emilia. Sono ivi compresi gli antichi
Ducati di Parma e di Modena e le quattro ex-Legazioni
pontificie di Bologna, di Ferrara, di Forri e di Ravenna.
L'abitarono in antico Lingoni e Senoni, tribù di Golesi, per
cui nei primi tempi della romana repubblica quel paese
prese il nome di Gallia Cisalpina e più particolarmente
Gallia Cispadana, ossia di qua dal Po relativamente a Roma :
nei bassi tempi fu chiamata Romandiola o Romagna : ora ri-
prese il nome romano questa vasta Provincia, che fu una
delle cinque annonarie dell'alta Italia.
Antico ducato di Parma — L'alta giogaja dell'Appen-
nino dalle sorgenti del Taro fino a quelle della Secchia, rac-
chiude tra essa e il Po una contrada, di cui non ebbevi
forse in tutta Italia la più travagliata nei bassi tempi dalle
oppressioni del feudalismo. Nelle primitive età avevano tro-
vata i Liguri pacifica stanza nelle sue montagne, poi i Galli
Boi errarono a lor talento nelle paludose adiacenti pianure ;
ma quei due popoli di estrania origine restarono più tardi
soggiogati dalle legioni latine. Roma decretò la deduzione di
alcune colonie sulle rive della Trebbia, e della Parma, e in
tal guisa restò incorporata nei suoi dominii quella ricca
parte di Gallia Cisalpina.
145
Nel ferreo periodo dei bassi tempi la nuova popolazione
fa condannata a portare i ceppi di umiliante schiavitù, per-
chè le famiglie più prepotenti, seguendo scaltramente ora
le parti della Chiesa ora quelle dell' Impero, pervennero al-
l' intento di esercitare assoluto dominio sopra varii distretti.
Le popolazioni più travagliate condannarono ad ignominiosa
memoria la rapacità di uno di quei tirannelli col nome di
Pelaviàno, e la malignità di un altro con quello di Mala-
spina, ma non per questo ottennero la bramata emanci-
pazione: la vacillante potenza di chi assidevasi sul trono
germanico, rendeva troppo necessario in Italia il soccorso
dei favoriti ghibellini ; e allorquando la Chiesa ottenne di
lìir trionfare la parte guelfa a lei devota, impose a questa
floridissima parte dell' antica Emilia un Pier Luigi Farnese!
Frattanto i nuovi Principi soffocar volendo il malcontento,
e formarsi a un tempo un circolo di cortigiani, che col pre-
lesto di recare splendore al trono, li guardassero dalle in-
sidie, non trovarono miglior compenso, che il prodigare titoli
e signorie, suddividendo lo Stato in frazioncelle feudali; basti
il dire che prima del 4802 se ne contavano oltre a cento. Ag-
giungerò che questo antico Ducato dell' Emilia, comprendeva :
1. // Ducato di Parma;
%. Il Ducato di Piacenza;
3. L' antico Principato dei Landi, ossia le due montuose
valli del Taro e del Ceno;
4. L'antico Stato dei Pelavicino poi Pallavicini;
5. // Ducato di Guastalla.
Abitanti. — L'indagine dell'antico popolo cui appartener
possano i Piacentini e i Parmigiani, esser non può che
ipotetica, né si otterrebbe da essa che immaginar] risulta-
menti, tanta è la diversità delle razze di invasori che si
frammischiarono alle Italiane primitive ; sembra bens^ che
ben poco abbiano tralignato gli abitatori di questa parte di
10
L,
I 40
Appennino dai forti e intrepidi Apuani ; e tanto meno quelle
maschie forme si alterarono, quanto più prossimi alla som-
mità dei più ardui gioghi sono i casali e i villaggi dalla mo-
derna popolazione abitati. Gli uomini infatti di Tarsogno
superano in gagliardia gli altri montanari dell' ex-Ducato :
agili e robustissimi anche quei di Compiano hanno tale acume
di mente, da propendere facilmente alle scaltrezze. Altret-
tanto osservasi nel comune di Corniglio presso le sorgenti
della Parma : quei montagnoli sono di elevata statura e di ro-
bustissima fibra, e la naturale vivacità dello ingegno gli
rende notabilmente industriosi. Vero è che molto frequenti
sono gli esempj di curvatura nella spina dorsale al di là
degli anni sessanta ; è quello un tristo effetto delle fatiche
accompagnate da stenti, e per molti anni sofferte in Corsica
e nelle Maremme, ove molti passano intiere invernate sem-
pre intenti alla segatura di tronchi arborei. E qui cade in
acconcio lo avvertire, che per sola scarsezza di un qualche
prodotto farinaceo necessario a sostenere la esistenza, il
meschino abitatore di quei monti è costretto ad abbandonare
il nativo abituro, per procacciarsi altrove con duri e ri-
schiosi lavori un qualche lucro. Tra i Piacentini emigrano
molti. dall' ottobre al maggio, recandosi oltre Po, in Lombar-
dia cioè, nel Novarese e in Loraellina. Anche dalle valli del
Ceno e del Taro scendono alcuni nella pianura lombarda
durante il verno, mentre altri preferiscono di trasferirsi
nelle Maremme toscane : non pochi però passano il mare e
svernano in Corsica, ritornando a primavera inoltrata ai
patrii focolari col fr^itto della, esercitata industria, con cui
procacciano alimento a sé ed alle loro famiglinole. Ma nei
due comuni di Bedonia e Compiano non mancano gli ab-
bastanza ardimentosi, per attentarsi a pellegrinare in remo-
tissime contradp, vendendo minute mercerie, o baloccando
col suono di macchinette armoniche o colla mostra di ani-
147
mafi selvaggi, la popolazione delle piccole ^città e delle
campestri borgate : dopo il volgere di varj anni tornano a
rimpatriare col risparmiato peculio ; resi saggi dall' espe-
rienza sogliono ' farne moderato uso nella vecchiezza, e
colV acquistato possesso di qualche lingua straniera godono
speciale estimazione fra i loro compaesani. Anche gli abi-
tanti deir Appennino che resta chiuso entro i confini del
territorio di Parma, molti sono condannati dal bisogno
air emigrazione annua : bene è vero che in compenso delle
privazioni che soffrono quei montagnoli per la scarsezza di
naturali prodotti, godono i preziosi vantaggi di uno stato
sanitario raramente alterato da morbose infermità, mercè i
benefici influssi di un saluberrimo clima.
Nelle più depresse collinette volte a tramontana è an-
nunziata la vicinanza della pianura da speciale carattere
della classe agricola» la quale incomincia a manifestare
inerzia e lentore nello eseguimento dei lavori campestri,
quasi che fosse oppressa da muscolare fiacchezza. Di tal
fenomeno svantaggioso è agevol cosa il ritrovare le cause nei
più bassi territorj comunitativi ingombri da ristagni di acque.
Nel Piacentino i comuni di Castel San Giovanni, e di S. An-
tonio vanno soggetti a frequenti inondazioni : Calendasco
ha vaste estensioni acquitrinose : Mortizza porta nel nome
la indicazione di una parte de' suoi terreni coperti dai ri-
gurgiti del Po. Se l' aria pesante ed i miasmi che si svolgono
in certe stagioni dalle acque ferme, sono causa manifesta di
periodiche febbri, è del pari conseguenza naturale il lan-
guore e la fiacchezza dei muscoli : se non che questa fisica
condizione si manifesta anche nei ripiani prossimi alla collina
ove r aere è purgatissimo, dunque è forza ricercarne Y origine
nelle abitudini della vita domestica, e forse non anderebbe
errato chi lo attribuisse all'abuso del vino. Di questo pro-
dotto quanto ivi è prodiga la natura, altrettanto mostravasi
148
ferrea l'amministrazione finanziera degli Stati limitrofi nel
respingerlo dai confini per le gravezze di un dazio enorme:
ciò produceva gran sovrabbondanza, e questa adescava il popo-
lo ad abusarne : ne piace supporre che il nuovo regime ab-
bia provveduto ai rimedj di quella viziosa abitudine popolare.
Bene è vero però che quella mia speciale osservazione,
non isfuggita a chi volle disappassionatamente studiare il
carattere degli abitanti di questa parte d'Italia, era piii ap-
plicabile ai pianigiani del Ducato Parmense, che ai Piacen-
tini; i quali se vennero talvolta proverbiati ingiuriosamente dai
limitrofi, ciò è da attribuirsi a solo avanzo di quella barba-
rie che la forza straniera esercitò in Italia nei bassi tempi,
prestando iniquo favore alle discordie cittadinesche. A quel
fatai germe di politiche sventure è dovuta infatti la propen-
sione di questo popolo alle risse a mano armata; tranne però
quel tal carattere di fierezza, fomentato per avventura da
soverchio amore al denaro, amano i Piacentini con ardore la
patria: le loro diverse classi sociali fraternizzano all'uopo,
sebbene per consuetudine vivano l'una daiU' altra segregate.
Vero è che nella educazione domestica non vennero intro-
dotti certi raffinamenti quasi universalmente ora adottati,
ma i padri di famiglia curano con solerzia il traffico, le ma- '
nifatture, e ancor di più 1' agricoltura : e se la gioventù non
fa mostra d'ingegno vivace, e non è gran fatto propensa a
brillare. nelle arti di gusto, predilige però gli studj scienti-
fici e la meditazione di profonde dottrine. Per tali abitudini
compariscono facilmente i Piacentini all' occhio del forestiere
di austeri e quasi rozzi modi nel conversare, ma se in mezzo
ad essi fermi alcuno per breve tempo la dimora e si mostri
meritevole di fiducia, non gli resteranno occulti i loro me-
riti sociali, ed avrà frequenti occasioni di ammirare la fermezza
del loro carattere, e la non comune saldezza nell' amicizia.
Se volessimo prestar fede ai motteggi suggeriti dalle
149
vecchie gare municipali, la popolazione parnaigiana propen-
derebbe per carattere alla largita di generose offerte mal
corrisposte dai fatti, e dovrebbesi altresì darle debito di una
tal quale vanagloria, non disgiunta da splendidezza^ più ap-
pariscente che reale. Fossero pur veri siffatti addebiti, non
gravi al certo, ragion vuole che non si confondano gli abitanti
di una intiera provincia con chi tiene il domicilio entro la
capitale, ingombra in passato dalla classe cortigianesca. Se
il buon campagnolo suole festeggiare con esultanza quei giorhi
rarissimi, nei quali ebbe ad ospite un qualche cittadino, così
frequente è Y affluenza dei terrazzani alla capitale per ne-
gozii e peruffizii, che l'abitante di città non potrebbe imi-
tarne l'esempio senza sconcerto delle sue fortune; per miglio-
rare le qiiali vero è che in passato la Corte offriva un campo
né sterile né angusto, ma la- folla di chi scaltramente sapeva
penetrarvi, gustandone gli ozii e le agiatezze, facilmente
andava soggetta alle passionate abitudini da quel fascino ali-
mentate : anche i palagi farnesiani erano mura di reggia.
Ma se in una piccola ci Uà, ed in mezzo a scarsa popolazione
la numerosa classe dei cortigiani dava soggetto a popolari
proverbj, l'osservatore disappassionato avrebbe dovuto atte-
nersi ad autorità così dubbie ? Guidato dall' amore del vero
r imparziale osservatore confesserà piuttosto che nelF antica
capitale Parmense, ove l' aristocrazia era più fastosa che ricca,
malaguratamente non si era pensato ad introdurre e pro-
pagare saggio istituzioni di educazione istruttiva elementare:
la gioventù ora addestrata non solo in letterarj esercizj, ma
nei rudimenti, ancora delle scientifiche dottrine, imparando
ad esser saggia arrecherà utile splendore a sé ed alla pa-
tria. Né dubbio esser può il conseguimento di così preziosi
frutti, essendo l' abitante del suolo parmense di aperta mente
e propenso ai buoni studi: oltre di che mostrasi amatore
passionato delle arti belle, principalmente della pittura e
della musica, ed è per carattere indagatore di cose utili.
Che se non al solo miglioramento istruttivo delle classi più
agiate, ma si provvedere altresì alla educazione della plebe,
addiverrà in breve tempo il popolo parmigiano uno dei
migliori d' Italia, poiché sebbene finora abbandonato all'igno-
ranza, rari tra di esso sono i furti, rarissimi gli omicidj, e
solamente frequenti le risse, ma di sole parole ; sì buona è
r indole che lo distingue.
Fu avvertito che T abuso del vino, fomentato dalla co-
pia delle raccolte, infievolisce le fibre muscolari del cam-
pagnolo; ed ora qui aggiungeremo, che sebbene in molte
località della pianura sia buono il clima e Y aere purissimo,
in altre però di caliginoso terreno, l' atmosfera sopraccarica
di umidità è cagione di abituale abbattimento di forze. , A
Busseto infatti se cadono dirotte pioggie, producono tosto
inondazioni che rendono l'aria pesante; e tale è costante-
mente a Fontanellato e Fontevivo, massime nell' imbrunire
della sera e anche nei mesi estivi, in forza delle molte acque
che stagnano nelle peschiere e nei maceratoi.
La piccola popolazione Guastallese non offre argomento
a lunghe indagini. La posizione del suo territorio in -^ bassa
pianura ne rende il clima molestamente grave ; ove infatti le
inondazioni sono frequenti, comunissimi sono ivi altresì i mole-
sti incomodi. A compenso di tali infermità potè il Guastalle-
se uéare in passato senza risparmio delle tante raccolte di
cui soprabbonda, ma condannato a starsene in un angolo
ristrettissimo della comune patria, ricinto in ogni parte da
potenze straniere, vegetava in queksuo isolamento anziché vi-
vere, poco curandosi dell' istruzione, pochissimo delle arti bel-
le. Col moderno ricupero della nazionale indipendenza quelle
umiliantissime condizioìii avranno esse pure ormai un termine.
Dialetti. — Fedele all'adottato sistema di porre a con-
fronto i principali dialetti dei diversi stati italiani, reputai
151
inutile di registrare quello dei Guastallesi, siccome molto
conforme al fraseggiare dei limitrofi, e nella proferenza al
tutto consimile ai modi dei Lombardi. Ne piacque bensì di
arricchire la raccolta di traduzioni del consueto Dialogo
nelle tre seguenti; in Parmigiano cioè, in Piacentino ed in
Borgotarese. Le prime due le reputai necessarie, perchè
quei due popoli, sebbene limitrofi anzi lungamente riuniti
sotto uno stesso regime, si considerarono quasi sempre sic-
come l'uno dall'altro segregati- Gli abitanti poi di Valdi-
taro industriosi, trafficanti e di molto cuore, resi fieri per
conservati cognomi dei Cassii e dei Celii da una supposta
discendenza diretta dalla Romana colonia che soggiogò gli
Apuani, partecipano realmente al carattere delle confinanti
popolazioni di Liguria e di Lunlgiana, ed il loro dialetto
non manca al certo di speciali caratteristiche.
Le traduzioni parmigiana e piacentina vennero fatte a
mia richiesta da due valentissimi ingegni: a quella in Bor-
gotarese pose la mano, condannata da ingiusta sorte a dure
fatiche,- un cortese montagnolo oriundo di quelle valli, ple-
beo di condizione, nobilissimo di animo e condotto dal proprio
genio a far tesoro di utili cognizioni nelle poche ore d'ozio
carpite al riposo. Farò precedere la traduzione piacentina
alle altre, perchè piacque al dotto traduttore corredarla di
utili glosse, applicabili in parte agli altri due dialetti : egli
avrebbe voluto che il dialogo fosse stato dì genere più brioso,
animato da qualche passione di sdegno o di amore e non
genza un piccolo episodio di genere descrittivo, sembran-
dogli tali soggetti assai convenienti a far comprendere il
vero spirito d'un linguaggio: nòa siccome in principio mi
servì di guida la non meno utile mira di raccogliere in brevi
note i modi più comuni del conversare domestico, non mi
fu dato perciò di sostituire un diverso dialogo a quello
ormai adottato.
♦.H«
DiAlOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
T.n UlV SrO SRRVITOBE.
TRADUZIONE
NEL DIALETTO
DI PIACENZA.^
Padronk. Ebbene, Bali-
sta, hai tu eseguite tutte le
commissioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino ;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città, ma
poi è piovuto tanto !
Padr. Che al solito sei
stato a fare il poltrone in
un' osteria, per aspettare che
spiovesse ! E perchè non hai
preso r ombrello?
Serv. Per non portarquel-
l'impiccio; e poi jerì sera
quando andai a letto non pio-
veva, più, se pioveva, pio-
veva pochissimo : stana^ani
quando mi sono alzato era
tutto sereno, e solamente a
levata di sole si è rannuvo-
lato, Più tardi si è alzato un
Vaiwoìì. Batista,el (a) doìvoa
fati tùtt (b) eduli (e) eh' a f ho
din? (d)
SARviTOUR.Siòwr se; e eh'al
stagasieùrch'a sonstàè {e)pòn-
tuàl pm (f) ehj ho pòùdL Sta
mataéiìia (g) am son miss m
viage eh' a n era gnanca (h)
sès (i) òur e on (1) quaèrt : a
sètt e mezz a jera zamò (m) a .
mitaè slìàè; e ai alt e tri quaèrt
draèint ad la Porta, ma dopp
a sé miss tànt a pimv!
Patr. Che té aspland cfy'a
finiss, at sé staé al to soUt a
faèalpóltròn a V ostarla. E par
cossa mò net tòt seu l ombrella?
Sarv. Parche za (n) l'è on
imbroi, e pò jersira quand
a son andaé a létt an piouviva
miga pèu, o squasi gnent (o) ;
e sta mataeiìia quand am son
alvaè era beli sren (p) da par
tùtt; l'è staé int ernia eh' a
s' alvava al soni (q) eh' a sé
tornaè a nùvlaè, et pm tardi
' Vedansi le Osservazioni ed avvenenze sulla pronunzia a pag. 164 e sog.
I
153
TRADUZIONE
NEL DIALETTO
DI PARMA.*
PiDRòN. Sicché , Batista ,
ha (fatt tutt'il commission cKa
t'ho dà?
Sarvitòr. CK al creda Sion*
ch!a son sta ponhtal pù chjho
possù. Sta mateina a ses our
e un quarta fera za in viàzz;
a setfour e mezza m trovava
a mità strada, e a otf our e
tri quart'andava dentr'in zita;
ma, l'ha pò tmt piovù!
Paor. Che al tò solit tè
sta a far el poltron in t'un
ostaria, a^ptand che daga zò
Inacqua! Per cosa mò nha tUót
su Vomhrela?
Sarv. Pr n portar ci im-
brcj; e pò jersira quand andì
a lett n pioveva pù, o mala-
peifui spiovsinava; sta mateina
quand' a m'son alvà, fera srèin
da per tutt, e s'è pò -toma a
nuolàrs- in tVaìvars el sol. Pu
tardi sé alvà an gran vèint,
che in cambi d'spazzar via il
TRADUZIONE
,NEL DIALETTO
DI BORGOTAnO. <
ì
Padron. e ben, Batista, ti
è fatu tutte cute commission
che l'ho dalu?
Servitur. Siór possu assi-
curarla d'esse sta puntuale pù
eh' ho possù. I stamatténna a
ses e un quartu era za in camr
men; a sett e meza aj era za
mò a la metà dia strà, e a òéuttu
e tre quarti era za mo in zita;
ma pò è piovù tantul
Padr. Che al solitu {e sta
afa alpultron in t'un ustoria,
pr aspià eh' finiss d' pióéve! E
per-cósse nétu toetù l'ombrèla?
Serv. Per non porta culu
imbarazzu;epò alseira quand
aììdé a lettù ne pioveiva miga
pn, e se pioveiva pocchissimu ;
stamaltéinna quantu me son le-
va l'era tutto seren, e sola-
mente in tal leva d' al sòl se
è tuttù annuvlà, Pù tardiu sé
hvà un gran venta, ma in
' Vedansi le opportune Avvertenze alla pag. 166.
^ Vedwisì le op^Hìrtiiiie Acvertenze alla pag. fé?.
iU
gran vento, ma invece di
spazzare le nuvole, ha porta-
to una grandine che ha durato
mezz'.ora^ e poi acqua a ciel
rotto.
Padr, Così vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto qua-
si niente di ciò ebeti avevo
ordinato; non è vero?
Serv. Anzi spero che Ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
Serv. Nel tempo che pio-
veva mi' sono fermato in bot-
tega del sarto, ed ho visto
con questi miei occhi racco-
modato il suo soprabito con
bavero e fodere nuove ; i pan-
taloni colle staffe, erano finiti, e
la sottoveste stava tagliandola,
Padr, Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo, e il calzolajo, e
di questi non ne hai cercato?
Serv. Sì signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio, e non gli mancava
che orlare il nuovo. Il cal-
zolaio pòi aveva terminati gli
stivali., 1^ scarpe grosse da
l'è dati seu un gran vòéint, che
in cambi da spazzaè via il nti-
val l'a cazzaè zoiisa ona timpé-
sta ch'I' a duraè mezz aura, e pò
acqua chel zel (r) la màndaèva.
P ATR . A sta minerà a vign (s)
a dì cKau t'e fati gnaeint ad
còull eh' a t'ho comandaè, ne
véra?
Sarv. Anzi mò a spér ch'ai
sarà contaèint,q'aand al sarà (t)
al gir cK a j ho fatt per zit-
tae (u) in do our.
Patr. Sinimmiamò stil tò
prodezz ?
Sarv. Intani ch'apioutxiva
am son farmaè int la boutiga
dal sartmr, e aj'ho propi visi
con sii dù occ (x) al sò souvrabi
qualgha armiss al baevar (y)
e il feùder neuv, e beli e fini
la parsiana iurcliaeina e i pan-
ialon con il staff, e eh' V era
adré a tajaè al sóiobii,
Patr. Tani mei. Ma ai gàv
le int i pè <il caplàer e al cal-
zòular, e ani n è miga zar-
eoe (z) chéunt. (aa)
Sarv. siour sé eh' a n'ho;
alcdplaèr l'àntaeva al so capèll
véce (bb), e al neuv al na gava
peu che da orldèL Zirca (ce) pò
al calzoular V ava fini i stu-
vaèi, i scarpon da cazza, e i
j
155
fiìioli, l'ha pùHà dia timpesta,
ch'Ice andada adrè mezz ora,
e pò dop rè gerà un acqua a
zèl strazza.
cambiu de spazza Inùvle ó
Illa porta una tempesta eh' iha
dura mezzora^ e pò un acqua
a delùlnu.
Padr. Acsì tmveu far ca-
pir d'navèir fatt quas nient
d*col ch'fava ditt; è la veira?
Sarv. e mi nio a sper ch'ai
sarà Qonteint , quand al sarà
el gir eh' a f ho fatt per zita
in dov'our.
Padr. Sintema un pò stil tè
prodezzi.
Sarv. Intant che pioveva
a rnsm ferma in tla bottega
del sartor, e a fho propria visi
con i me occ\ eh' el so sortii
Vera giusta con el baver e il
foeudri noèuvi: el sogiustacoeur
turchein e i pantalon con il stafi
j éren fui, e cKel era adrè a
tajas el gilè.
Padr. Tant'mej.Mafgh'a-
vev pur poc lontan el captar
e el calzolàr, e costi fha t'mò
zercà?
Sarv. Si sior: el captar
l'era adrè a spazzar el so ca-
pei véce, e al neuv en gh'ca-
lava che l'orladura. El calzo-
lar pò r ava fra i stiva], i
scarpon da cazza, e i scarpein
Padr. E cusì te voe fàm
intende de n avei quasi fatu
gnent de culu che f ho ditu ;
eie veira?
Serv. Anzi speru eh' ù
sarà contentu, quantu ù sarà
al giro eh' ho fàtu per la zitta
in do ore.
Padr. Sentorrìma le to bra-
vure.
Serv. In ternpu che pio-
veiva m' son ferma in botteiga
del sartór, e ho vistu con sti
me oecci a cutnedaghe al ta-
baru con arbavru e le fóedre
nòeve .: la s6 marsénna tur-
chénna e i pantalon con le stafe
f eri finì, e la sùttuvesta /' era
adrè eh' u la tajava.
Padr. Tantu meju. Ti gh'eri
pur poca a lontan ar eappel-
lare e ar cazzulare, e de citsti
in tè ne miga zercà?
Serv. Si siore: ar coppel-
lare a nettava ar so capelu
vecdu, e n ghe mancava eh' a
orla ar rwèvu. Ar scdrpare 6
V ava fornie i stive, le^scarp
grosse da cassa, e i scarpein
156
caccia, e gli scarpini da ballo.
Padr. Ma in casa di mio
padre quando sei andato, che
questo era T essenziale ?
Serv. Appena spiovuto,
ma non vi ho trovato né suo
padre, né sua madre, né suo
zio, perché jeri l'altro andarono
in villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno, sarà stata
in casa?
Serv. No Signore, perchè
avevano fatta una trottata, ed
avevano condotto il bambino
e le bambine.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa ?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor
padre, la cameriera e due ser-
vitori erano con sua cognata,
e il cocchiere avendo avuto
r ordine di attaccare i cavalli
per muoverli, se ne era anda-
to colla carrozza fuori di città.
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
Serv. Non vi ho trovato
che il garzone di stalla, ed
a lui ho consegnate tutte le
lettere, perché le portasse a
scarpdèin da ball.
Patr J/a a ca de me paedar
eh' r era coull eh' a parmiva ad
peu, quand gK et andaé ?
Sarv. Sùbit eh' è side séu
r aequa: ma ang ho trovaè ne
so paèr {ià), né so maér, ne
so zi (ee), parche jer passa
feri àndae in campagna, e i
s'ghen far iride a doram.
Patr. Ma puro mèfradèll,
alman so mmjer ag saràstoe?
Sarv. Siour nò: f eran àn-
daé a fàè ona trotoe vers Mont-
cuc (Moncucco), e f cCvan tòt
sm al ragazzin [E) e il ragaz-
zaeine.
Patr. Ma i sarvitóur emi
anca lor luH' feu d'cà?
Sarv. i4/ chéug l'era àn-
daèa fmra con al so siour Paèn^;
la donzella e dù servitóurferan
con so cugnàe, e al coccer ch'ai
gava l'ordan da tachdè par fdè
mmv i cavdeiy Vera ànddè
con la carezza al Montali
(Montalto).
Patr. Donca in ca an ghera
ancóun? (gg)
Sarv. An gli ho tròuvm
actar ch'ai rnoxtcc de stalla/ e
gK ho consgnaè a lu tùtt i ti-
far (hh) da porfdè a cui eh' a
4o7
da bai.
Padr. Ma a cà dme pader
quand gKè t'andà, chl'era mo
col ch'mpremeva d'pù?
Sarv. Subit dop cKVèfm
d' pio ver: ma n gK ho catà né
so pàder, né so madra, né so
zi, perchè jer d'ià fandin in
campagna, e j gK han dormì.
Padr. Ma però me fradél,
almen so mojèra la gh'sarà
stada in cà?
Sarv. No siòr, perchè fa-
ven fati una Irotada vers Pa-
nocia (Pannocchia), e j seran
tot adrè el putein e il pulcini.
Paor. Ma la servitù cria
tutta feura d'cà?
Sarv. Elcoeugh l'era andò
in campagna con el so sior
pader: la dmzela e du servi-
tour feran con so cugnada, e 7
coder cK ig aven diti d' tacar
per moèuver i cavaj, al snera
aiìdà con el legn vers i Bac-
cane (Baccanèlli).
Padr. Donca la cà erla
vòeuda?
Sarv. A n gh'ho trova cKel
staler, e a lu ag ho consegna
tutfillittri, perchè aljaportiss
a cKfandaven.
da bdllu.
Padr. Ma in ca d me pare
quantu t'è gK andà, che l'era
culu cK l'importava dpù?
Sery. Appmna.foìm depòè*
ve: ma ngKó trova ni so pare,
ni so mare, e gnanca s6 fitti,
perché jeri d' la f andéni in
campagna, e i gK han drom.
Padr. Me fradelu però, o
so mujè armancu à sarà sta
in cà?
Serv. No sidre, perchè
j'aveivi fatu una gran cammi-
nàda versu Compian (Compia-
no), e j'aveivi mnà ar ragazze
con le ragazzénne.
Padr. E i servitóri feri
tùti foera de cà?
Serv. Ar coèghù l'era andà
ai loeghi con ar so siór pare;
la camrera e du servitóri feri
con so cugnà, e ar cuccere
aveindù avù V ordine d* tacca
i cavai per moevii, ó s n era
andà con la carozsa versu le
Zentu Crose (Cento-Croci).
Padr. Z)owca la cà l'era
voeda ?
Serv. NégKhó trova cKar
garzon d' la stala, e ah gh'hó
consegna tùie le lettre, perchè
ó le portasse a chi f andcm
L
158
chi doveva averle.
Padr. Meno male. E la
provvista per domani ?
Serv. L' ho fatta : per
minestra ho preso delia pa-
sta, e intanto ho comprato
del formaggio e del burro.
Per accrescere il lesso di vi-
tella, ho preso un pezzo di
castrato. Il fritto lo farò di
cervello, di fegato e di car-
ciofi. Per umido ho compra-
to del majale, ed un anatra
da farsi col cavolo. E sicco-
me non ho trovato né tordi,
né starne, né beccacce, ri-
medierò con un tacchino da
cuocersi in forno.
Padr/E del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perchè costava po-
chissimo. Hocomprato sogliole,
triglie, razza, nasello e aliuste.
f avan d'ave.
Patr. Mancmal. E la spesa
per dman?
Sarv. a l' ho fatta : da
j mnestra a j ho tot de la vian-
I da (il), e int l' istess taèimp a
f ho crompaè dal foùrnìaèr e
i dal bùttèr. Par faè on leuss
i peti gross, a f ho tòt on toch
j ad crastaé. Ag farò la so frit-
! tura ad zarvlaèin, (U) ad fidag
, e d'artieiocc. Par Vnnùd a jho
! tòt ad ranimal, e on anra da
fde con il verz. E conforma
I cK a nho miga trouvaè né ad
i tóurd, ne ad pernis, né adbec-
! casz, armidiarò con on plmlaèin
; a rost int al fóùrn.
Patr. E ad peuss n et
! miga tòt?'
i Sarv. Anzi a n'ho tòt abota
I ch'ai couslàeva trich e barlich.
A jho tòt sféàje, trilli, razza,
j nasèll e arag mista.
Padr. Così va benissimo.
Ma il parrucchiere non lavrai
potuto vedere?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere) dove ho fatto prov-
vista d\ zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e cioccolata,
cos\ ho parlato anche a lui.
Patr Csémò la va d* in-
\ cant. Ma al pirucchè ant are
\ miga poùdi vmdal?
I Sarv. Anzi sé che stand
I ad botliga da raéint al droghér,
dòv a jho fati spésa ad succar,
péver, garofan, canèlla e cica-
lata, a gK hoparlaè anca a lù,
a gK ho (mm).
i59
Padr. Men mal. E la spesa
per dman?
Sarv. a Vho l)eir e fatta:
de mnestra a f ho tòt dia pa-
sta,, e da da strà afho'^com-
prà del formai e del buter. A
fho pò tòt un tÓG d' castra da
zontar al less d' vitèl. Per
frittura a farò dil zermleini,
del fidegh, e di articiocch. A
fho compra di' animai da met-
tr in umid, e un naderdafar
con i cavoi. E sicom' a n ho
trova né d' lord, né d' pernis,
né d'pizocrè, a j Ivo pinsà
d* armediaregh con un pitt da
còeusers in tei forn.
Padr. E d'pessn n hai
miga compra?
Sarv. Anzi a n ho tòt
mond bein, perchè Vera a strazz
marca. A fho compra dilsfoeuj,
dia triglia, dia raza^ del nasci,
e digr aragosti.
Padr. i4 est la va propria
bein. Ma el parucher en f l'ara
miga possù veder? ^
Sarv. Si sior, perchè siccom
al g ha la bottiga attac a
còlla jdel drogherà dov a f ho
compra el zuccher, el peiver, i
gùrofnein, la canela e la dcola-
fa,acs\ a fho parla anca con lu.
Padr. Mancu ma. E la
pruvvista pr dman ?
Serv. U ho fata : pr mne-
stra ho pijà d' la pasta, e in-
tantu ho compra dar furmaju
e dar bxiteru. Per fa eresse
ar lessu de vdelu ho pijà dar
castron. Ar frittu ar farò de
zervelìe, d' fideghu e d'ariició'
chi. Per r ùmidu ho cumprà
dar porcu, e un annera da fa
con un cavulu. E sicume n ho
miga truvà de tórdi, né per-
nise^ né becàsse, armedieró con
un pitu da coèse in tar fàurnu,
j Padr. E de pessu in tè
! né miga compra?
I Serv. Anzi gh' n ho toetù
j abota, perchè ar costava pocu
j affatu. Ho cumprà soltantu
i sfoéje, d' la triglia, dia raza,
I dar naselu, e die aragoste.
Padr. Cussi va benissimu.
Ma ar parrucchére in t' V é
miga possù vedde ?
-Serv. Anzi siccoma ch'ho
I gh' ha la butteiga appresu a
\ cula d' ar drughere, in d' ond
1 ho cumprà zucru, peivru, ga-
; royìi canela e ciculata, cusì-
gh' ho parla anca a Iti.
L
160
Padr. e che nuove ti ha
date ? I
Serv. Mi ha detto che \
l'opera in musica ha fatto j
furore, ma che il ballo è stato
fischiato ; che quel giovine !
signore suo amico perde V al-
tra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tavadi partire colla diligenza.
Mi ha detto pure che la si-
gnora Lucietta ha congedato
il promesso sposo, e ha fatto
giuramento di non volerlo più.
Padr. Gelosie.... questa sì
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara tutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli migliori;
•tra i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
Patr. e coss f al cKU ad
néùv?
Sarv. Al m ha diti che
V opra a V ha fall fùroì% ma
al ball % r han zuflàe (nn) ;
che al pòvar so amig a V ha
pèrs tùli al zmg e cKal sptaèva
la diligaeinza pr' dndaé a Mi-
lan. Al m'ha diti ancalè che
la hwura Lucieutta a fha datt
al so còngè al spous (oo) chla
s* era impromissa, e l' ha fatt
giurament dan veiidal inai pei.
Patr. Gehsii im fan
propi da rid; ma tindoùmm
on pò ai fati nòss.
Sarv. Se con so piirmèss
alm lassa mangtaè im pò ad
pan e bev on bicèr ad vaèin,
a son subii ai so comand, .
Patr No, no ; cmè a son
ad freuzza d' àndàe feu d' cà,
dà pur da maèint, che pò ai
màngiaraè e at arposaraè a io
meud.
Sarv. Ch' al comanda pur.
Patr. Pf al disnaè eh' a
f orna da faè, prepara luti ini
al salòi jmi beli. A f èda iéu
la ióvaeja e i tóvajeu pm fin.
A f è da zeran (pp) t piait ad
pòurzlana (qq), e guarda cKan
161
Padr. e che noeuvi f la
dà?
Sarv. Al m'ha ditt che
r opra r ha fatt furor, ma che
el bai iè sia fiscià; che col
siorein so amigh l* ha pars
l'altra sira al zoèugh tutt'il
scommissi, e che adessa f as-
piava d* andarsen con la dili-
genza a Borgh (Borgosandon-
nino). E al m'ha diti anca
che la sioura Luzietta thà dà el
viatòri al so spous impromiss, e
rha tòt zuramèntdé nelvedrpù
Padr. Gelosii. . . . cosia sì
eh* r m' fa rider; ma adess
pinsama a nu ater.
Sarv. 5' al s conieinta a
vagh a magnar un bcon d'pan
e a bever un bicèr d' vèin, e
pò a toìn éubit a siniir cosa 7
cmanda.
Padr. Ma mi a gK ho
pressia, e f ho d* andar feura
d' cà; senta prima cosa a
t'digh, e pò t'magnarà e (ar-
posarà a io voeuja.
Sarv. Ch' al cmanda pur.
Padr . Prel disnar cKfema
da far, prepara iuit in ila
saletta miora. Toeu la ivaja
e i tvqjoeu pu fein: zernissa
i piati d\porzlaha, e guarda
ben eh' ne gh' manca ne scudeli
Padr. E die ndéve f ha
datu?
Serv. U m' ha ditu eh' l'o-
pera in mùsica ha faiu un
gran furore, ma eh' ar bah è
sta fiscià; che culo gióvene
sióre so amigo 6 perdii l' dira
seira ar zoegu iùite le scom-
misse, e che adessa V aspiava
d' partì con la diligenza per
Parma, U m' ha diiu ancóra
che la sicura Luzia l'ha lizen-
zia ar so morósu, e cKl'ha faiu
giuramentu dnvedlu mai pù.
Patr. Gihisia .... custa si
eh' u me fa rìde ; ma pensò-
ma adéssu per nu ètri.
Serv. Sé s' contenia man-
giù un tócu d' pan e beivu un
bùcdere d' vén, e tórno subeiu
a rizeve i so comandi.
Padr. Sccùme gh' ho pre-
mura d' andà foèi^a d' cà, sen-
ta un pò cosa i'ordeno, e cussi
t'émangeré e t'arpossré quaniu
te pare.
Serv. Ch' ó comanda pur,
Padr. Prarpranzu ch'du-
vuma fa, prepara tutu in t* la
sala noeva. Pija la iovaia con
i tovajóè pù fén ; fra i piati
pija fóèra culi d' poi^zllana, e
prcùra che né gh' manca ni
1
16^
manchino né scodelle, né vas-
soj. Accomoda la credenza con
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Serv. e quali posate met-
terò in tavola ?
PÀDR. Prendi i cucchiai
d'argento, le forchette e i
coltelli col manico d' avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini siano
quelli di cristallo arrotato. Ac-
comoda poi intorno alla tavola
le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna.
Tu sai quanto è stucchevole
quella vecchia! Metti in ordi-
ne la camera buona, fa' riem-
pire il saccone e ribattere le
materasse. Accomoda il letto
con lenzuola e federe le più
fini, e cuoprilo col zanzariere.
Empi la brocca di acqua, e
sulla catinella discendi un.
asciugamano ordinario ed uno
fine. Fa' tutto in regola, e la
mancia non mancherà.
Serv. Per ventatila mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
manca né scudell né sotcopp.
A té é da meutf zou la io car-
daeinza con la frxita, uga,
nous (rr) amandoul, e confett e
botili.
Sarv. e in taevla che pós-
sdd ag matroja?
Patr. Tm i cttccmér d'ar-
gaèint e il fourzaèm e i cortei
con al manag d'avori, e argor-
dat che il bocc, i bicèr e i bida-
raèin isiancoui ad cristal moine.
Rangiapò dintourn alla taevla
il scrann pm darason.
Sarv. Al sarà sarvì apìm-
taèin.
Patr. Argordat che sta sira
avén mia nonna. At se baèin
cma l'è séccanta eia véccia. Da
ordan a la camra bella, e fa
laeimp al pajon e batt i mata-
rass. A t'é da méutt int al lèti
i linzèu e il foudrmtt peu fdèin.
A fé da laeimp la tòva brocca
dall'acqua, e int al baz-
zaéin at gh' è da dastaè ind a
souvr (ss) ona salvieutta ordina-
ria e ona faéin. In somma' fa
tuff in regola, e n' at mancarà
miga la bònaman.
Sarv. A dilavritaealm'ha
ordinaé d* il coss baein abota,
ma za (ti) a farò tutt, a farò.
(
163
né cabarè. Prepara la cher-
denza con dia fruia, de V uva,
dil nousi, digl amandli, di con-
feti e dil botili.
Sarv. e in tavld che pos-
sadi gh' ho f da metter?
Padr. Ti t'ha da tòeur i
cuciar d' argent, e il forzeini
e i cortei dal manegh d' oss
d'avori, e arcordet ben che il
boci, i bicier, i bicirein i sian
qui d'crisiàl mola. Metta pò
d'atomo a la tavla il scrani
mio7Ì.
Sarv. Al sarà servì a
poniein.
Padr. Arcordet che in sta
sira a vein me nòna. Za et
sa che tarocul Ve da veccia!
T'ha da manir la camra bona,
fa limpir el pajón, e bater i
matarazz. Manissa el leti con
i linzoeui e il fodrèlti il pu
fèini, e quàtel con el vèl pr' i
sinzos. Limpissa la broca d'ac-
qua, e desteinda sora al ba-
slott un sugaman ordinari e
un fèin. Fa tutt'il cosi da ra-
son, che'n t' mancare la bo-
namàn.
Sarv. Invrità al m' ha
ordina dil cosi mondbein, ma
mi a farò tutt.
scudelle, m sottucoppe. Comda
la cardenza con frùta, uva,
nóse, amandule, conftiira e bo-
tiglie.
Serv. e che posse gh' ho
da mette in tavula.
Patr. Pija i cu^ccièri d'ar-
gentu e le furzénne e i curté
cm'ar manghu d'ossu d'avoliu,
e arcordete che le bòcce, i bile-
véri e i bùccerèn ch'i sie culi
d' cristalu amulà. Acomda pò
d'inturnu cule scranepii bónne,
Serv. E sarà servì pun-
tuale.
Padr. Arcordete bein che
stasseira vei7i mia Nòna. T sé
comme l'è innojòsd cula veccia !
Métta in ordene la camra ben-
na, fa impji ar pajon e battr la
strapponta. Accomda ar ktu
con i lenzòè e foedre le pù
fèinne, e quantlu con al para
sinsagule. Lempia la broca
d' aqua, e sora ar baslotu de-
stend ghe iin sugaman ordina-
riu e unfén. Fa tiitu in regula,
eh' la bona rnan n mancar à.
Serv. In vrità 6 m'ha cw-
dina tante cosse, ma V farò
tutte.
1
16i
OSSERVAZIONI ED AVVERTENZE
Sl'LLA PRONUNZIA DEI TRE DIALETTI.
I. Dialetto Piacentino. — Nei vocabolari municipali non si
ha ordinariamente in mira , che di supplire al bisogno di chi poco
conosce la purezza dell' italiano idioma, contrapponendo voci corrette
alle vernacole; quindi non si danno che leggeri indizj della pronunzia,
perchè viene , in certa guisa , insieme col latte nella bocca di tutti.
Ogni qualvolta però voglia farsi un accurato confronto di un dialetto
coir altro, sarà cosa essenzialissima lo indicare il vero suono delle
parole, per trovare Telimologia di non pochi vocaboli, o la loro pro-
venienza da altre lingue. Con questa saggia mira il dottissimo tradut-
tore ^piacentino, Barone Giov. Giuseppe Ferrari, corredò il Dialogo
delle seguenti note , per mezzo delle quali rese pronunziabile quel
Dialetto anche dai non Piacentini.
(a) I due (") punti sopra una vocale indicano che se ne debba
allungare il suono, come se fosse raddoppiata.
(b) Quando il dialetto tronca una parola italiana dov* è doppia
consonante, ei la fa sentire come in gatt , leti , oU , fritt , che sono
troncamenti di gatto, letto, otto, fritto Nella parola tùtt è da riinar-
care per la pronunzia lo stretto ti francese della parola vertù, e così
ove si troverà questa lettera ugualmente accentata.
(e) Questo dittongo, qui e sempre , ha lo stesso suono che ne
francese. La pronunzia della parola è la medesima che quella della
parola francese source, sorgente.
(d) Questo modo è più padronale che il dire tutt il com-
mÌ88Ìon eh* a t*ho datt.
(e) Coir ae intendiamo , qui e sempre , significare un suono tra
Ta e la e, ma più vicina a quest'ultima, pronunziata alquanto aperta.
(f) E dittongo che usiamo sempre nel medesimo suono che nel
francese feu per fuoco.
(g) Nella pronunzia di questa voce la t deve appena sentirsi, e
così ovunque s'incontri fra l'ae e la n o Tae e la m, come in
taeimp, tempo.
/ _■
165
;b) Qui il gna ha il suono stesso che Dell' italiano ^nacchera ,
gnaffe.
(i) Il primo 8 ha il suono naturale, e il secondo lo prende così
da fard che la parola consuoni colla francese chaise, seggiola.
(I) Questo on, in signifìcanza di uno addiettivo , va pronunziato
come nel francese Von dit,
(m) Codesta i3 suona come nella voce francese saceinthe^ giacinto.
(n) È la « come qui sopra.
(o) Qui il gne si pronunzia come nell' italiano gnene per gliene.
(P) È la pronunzia del francese serin (passero delle Canarie),
ove la e fosse muta.
(q) Si pronunzia come il suol francese in significazione di ubriaco.
(^) Qui la z partecipa della s facendo un suono come nella pa-
rola francese sei (sale).
(s) È la stessa pronunzia che nella parola italiana vigna.
ft) Sarà nel dialetto appartiene tanto al verbo essere che al
verbo sapere.
(u) Consuona per la pronunzia alla parola francese citè (città),
solo che si allarghi la e nel suono del nostro ae.
W Suona questo occ per occhi come in approccio.
(y) Bàevar per bavero di vestito, e fèudar per fodere , si pro-
nunziano brevi.
(z) Qui la Si suona aspra come nella parola zappa,
(aa) Ella è T esattissima rima col francese defunte per defunta.
(bb) E il vècG nella parola véccia, specie di grano.
(co} È la j8 aspra della parola zoccolo.
(dd) Di sopra ponevasi Pdedar per Padre, secondochè il Pdèr e
Mdèr sia proprio dell'infima plebe.
((?e) È la stessa z che nella parola ozii, egiziij interstizti, indizii,
(ff) Rima col francese fin (fine).
i'i%) i, la stessa desinenza del francese aucun.
{^^) Deve così poco farsi sentire Va nella pronunzia di questa
voce, che quasi fa rima colla francese litre (misura di capacità).
(n) la tutto il Piemonte vianda significa carne, ma il piacentino
dice vianda ogni pasta da minestra.
L
166
(li) La z prende qui lo stesso suono della ce nel francese, cervelle,
sostanza cerebrale.
(mm) U ripetere a questo modo, si compete al piacentino che
parli con interessamento e calore.
(nn) Anche qui la z è aspra come -in zappa.
(oc) E l'esattissima rima col francese pelouse (piano erboso).
(PP) Pronunziasi come il francese cerne (lividura sotto gli occhi).
(qq) La z è qui pel suono, come il ce nel corrispondente fran-
cese porcellaine,
(rr) È Io stesso suono che nel francese nous avons.
\Ss) Si pronunzia come nell' imperativo francese ouvre^ del verbo
ouvrir (aprire).
(tt) Suona qui la z come sopra in zamò. V. la nota in^).
IL Dialetto Parmigiano. — La pronunzia parmigiana manca
di vivacità, appoggiandosi molto sulle vocali, ed allungandone il suono.
Pochissime sono le vocali larghe ; rare le consonanti doppie. L' a per
lo piti ha un suono che sente della e; e questa viene talvolta cam-
biata in a ; ciò però non può impararsi che coir esercizio della viva
pronunzia: per esempio la seconda a di amar (amaro) sì proferisce
dai parmigiani in modo, da sembrare , un e, mentre T e sembra un a
nella parola erba.
Molti sono i dittonghi e i trit,tonghi che difficilmente si pronun-
ziano, come in srein (sereno), in cui sentesi la e più della t: il dit-
tongo però eu si pronunzia alla francese, quindi nel trittongo oeu si
fa sentire il supno dell' o e delF eu, ma in modo piuttosto riunito.
Il 8c accenna un suono molle, ma pure gli va unita una certa
durezza : tutti i e in fine di parola cambiano di suono, avendolo or
molle, come in znoci (ginocchio), ed ora duro siccome in ricc (ricco).
Nel dialetto parmigiano si fa uso frequente di apostrofi, 6 perciò
le vocali van soggette spessissimo ad elisione. Frattanto può asserirsi,
che non furono stabilite regole costanti e ben determinate sulla pre-
ferenza di questo dialetto, e molto meno sulla sua ortografia ; ciò non
di meno die norma ali* eruditissimo traduttore del Dialogo, il Com-
mendatore Michele Lopez, Direttore del Ducale Museo, il Dizionario
167
Parmigiano Italiano, compilato dai Pescbieri e pubblicato in Parma
nel 1828.
III. Dialetto Borgotarese. — Le vocali aiu ban suono natu-
rale ; la e per lo più è stretta ; la o pronunciasi come in sole.
Gli accenti acuti e gravi sopra le vocali le fanno pronunziare
come nel francese ; la u, specialmente accentata, ha il suono stesso
della fi del predetto straniero idioma : altrettanto dicasi dei dittongo oe.
Ove trovasi V accento circonflesso si allunghi il suono della vo-
cale cui è soprapposto, e si pronunzi come doppia e stretta. Alla a
preceduta da vocale diasi lo stesso suono nasale, che danno i fran-
cesi ali' an, en, in.
Avvertasi inGne che il Dialetto borgotarese richiede nella sua
pronunzia accento molto prolungato e bocca semichiusa.
V accurata traduzione del Dialogo è dovuta alla cortesia di un
valentuomo di Borgotaro, conosciuto in Parma col nome ignobile di
Pacchino, ma di cui ei non si adonta perchè conscio della sua pro-
bità in cosi dura professione. Ciò è tanto vero, che col titolo appunto
Il Facchino, dal Gennaio fìno del 1839, egli pubblicava settimanal-
mente in Parma un foglietto letterario, in cui si leggevano eruditi
e morali articoli, sommamente utili alia istruzione del popolo ; co-
tanto sono comuni in Italia anche nella plebe i nobili ingegni !
L
108
DIALETTI DELL^ ANTICO DUCATO DI MODENA
CON ILLUSTRAZIONI ETNOLOGICHE.
Uno dei più funesti frutti generati in Italia dalla barbarie
dei bassi tempi fu al certo il Feudalismo; ma quel simulacro
della vera tirannide non ebbe tanto numero di schiavi, e
non esercitò così lungamente il suo durissimo impero in
veruna contrada della Penisola, come in quella dei già detti
Stati Estensi. Essi non erano infatti che un'aggregazione di
piccoli territorj feudali. Y origine dei quali rimonta alla ti-
rannide longobardica. Quei feroci oltramontani, travagliati dai
rimorsi delle crudeltà commesse cosi a danno dei vicini
come dei servi addetti alla gleba e delle ancelle, depone-
vano a pie degli altari gran parte delle derubate sostanze:
poi i più doviziosi monasteri subaffittavano porzione dei
terreni avuti in dono ad una classe di livellari; i quali as-
sumendo a poco a poco quella stessa autorità che gli ec-
clesiastici si erano appropriata, finivano per darsi in acco-
mandigia all' Impero, e coli' artificioso pretesto di domandare
investitura dei beni che ormai possedevano, di livellari ad-
divenivano signori quasi assoluti, o tirannelli. Ciò potrà
meglio dimostrarsi quando dovrò far menzione delle già
estensi provincie transpennine, la Garfagnana cioè, la Lunigiana
e il Ducato di Massa e Carrara. Nei territorj compresi nel-
Talta Italia, detti cispennini relativamente a Modena già
capitale, basti il dire che nelle provincie bagnate dalla Sec-
chia e dal Panaro trovasi ad ogni passo una qualche terra
che fu in antico fortificata rocca, dal di cui nome presero
titolo di Marchese o di Conte i capi di altrettante famiglie :
nel Reggiano possono contarsi fino a ventofto antichi Mar-
chesati, e quarantacinque Contee; nove di queste se ne in-
contravano nel Modenese e venti dei primi, e nello stesso
169
mantuoso territorio del Frignano non erano men di dieci i
Signori che da quelli alpestri villaggi prendevano titolo di
Conte, ed altrettanti quelli di Marchese.
Le antiche provinole Estensi dell' alta Italia presentano
gran varietà nell'aspetto; ove questo non apparisce ridente,
è miralbilmente pittoresco. I bassi piani aggiacenti al Po
dispiegano tutta la feracità e la ricchezza de^ suolo bagnato
da quel grandioso fiume : la zona delle colline che alla pia-
nura soprasta, è ridente di bdle coltivazioni; e le pendici
settentrionali dell' Appennino sono rivestite da boscaglie e
praterie di vigorosa vegetazione, sebbene poste in faccia ai
venti aquilonari.
Per quanto possano sembrare ai critici di maggiore ri-
gidezza non bene segnati nelle antiche storie i confini della
dominazione etrusca, non si può contuttociò rigettare o di-
spregiare r asserzione di T. Livio, che nel 38 dei suoi libri
dichiarò avere appartenuto agli etruschi la pianura circom-
padana, poi chiamata Modenese. È notissimo che 'dai Galli
Boii anche quel paese fu invaso : molto più tardi, nel 571
cioè di Roma, dedussero i Romani in Modena la prima co-
lonia, sebbene il Tiraboschi opinasse sulla fede del Cluve-
rio che ciò avvetiisse alcuni anni prima.
Nel dominio dei Romani fu teatro questo territorio di
grandi avvenimenti: basti il ricordare il celebre triumvirato
di Antonio, Lepido e Cesare, che tennero congresso in un
isolotto del Reno bolognese, ivi consumando il tradimento
della patria colla distruzione della Repubblica.
Caduto r Impero e sopravvenuta l' invasione dei barbari
insorsero, come è ben noto, tra il Sacerdozio e l'Impero le scan-
dalose dispute di funesta celebrità. I Modenesi si attennero alla
parte imperiale, ma travagliati poi dalle fazioni sul finire
del secolo XIII, Obizzo <1' Este ebbe in dedizione spontanea
Modeira, e un anno dopo anche Reggio che volle seguirne
170
l'esempio. Nella lunga serie dei Duchi Estensi ebbero tal-
volta queste provincie la grata sodisfazione di lodarsi di
buoni Principi: certo è però che se la Divina giustizia non
fosse accorsa in questi ultimi tempi a sollevare quelle po-
polazioni dalla dura tirannide dei due ultimi Duchi, padre
e figlio, le condizioni politiche degli Stati Estensi sarebbero
addivenute insppportabili.
Abitanti. — Dovendo dare un cenno della indole, o ca-
rattere fisico-morale di questa popolazione, senza perdermi
in vahe congetture, asserirò che l' influenza esercitata dal
clima sul temperamento dei Lombardi e dei Veneti, noti gli
uni per austera gravità e gli altri per gaio e festivo carat-
tere, produsse lefletto in questi abitanti delle provincie già
Estensi di partecipare felicemente alle naturali prerogative
delle due indicate popolazioni della gran valle del Po. In
essi vedesi infatti una certa sostenutezza di contegno, la
quale manifestasi più sensibilmente in occasione di pubbli-
che sciagure, mai però in modo da dare assoluto bando ai
modi ridenti che tanto addolciscono il consorzio sociale.
Ecco il perchè la storia letteraria modenese e reggiana of-
fre un numero così cospicuo di uomini, i quali si distinsero o
per sublimità di talenti o per leggiadria d' ingegno. Che se
tra i primi rifulsero principalmente i Modenesi, primeggia-
rono i Reggiani fra i secondi : anzi moltissimi delle due cit-
tà portarono il nobile vanto dell* eccellenza, cosi nelle più
austere come nelle geniali letterarie discipline. E si avverta
che il popolo delle due provincie somiglia nell' indole gli
abitanti delle due città ; di un riservato contegno nel com-
mercio sociale ; di gaje maniere nei festeggiamenti pubblici
e nei domestici ; operoso ed intelligente ; dispostissimo a
correggere gif ereditati errori nelle arti e nelle manifatture,
quando fosse opportunamente istruito.
Ne resta ad offrire il consueto confronto dei principali
171
vernacoli : per ben valutare le differenze della lingua vol-
garmente usata dal popolo nei tre territorj nell'alta Italia
compresi, fui sollecito di domandare accurate traduzioni
del noto dialogo nei tre dialetti di Modena, di Reggio e di
Fiumalbo nel Frignano : mercè la cortesia di valentissimi
letterati potei ottenerli colla bramata accuratezza.
172
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
ED UN'SUO SERVITORE.
Padrone. Ebbene, Batista,
hai tu eseguite tutte le com-
missioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino ;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città; ma
poi è piovuto tanto!
Padr. Che al solito sei sta-
to a fare il poltrone in un'oste-
ria, per aspettare che spioves-
se! E perchè non hai preso
r ombrello ?
Serv. Per non portar quel-
l'impiccio; epoijeri sera quan-
do andai a letto non pioveva
più, se pioveva, pioveva po-
chissimo: stamani quando mi
sono alzato era tutto sereno,
e solamente a levata di sole
si è rannuvolato. Più tardi si
è alzato un gran vento, ma
invece di spazzare le nuvole,
ha portato una grandine che
TRADUZIONE
NEL. DIALETTO
MODENESE.
Padron. e ben, Batteista,
aet esegui tonti el comissioìi
eh' a t' dae?
Servitou. Sgnor, al poss
assicuraer d esser stae pun-
tuael al pioù cK aio pssù. Sta
matteinaal sé e oun quaert aie-
ra za fora. Al sei e mez aiéra a
metaè straeda, e agli otl e tri
quaert a intraeva in zittaè:
ma pò è piuvù tant!
Padr. Che al solit iè staè
a faer alpultron ini oun usta-
ria, pr asptaer cK a lassas
d piover! E per cosa en n aet
toh V umbrella ?
Serv. Prenpurtaer cMim-
broj; e pòjer sira quand andò
a lett anpiuviva pioù, o sa più-
viva, a piuviva ben poc. Sta-
matteina quant ani son alvaè
era tout sren, e sol ini V aU
vaeda dal sol a sé anuva-
laè. Pioli taerd a sé alvaè un
gran veni, ma invez ed spa-
zaer el nuvel, V a purtaè ouna
tempesta eh' a durae mez&ra,
i73
TRADflZIONE
NE3L DIALETTO
DI REGGIO.
Padròn. Oei Battista, het
mò eseguì tutti il commission
che t' ho de ?
Servitotr. Sgnour el pòs-
s* assicurèr d' esser stè puntvèl
più che % ho p$u. Siamàteina
a sé our e un quèrt i era za
in viazz ; a sett our e mèzz t
era a mèzza strèda, e a ott
oùr e ili quèrt \ era in zitte;
ma V è pò piuvu tant !
Padr. Che al solit t è stè
a fèr al pultron in f una u^sta-
ria, pr' aspfèr eh' s abbastas!
E per cossa n hèt tot /' um-
brèlla ?
Serv. Pr n pur ter qui im-
bròi; e pòjèr sira quand i andò
a létt enpiuviva pili, ose piuvi-
va,piuviva appéina:stamattet-
na quand am sonn alvè V era
srein da per tutt, e soul quand
se alvè al sòl e se tour né
annuvalèr. Più tèrd se alvè
un gran véint, ma invézz de
spazzer il nuvel, r ha purtè
una tempesta eh' ha durèmezz
TRADUZIONE
NEL. DIALETTO
DI FIUMALBO NEL FRIGN/INO.
Padron. Ebben, Battista,
hattu fatto quel, cKi t'ho ditto?
Servitor. Sior padron, i
gasseguro d' aver fatto quel
ch'i' ho possù; stamattina alle
sé e un quarto jèro già per la
via ; alle sette e mezzo jèro a
mezza via, e ajotto e tri quarti
f entravo in città, ma pò le
tanto piovùl
Patr. Che al solito te sta
a fare el poltron in t' un osta-
ria per aspettar che restasse
de piovere ! E perchè nattu
tolto r ombrello ?
Serv. Per non aver quel-
r impiccio; e pò arsera quando
f ànda a letto no piovea più,
se piovea, piovea pian pian ;
stamattina quando i me son
leva l'era seren da pertutto,
e solamente a kvada de sole
le vegnù nuvole. Po el se leva
un gran vento, ma invece de
schiarare, le vegnù una gra-
gnola, che Vha dura mezzora.
174
ha durato mezz'ora, e poi
acqua a ciel rotto.
Padr. Così vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto quasi
niente di ciò che ti avevo or-
dinato ; non è vero ?
Serv. Anzi spero che ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
Serv. Nel tempo che pio-
veva mi sono fermato in bot-
tega del sarto, ed ho visto con
questi miei occhi raccomodato
il suo soprabito con bavero e
fodere nuove; i pantaloni colle
staffe erano finiti, e la sotto-
veste stava tagliandola.
Padr. Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo e il calzolajo, e di
questi non ne hai cercato?
Serv. Sì signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio, e non gli mancava
che orlare il nuovo. Il calzolajo
poi aveva terminati gli stivali,
le scarpe grosse da caccia, e
gli scarpini da ballo.
Padr. Ma in casa di mio
e pò zo acqua a zel strazaè.
Padr. ^csé te m vou faer
capir d'en n aver fati come gnint
d quel cKa t aviva cmandaè:
en né vera?
Serv. Anzi asper ch'ai sa-
rà cuntent, quand al savrà al
gir ch'aio fai per zittaè in
dò or.
Padr. Sintemeltópì'oudez.
Serv. Int al temp eh* a
piuviva am san fermaè in bu-
tega dal saert, e dxò vmt con
stes dò lantern acoumdaè al
so soprabit con al baver e
la froda nova : al so abit tur-
chin con el braegh dai sotpè
eran finì, e al staeva tajand
al gilè,
Padr. Tant mei: mo t'amo
pour avsein al caplaer e al cai-
zulaer, e d quisf t'en nae zer-
caè brisa?
Serv. Si signor: al ca-
plaer era atorn a arnuveregh al
so capei vece, e angh mancaeva
aelter che d taurnerghel a ur-
ler. Al calzulaer pò aviva finì
i stivai, i scarpon da caza, e
i scarpein da bai
' Padr . Mo in cà d me paedr
175
(mra, e pò acqua a zel strazze, e pò aqua a palade
Padr. Acsì t'vò ferme ca-
pir d'n'avàr fati qués gmni
d qvèll eh' f aviva cmandè ; è
veira ?
Serv. Anzi e spér ch'ai
srà cuateint, quand al savrà
al gir eh' i ho fati per la zitte.
Padr. Sintema el tò bravur^
Serv. In témp che piuviva
e m san ferme in butteiga dal
sért, e i ho visi coun stì me
òcc aggiustò el so sovrabit coun
al baver, e el fodr nòvi : la so
giubba nova, e i pantalòn con
il steff i èran firn, e al tajèva
allòura al gillè.
Padr. Tant e mej. Ma
f aviv pur li vsein a pòc pass
al capplèr, e al calzulèr,e d'qui-
st che pò ten né zerchè.
Serv. Si sgnór: al capplèr
puliva al so cappél vtccy e negh
manchèva che urlerl d' nóv.
Al calzulér, pò Viva fini %
stivai, il schèrp gròssi da cazza,
e i scarpaein da ball.
Padr. Ma in ca d'me pédr
Padr. E cosci tu ms vo
dire de n aver fatto quasgi
gnent de quel, che i levo ditto;
è ver?
Serv. Anzi i spero, eh' el
sarà contento, quando el sarà
el giro cK % ho fatto per città in
do ore.
Padr. Sentemma le to pro-
dezze.
Serv. Quando piovea i me
son ferma in bottega del sarto,
e % ho visto con i me occhi as-
seta el so sovrabito col bavero,
e frode nove: la sa giubba tur-
china, e i pantaloni colte staffe
jeran fini, e la sotto veste ù
la tajava.
Padr. Tanto mejo. Ma el
ghera pure poco lontan el ca-
pclajo e el calzolare, e de lori
non tu n ha cerca?
Serv. Gnor sci : el coppeU
lajo repuliva el so cappello vec-
chio, e. non ghe mancava che
orlare el novo. El calzolar pò
l'èva finì i stiva, le scarpe grosse
da caccia, e i scarpini da bal-
lare.
Padr. Ma in cà de mepa
nr>
padre quando sei andato, che
questo era l'essenziale?
Serv. Appena spiovuto, ma
non vi ho trovato né suo padre,
né sua nrjadre, né suo zio, per-
ché jeri r altro andarono in
villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno sarà stata
in ca«a?
Serv. No signore, perchè
avevano fatta una trottata, ed
avevano condotto il bambino
e le bambine.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa ?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor pa-
dre, la cameriera e due servi-
tori erano con sua cognata, e
il cocchiere avendo avuto l'or-
dine di attaccare i cavalli per
muoverli, se ne era andato col-
la carrozza.
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
. SERV.Nonvihotrovatocheil
garzonedi stalla, edaluihocon-
segnato tutte le lettere, perchè
le portasse a chi doveva averle.
Padr. Meno male. E la
provvista per domani?
qxmnd ghet andaè, che quest
era limpurtanl.
Serv. A pena cKa sèaba-
staè d piover; ma an gh'o tru-
vaè né so polder, né so maeder,
né so zio, perché jer V aeltei* i
andon in campagna, e i in stae
là in sia noit.
Padr. Però me /radei, o
dimane so mujera gKsarà sieda
in cà.
Serv. No sigtior perché i
eran andaé fora in legn vers
Sassol, e i avivan ioli segh al
putein e el puieinL
Padr. Mo anch la servitù
l'era ionia fora d cà?
Serv. Al cogh era andaé
in campagna con al so papà,
la camarera e doù serviior cren
con so cugnaeda, e al cuccer,
ch'iva avù lorden d'atiacchaer
t cavai per mouvri, al s* n era
andae con la caroza vers Vazj.
Padr. Donca la cà V era
voada ?
Serv. An gh'o truvaé ch'ai
siallon, e a lou aia cunsgnaè
iouti el leiier perché al li pur-
iass a chi gì' andaeven.
Padr. Mane mael. E la
spesa per dman ?
ì:7
quand g hét andé, che guest
V era al più nezzessari.
Serv: Appeina s' è abbasté
d' piòver : ma an g ho truvè
né so pèdr, ne so mèdr, né so
zio, perchè jér d là % andòrn
in campagna, e s g han durm.
Padr. Pr èter me fradèl,
o so mujèr almanc srà stèda
in cà.
Sehv. Nò sgnor y perchè
iven fatt una truttèda vèrs al
Cróstel, e iven condòtt ségh al
sa puttéin, e il so puttéini.
Padr. Ma i servitór érni
iutt fora dea?
Serv. At cógh era and è
in campagna con al so sgnour
pédry la comprerà e du ser-
vitour con so cugnèda, e al
cuccér eh* aviva avu órdn
d'attachèr per móvr ì cavai
V era andé con la caròs^za vèrs
Pèrma.
Padr. Dònca Vera vada
la cà?
Serv. Engho truvè cK al
station, e % ho amsgné a lu
iutt il lettr, perchè al li pur-
tass a chi gli aviva d'aver.
Padr. Mane mèi. E la
pruvista per dman ?
quando ghettù sfa, che più me
premeva ?
Serv. Appena resta de pio-
vere : ma i no g ho trova ne
so pà, ne sa ma, ne so zioy pac-
che eri de làfandomo in villa,
e i g hen dormì.
Padr. Me fradello però, o
sa moje almanco la sarà sta
in ca? .
Serv. Gnor no, perché fe-
van fatta una trottada, efevan
mena via el bimbo, e le bimbe.
Padr. Ma i servitori eran
ì tutti forra de cà?
Serv. El cogo V era andd
in campagna col so signor pa-
pà; la camerera, e i du ser-
vitori f eran colla sa cugnada,
e el cocchiere V èva abbiù l' or-
dine d'attaccare i cava per
móverje, e Vera andà colla
carezza verso. . . .
Padr. Donca la ca l'era
resta voda?
Serv. / no g'ho trova altro
che u stallere, e a lu f hodà
tutte le lettere, perchè ùje desse
a chi andevane.
Padr. Manco male. E la
provista per doman ?
1$
L
478
Serv. L'ho fatta : per mi-
nestra ho preso della pasta, e
intanto ho comprato del for-
maggio e del burro. Per ac-
crescere il lesso di vilella,
ho preso un pezzo di castra-
to. Il fritto lo farò di cer-
vello, di fegato e di carciofi.
Per umido ho comprato del
majale, ed un' anatra da farsi
col cavolo. E siccome non
ho trovato né tordi, né starne,
né beccacce, rimedierò con un
tacchino da cuocersi in forno.
Padr. e del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perché costava po-
chissimo. Ho comprato so-
gliole e triglie, razza, nasello
e aliuste.
Padr. Cosi va benissimo.
Ma il parrucchiere non avrai
potuto vederlo?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e cioccolata,
COSI ho parlato anche a lui.
Padr. E che nuove ti ha
date ?
Serv. Mi ha detto che
Serv. L'è fata: per mne-
I stra aio tolt dh pasta, e intani
aio cumpme dal furmaj e dal
bulir. Pi r crescer al less d vi-
dei alò tolt un pez d castraè.
Al freitt al farò d zei velia,
feifjhtt e carciofan. Pr oumid
aw cuntpraé di animael, e una
nwJra da metter con i caeval
fior : e siccovi pò on gh' ira né
j tord, né perni», né pissacher,
affh rimediar ò con un toch cott
al forn.
Padr. E dal pess n ael
coùnipraè ?
Serv. SoncamèI ano tolt
anzi dimondi, perché al cu-
staeva poch. Aio cumpi'è dia
sfoja, dal neilli, dia raza, dal
pess berlam e dia ragousta.
Padr Acsé va benon : mo
al pirrucher ten l'avraé pssoii
veder?
Serv. Anzi siccnm F ha la
butlega vsnn a qufìla dui dru-
gher, indòv aio fati prouvista
d zuccher, d pever, d garofen,
d cannela, e d cioccolaeta, acsé
aio parlaé anch a lou.
Padr. E che nóv fai daè.
Serv. Al m'ha deit che
179
Serv. e l'ho fatta: per
mnéstra % ho tolt dia pasta, e
intani a i ho cumprè flel fur-
maj e del buttér. Per cresser
al less d vidéll t ha toU un
bcónd castrò La frittura e la
fa^ò d'zervèlU d'fìdvqh, e dar-
iiciòcch. Prumid i ho cump^è
dr ammèh e una nadra da mét-
ter con i càvel fior E navend
truvè di tourd, d' pernis, né
dpizzàclier egh rimediar ò comi
una pleina arrmtida al fourn.
Padr. e dalpess net calte?
Serv. Ansi e n ho tolt di
mondi, perchè V era a strazza
mcrchè. L ho cwnpré del sfòi,
dì russiòi, dia raza, e dal
naséll.
Padr. Acsi la va benis-
sim; ma al perucchèr leni avrò
miga pssu vedr?
Serv. Anzi perchè la so
butteiga è vseina a quella dal
drughér, duv i ho fattpruvi-
sta d' zucci\ peivr, garufanein,
canélla, cioccohìta, a sta ma-
nera i ho parie anch con lu.
Padr. E cossa ( hel mò
diti d'nouv.
Serv. Al m' Im diti die
Serv. / lo fatta : per me-
nestra f ho tolto della pasta,
e intanto f ho compra del ca-
sgio, e del butere. Per crescere
el lesso de vidello f ho tolto
un pezzo de castrado. El fritto
i l'ho farò de cervello, de fe-
gato, e de carciofani Per l'urne-
do f ho compra del porco, e un
anatra da farse col cavolo. E
perché % n ho trova gni tordi,
gni starne, gni beccacce, i ghe
remedieiò con un tocchin da
cosgere in forno..
Padr. E del pescio non tu
n ha compra?
Serv. Anzi i n'ho tolt tanto,
perchè el costava poco. l'ho
compra syolt, trije, razza, na-
sello, e aliguste.
.Padr. Cosci la v'ha ben.
Ma el perrucchere non tu l'ha-
ra possù vedere?
Serv. Sci, perchè V ha la
bottega accanto a quella del
droghere, che jo fatto provision
de zucchero, pepe, garofani,
canella e docciata, e i l'ho
visto anche lu.
Padr. E che t'ha elio ditto?
Serv. El m'ha ditto, che
180
r Opera in musica ha fatto
furore , ma che il ballo è
stato fischiato; che quel gio-
vine signore suo amico perde
l'altra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire colla diligenza.
Mi ha detto pure che la si-
gnora Lucietta ha congedato
il promesso sposo, e h^ fatto
giuramento di non volerlo più.
Padr. Gelosie.... questa si
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara tutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli miglio-
ri; tra i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
manchino né scodelle, né vas-
soj. Accomoda la credenza con
/' opera ha fati furor, ma che
al ball è stae fiscaè; che cai
zoven sgnoì* so amig al pers
V aelira sira al zogh tonti el
scumess, e che adess V aspeta
d partir con la diligenza per
Genva. Al rn ha anch deit che
la sgnora Luziina V ha daè
l'erba cassia al so proumess,
e r ha fati zurament d n al
vler piloti veder.
Padr. E che gelousii! o
questa si eh V am fa reider ;
mo pensem adess a nou.
Serv. Sai s cuntenta a
magn un poc d pan, e a bev
un biccer d vein^ e pò a toni
soubit a rizever i so cmand.
Padr. Siccom aio prescia,
e aio bisogn d'andaer fora, d cà,
seni preima cosa a f orden, e
pò t magnaraè e t ripousarae
guani a i piasrà.
Serv. M' al cmanda pour.
Padr. Pr'aldisnaer eaiem
da faer, t ae da preparaei^
tout in t la camra mjttra. Tae
da tour la tvaja e i tvajoii pioti
fin; tra i piatt i' ae da tour
qui d pourzlana, e procura ben
eh' a neg manca ne tundein ne
cabarè, Accomda pò la cher-
18 1
V opra ha fati un gran incontr,
ma che al ball è stè stifflè;
che quel zòvn so armgh jér
dia sira al zògh al pérs tuli
ilpuntèd, e cK adess i asptèva
la diligènza per partir per
Gènva. Alm ha anc diti eh' la
sgnora Lucietia V ha die li-
zenza al 8Ò muròs eh' ghiva
prumiss, e l' ha fati giura-
meint de n vdérl più.
Padr. Tutti gelmii... Oh
questa sì che mi fa rider ; ma
pinsem intani a nu èltr.
Serv. S' al s cunteinta e
magn un poc d' pan, e s' bevv
un bicciér d' vein, e pò tourn
subii a rizever i so cmund.
l' opera in musica le sta bella,
ma al ballo i ghan fatto la fi-
schiada; che quel giovenotto so
amigo el perse V altra sera al
giogo tutte le scomesse, e che
adesso l'aspetta de partire colla
diligenza per Genova. E l m'ha
anche ditto, che la signora Lu-
cietia l'ha manda al sole el
promesso sposo, el' ha giura de
non volerlo più vedere.
Padr. Gelosie .... questa
sci, che me fa ridere; ma adesso
pensemma a nun.
Serv. S' el sé contenia i
mangio un pò de pan, e i bevo
un biccher de vin, e i s&n su-
bito da lu.
Padr. Ma me i Iw pressia
e i ho da andèr fora d' ca,
donnea seint prima cuss a
{ ourdn, e pò (magnare, e
t'arpunsarè quant e t' piasrà.
Serv. CK al cmandapur.
PADR.jPra/ dìsnèr cKiavèm
da fèr ammaniss iuit in ila
salotta mioura. Thè da tór
la tvafa, e % tvajó fin ; di tònd
f he da tór qui d'purzlana, e
guèrda eh' n manca il tundèin e
i cabarè. Ajusta la cherdeinza
con dia frutta, uva, nòs, man-
Padr. Siccome f ho freccia, ■
e ] ho d' andar forra de ca,
senti prima quel eh' i vojo, e
pò tu mangerà, e tu te repo-
serà quanto te pare.
Serv. El diga pure.
j Padr. Per el desgnare che
I f emma da fare, prepara tutto
; in tei mejo salotto. To la to-
I vaja, e i tovajò più finì ; to i
piatti de porcellana, e che ghe
scia le scudelle, e i vassoj.
Accomeda la cardenza con i
frutti, uà, nosge, mandrole, con-
1S2
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Sebv. e quali posate met-
terò in tavola ?
Padr. Prendi i cucchiai
d'argento, le' forchette e i
coltelli col manico d' avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini sia-
no quelli di cristallo arrotato.
Accomoda poi intorno alla ta-
vola le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna. Tu
sai quanto è stucchevole quella
vecchia! Metti in ordine la ca-
mera buona, fa'riempire il sac-
cone e ribattere le materasse.
Accomoda il letto con lenzuola
efedere le più rmi,ecuoprilocol
zanzariere. Erapi la brocca di
acqua, e sulla catinella disten-
di un asciugamano ordinario
ed uno fine. Fa'tutto in rego-
la, e la mancia non mancherà.
Serv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
(lenza con dh fìiita, di' uva,
dal noits, dal mandel, dal court-
ftur e del boutleili,
Serv. E die pousaed me-
li òj a in taevla?
Padr. T'ae da tmr icuc-
ciaer d[ argent, e el furchett e
i curiee con al mnneghd avò-
ri, e arcordet ben che i piston,
i bicceTy e i biccirein i sten quii
moulaè. Meli pò datorna a. la
taevla el scrann mjoii.
Serv. Al sarà servi in tout
e per tout.
Padr . Arcordet che in sta
sira a vin me nona. Tsè eh' per-
cantes è chla vécia I Mett donca
in orden la camra bona, fa im-
pir i pajon, e sbatter d nouv
i matarazz. Aggiousta al leti
con i linzuol e el fraudetti pioù
fini, e pò crovel con la zinza-
lèra. Impiss d acqua la broca
e in tal baslott destendegh un
I drap ourdinari e oun fin. Fa
I tout a mody eh la bona man
m mancarà brisa.
Serv. Le ben pò vera ch'ai
m' a ourdnaè dimondi coss, mxi
a farò tout.
183
del, ctmftury e buttilj.
Serv. Quelì pmsed hoja
da metter in tévta?
Padr The da tór i cucciar
d' argini, il furzein, e t curtéé
coun al mànegh d'avori, e ar-
cordet che il bozz, i biccer, e
i biccirein sien qui d' cristall
mule. Ajustapo d' inforna alla
tèvla il scran miòuri.
Serv. La srà servida con
puntvalité.
Padr. Arcordet che stassira
vin me nòna. T se da veccia
quant r è fastidiósa. Mèli al-
l' crden la carura Iona, fa
imjnr al pajazz, e fa batter
al matarazz. Fa al leti con
ì linzò, e il fudrétt piii fini,
e cróv l con la zinzalèra. Im-
piss la braca d* acqua, e in
zima al cadein destend un su-
gaman urdmari, e un fin. Fa
incossa bein e in regola, e la
bòna man nmancarà.
Serv. Da bón al m'ha
urdnè tant' coss, ma za e faiò
iutt.
felli e bocce.
Serv. E chepossade ho eo
da mettere in tavola?
Padr. To i cucchiari dar-
zento, le forcine e i colte, col
manego d' avoglio, e recordate
ben che le bocce, e i biccheri,
e i biccherini scian qui de cri-
stallo arreda; pò accomoda in-
torno alla tavola le scranne
mejo.
Serv U lasci fare a mi.
Padr. Recordate, che sfas-
sera vtn la mia nonna. Tu sa
quella vecchia come le stucche-
vole! Accomeda la camberà
bona, fa empire el saccon, e
batti re le mattarazze. Accome-
da el letto, e mildaghe % lenzo, e
le frodeitepiù fini, e cruvilo colla
zenzalera. Empi la brocca d'a-
cqua, e in cima alle cadinelle
sténdighe un sciugaman oì^di-
nario e un fin. Guarda de far
ben, e ghe sarà la bona man.
Serv. Veramente el m' ha
ordina troppe cose, ma i farò
alla mejo.
184
OSSERVAZIONI KD AVVERTENZE
SULLA PRONUKZIA DUi 'JRB DIALISTTl.
I. Dialetto Modenese. — Il coltissimo traduttore del Dialogo
non sapendo come signiGcare i suoni chiusi, e resultanti dalla coali-
zione di più vocali, li sciolse nelle loro componenti e vi soscrisse un
segno eguale ad una e giacente, per un avvertimento che da quelle
due vocali si dee fare uscire un suono misto, in modo da farle sen-
tire ambedue: ne mancò quel segno tipografìco, quindi supplisca ad
esso la precitata avvertenza. Ma debbesi notare che quelle tali mi-
stioni di suono, nel vernacolo Modenese sono ora più larghe, ora più
chiuse, ora inchinano più air una che all' altra componente, per Io
che forza è rimettersi alla pronunzia viva : e difatti tour per pren-
dere fa sentire quasi esclusivamente la o, come nelF italiano ora ;
mentre tout per tutto fa sentire la u assai più che la o precedente.
II. UiALETTO DI Reggio. — Dilficil cosa sarebbe il volere indi-
care regole generali, essendo la pratica quella che stabihsce l'uso del
fraseggiare, siccome accade in tutti gli altri vernacoli: avvertasi bensì
che il Reggiano è molto accentato ed assai sollecito, e che piuttosto
stretta ne è la preferenza. Occorse più volte di ripetere T osserva-
zione, che se io avessi voluto far tradurre il mio Dialogo in tutti i
vernacoli della Penisola, ne potevo raccogliere un immensa farrag-
gine: in riprova di ciò sappiasi che in Reggio, sebbene città non grande,
riscontrasi ditferenza notabile tra il parlare degli abitanti del centro
e del quartiere di Porta Castello, e i modi che usa il minuto volgo
dei tre altri quartieri di S. Croce, di S. Pietro e di S. Stefano : nelle
parole,^ per esempio, che cominciano con consonante succeduta dalla e,
come Cielo, Pietro, Stefano, gli abitanti del centro dicona Zel, Pedr,
Steven, e la plebe degli altri quartieri Ziel, Piedr, Stieven,
Le vocali susseguite da doppia consonante si pronunziano dai
Reggiani accentate e strette, cotne mezi mezzo, tassel tassello, qua-
drell quadrello, fruii frullo, dritt dritto, marcando molto le due con-
sonanti.
Le due vocali ou unite, come our ora, signour signore, si pro-
Lr
185
uuDziano in modo che appena distinguasi la u, e come se si dicesse
sicfHor colla o piuttosto chiusa: lo stesso dicasi delle due vocali ei
unite, come tetra vero, cunteini contento, che si pronunziano come
se si dicesse vera^ cwUcnty facendosi leggermente udire la i.
La z si pronunzia con due diversi suoni ; aspro cioè come Zel
cielo, za qua, e dolce, come za già, zel gflo. La e e la o hanno
due diversi suoni, T uno aperto e largo, come cuccier cucchiaio, boti
scocco, e l'altro chiuso e stretto, come cuccier cocchiere, bott botte.
La pronunzia di questo vernacolo è variabilissima, trovandosi
notabili differenze, anche nel fraseggiare da villaggio a villaggio: nei
luoghi prossimi ai conGni di Distretto, confondesi al solito e si cam-
bia quasi con quello degli abitanti limitrofi. Vuoisi altresì avvertire
che sulla montagna reggiana la preferenza diversifica quasi affatto:
la u poi vi si pronunzia prettamente alla francese.
Nel 1832 fu stampato in Reggio un Vocabolario Reggiano ha-
liano co' tipi del Tor reggiani ; ma il mio Dialogo fu tradotto nel
vernacolo della città, e non colla guida di quel Dizionario, poiché il
suo autore intese di estendere quel lavoro a prò dei cittadini non solo,
ma degli abitanti ancora del contado.
IIL Dialetto del Frignano. — In tutte le voci, in fine delle
quali vien mutilata una qualche vocale come lu per lui, qui per quei,
riposerà per riposerai, mangerà per mangerai ec. si allunga sempre
il suono deir ultima vocale quasi fossero due : non così però nei par-
ticipj, che vanno pronunziati tronchi, come arrodà per arrotato, dà
per dato. Anche i monosillabi so. per suo, sa per sua, debbono pro-
nunziarsi tronchi ; mentre nelle voci tri per tre, du per due, me per
miei, so per suoi, se per sei, vo per vuoi, la vocale debbo esser no-
tabilmente allungata.
I Frignanesi usano spesso la semplice t per io, quasi alla poe-
tica; per essi a-j equivale ad alle, siccome a j otto per alle otto.
Molte sono le loro elisioni ; n equivale talvolta al non ; t-evo per ti
avevo; do per due, e to per tue; en per anno; èva per aveva; u
per lo, ec.
L.
186
IXIALETTO IIOLOGJ^ESE
CON ILLUSTRAZIONI ETNOLOGICHE.
Oltre i due ex-Ducati Parmigiano e Modenese coniprende
l'Emilia i due terrilorii ferrarese e bolognese e la Romagna
propriamente delta. L antico Ducato ferrarese degli Estensi, ove
quei Principi ebbero splendiilissima corte, resa più illustre
dai rari ingegni in essa accolti che dai personaggi a qu(^lla
prosapia pertinenti, fino dal 1598 formò provincia dello
Stalo Pontificio col titolo di Legazione perchè governata- da
un cardinale. Alfonso II figlio di Ercole d' Este venuto a
morte nel 1597 senza figli, chiamò invano il cugino Cesare
alla successione. Papa Clemente Vili volle a viva forza la
cessione del Ducato per quindi trattare la contesa in diritto :
e^ i Principi Estensi fecero legali proleste contro quelle vio-
lenze pontificie, ma senza effetto. Era necessario il moderno
risorgimento nazionale, perchè i Ferraresi si sottraessero al
governo teocratico.
La storia di Bologna racchiude quella di tutta la provincia
che le è soggetta. L'origine di quella citlà, già chiamata Felsina,
risale ad epoca anteriore alla invasione dei Galli ; la fonda-
rono forse gli Etruschi. Non poterono i Romani acquistarne
il possesso che dopo la seconda guèrra Punica, allorq.uando
cioè cadde nel loro servaggio anche la Gallia Togata. Nella
rovina dell'impero fu più volte travagliata dalle sciagure che
oppressero tutta Italia : le funeste fazioni Guelfa e Ghibel-
lina più volte la insanguinarono. I Lambertazzi e i Geremei,
poi i Pepoli e i Bentivoglio ne tennero la signoria : ma
Papa Giulio II determinato di estendere il suo dominio so-
pra tutta la Romagna, costrinse Giovanni li Bentivoglio a
riparare in Milano, ed in forza di quella usurpazione Bolo-
gna era addivenuta capoluogo di una Legaziom.
187
Ravenna col suo territorio sembra che appartenesse
nei prischi tempi alla potentissima nazione degli Umbri : e
poiché gli stagni e i marazzi ne rendevano malagevole- V ac-
cesso, vuoisi che nella invasione dei Galli Senoni il terri-
torio Ravennate conservasse la sua libertà, e servisse d'asilo
ad altre popolazioni. Roma poi se ne impadronì, e caduta
la Romana repubblica, Augusto vi costruì un magnifico porto.
Nel 404 Onorio la dichiarò residenza imperiale ; poi Y Impe-
ratore d'Oriente ne fece capoluogo di un Esarcato, e così
Ravenna addivenne residenza dei tirannici luogotenenti impe-
riali, che in numero di diciotto travagliarono con ladroneggi
e violenze quella miseranda popolazione. Nel 752 Astolfo
re dei Longobardi impadronivasi di Ravenna; ma Papa Ste-
fano n si procacciò di là dai monti il soccorso armato di
Pipino, per togliere V Esarcato al re Longobardo. Nelle suc-
cessive discordie tra la Chiesa e l' Impero ebbe Ravenna
Conti, Rettori e Vicarj, ora inviati dal Pontefice ed ora
dall'Imperatore. Ciò servì d'alimento al germe micidiale
delle fazioni: l'antesignano della ghibellina, Guido Novello
da Polenta, divenuto Signor di Ravenna fu l'ospite generoso
di Dante. Ai successori fu tolta quella signoria dalla Repub-
blica di Venezia ; ma nella pace fermata da Papa Clemen-
te VII coir Imperatore Carlo V, il territorio Ravennate cadde
sotto il dominio sacerdotale della Chiesa ; ed in allora era
stala dichiarata Ravenna capoluogo della Romagna.
Abitanti. — Se una promiscuanza di Galli, Umbri, Etru-
schi e Latini venne a formare la popolazione di questa parte
d'Italia ai tempi del Romano impero, conviene dedurne che
sotto il rapporto di certe caratteristiche fisico-morali, diver-
sificano alquanto anche i moderni abitanti delle ex-ponti--
fìcie Legazioni. — Dichiarerò intanto che nella sezione ter-
ritoriale subappennina, la quale comprende la Romagna, a
me sembrò di trovare il tipo il più puro della razza italiana;
188
sveltezza e avvenenza della persona; regolari e proporzio-
nate forme; robustezza e vigoria muscolare. Alle quali fisi-
che doti corrispondono mirabilmente le caratteristiche della
mente e dell animo: notabilissima attitudine intellettuale
a qualunque opera d'ingegno; prontezza di spirito; amor
di patria più che di municipio ; tenacità nei vincoli del-
l' amicizia; cordialità non mentita verso gli ospiti. La fran-
chezza e la vivacità quasi generale nella gioventù roma-
gnola viene facilmente ràttemprata da dignitoso contegno,
frutto di pronta riflessione: è altresì verità incontrastabile
che la fermezza del carattere ed il coraggio rende i Ro-
magnoli valorosi nell' esercizio dell' armi e proclivi alle
imprese ancorché azzardosissime.
Scrisse il Valéry che il Romagnolo è capace di eccessi
così nel bene come nel male, e che può divenire, secondo
le impulsioni che riceve, un eroe o un brigante: ma quel
letterato straniero confuse senza accorgersene il popolo
delle città colla classe incolta e indigente di quei roma-
gnoli, i quali trovandosi in passato domiciliati presso l'an-
tico confine toscano col pontificio, malguardato in moltissimi
punti, erano spinti dal bisogno e favoriti da una facile
impunità al frodo dei contrabbandi; per cui assuefacendosi ad
un tenore di vita violento, sospettoso, e talvolta anche
sanguinario, se accadeva che la forza pubblica si ponesse
sulle loro orme, privi di comunicazioni sociali e di sussistenza,
si gettavano talvolta alle rapine a mano armata : tutto
questo però era colpa di una linea doganale tesa a foggia
di laccio contilo i più ardimentosi e men cauti ^ né doveasi
attribuire a mala indole della popolazione presa in massa!
Fortunatamente una sentenza di scrittore francese non può
recar disdorò alla generosa popolazione romagnola ; la con-
tumelia ricade sul falso accusatore.
Dialetti. — Se notabili differenze si incontrano nelle
r
189
caratteristiche fisico-morali tra gli abitanti delle aDtichè
Provincie pontificie, è non meno singolare Ki notabile di-
versità dei loro dialetti. Occorrendo qui di registrare il
bolognese, vuoisi avvertire che se talvolta si accosta ai ver-
nacoli lombardi, nella pronunzia però può dirsi originale
come il genovese. Le sue vocali sono assai larghe ed aperte,
dimodoché molti suoi o ed e si confondono quasi coli' a, la
quale può dirsi la vocale dominante del dialetto. Ripugna
al bolognese 1' usare i dittonghi francesi eu, oeu, oe comuni
in Lombardia e nel ducato Parmense, ma invece ha i dit-
tonghi teutonici ai, ei ou, au, come pzzeina, piccola; andain,
andiamo; puvrain, poverino; soul, sol; splendaur, splendore.
La pronunzia è ricca, avendo parole piane, tronche e sdruccio-
le, ed ha ben anche molta varietà, terminando esse non solo
nelle vocali, ma in molte consonanti: viene usata molto larga
con vocali a strascico e con nasali, in qualche caso però senza
r asprezza dei limitrofi Romagnoli. Il ginevrino Galiffe trovò
il dialetto bolognese orribile e tanto dissimile dal milanese e dal
veneziano, da rassomigliare aduna lingua di selvaggi ; diggmnse
che udendolo parlare per la primd volta, non può credersi
pertinente a dialetti italiani, poiché i bolognesi aborriscono
perfino le finali in vocale forse per la loro troppo dolcezza,
togliendole via senza misericordia da ogni vocabolo, per rendere
la lingua loro quanto più possono aspra e rozza! Dal pro-
nunziare così dura sentenza, si sarebbe guardato anche un
toscano: ecco una delle tante umiliazioni, cui si trovano
soggetti gì' Italiani, avviliti dalla divisione e dal servaggio !
190
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
KD i:n suo servitore.
Padrone. Ebbene, Batista,
hai tu eseguile tulle le com-
missioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos*
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino ;
alle sette e raezzp ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città , ma
poi è piovuto tanto!
Padr. Che al solito sei sta-
lo a fare il poltrone in un'oste-
ria, per aspettare che spioves-
se! E perchè non hai preso
r ombrello ?
Serv. Per non portar quel-
l'impiccio; e poi jeri sera quan-
do andai a letto non pioveva
più, se pioveva, pioveva po-
chissimo: stamani quando mi
sono alzato era tutto sereno,
e solamente a levata di sole
si è rannuvolato. Più tardi si
è alzato un gran vento, ma
invece di spazzare le nuvole,
ha portato una grandine che
TRADIZIONE
NEL. DIALETTO
BOLOGNESE.
i Patron. Ebbéin, Baitesta,
at esegue tuli et cumtssioun
; cK al ho dà ?
I Servitour. Al poss assi"
I curar al mi sgnour, d esser
I sta più puntual eh' ai ò pssù.
\ Sta matlema al si e un quart
aj era za per la rivira; al
seti e mézz ai era a metà
strày e agli ott e tii a intrava
in zitta; ma pò Ve piuvò a
tirundélla ! in 7nod ....
Patr. Che al sólit ti sta
a far al pulfrón in (un usiaré
pr aspttar eh' dsmittess. E per-
chè n at tolt l'umbrélla?
Serv. Fen purtar quim-
i plezz: e pòjir sira quand andè
j a leti an piuveva più, o s al
j piuneva al spiuvznava. Sta-
maiteina quand am san Uva,
I l'era sréin dappertutto e soùl
I aW alza dèi suù V è turnà
; nùvel. Più tard s'è alza un
! vinfsazz ; ma invez d' spazzar
I el nuvel, l ha purtà una
tempèsta eh' è dura mezzoura.
191
ha durato mezz'ora, e poi
acqua a eie! rotto.
Padr. Cos\ vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto quasi
niente di ciò che ti avevo or-
dinato ; non è vero?
Serv. Anzi spero che ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr: Sentiamo le tue pro-
dezze.
Serv. Nel tempo che pio-
veva mi sono fermato in bot-
tega del sarto, ed ho visto con
questi miei occhi raccomodato
il suo soprabito con bavero e
fodere nuove; i pantaloni còlle
staffe erano finiti, e la sotto-
veste stava tagliandola.
Padr. Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo e il calzolajo, e di
questi non ne hai cercato?
Serv. S\ signore: il cap-
pelliijo ripuliva il suo cappello
vecchio, e non gli mancava
che orla re il nuovo. 11 calzolajo
poi aveva terminati gli stivali,
le scarpe grosse da caccia, e
gli scarpini da ballo.
Padr. Ma in casa di mio
e pò acqua dai sett asil e
sechti denter.
Patr Acqusè iem vu dar
a intender e/' n aveir fall
squas (jneint d'quel ch'ai aveva
urdnà: né veira?
Serv. Anzi a sper eh* li
sra cunféint, quand al savrà
al gir cK ai ho fati in zitta
in dù oÙ7\
Patr. Sintein el tou bra-
vur.
Serv. In quei temp eh* più-
veva am són ferma dal sart
i.i buttéiga, e ai ho visi cun
sti mi ucc accumdà al so so-
vrabit con baver e fodra nova:
al so abitiin turchein e i
pantalùn con i tir ani eren
fine, e al stava tajand al
panzrin.
Patr. Tant mej. Ma favev
pur a pucch' pass al captare
al calzular; e d' questi n at
zercà ?
Serv. Sì signore; al ca-
ptar arpuleva al sd cipelVvecc,
e an i mancava che d* urlar
al nov. Al calzular pò aveva
termina i stivai^ el scorp grossi
da cazza, e i searpin pr al
ball
' Padr. Ma in casa d'mi
L
192
padre quando sei aDdato» che
questo era l'essenziale?
Serv. Appena spiovuto, ma
non vi ho trovato né suo padre,
né sua madre, né suo zio, per-
ché jeri r altro andarono in
villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno sarà stata
in casa ?
Serv. No signore, perchè
avevano fatta una trottata, ed
avevano condotto il bambino
e le bambine.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa ?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor pa-
dre, la cameriera e due servi-
tori erano con sua cognata, e
il cocchiere avendo avuto l'or-
dine di attaccare i cavalli per
muoverli, se ne era andato col-
la carrozza.
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
SERv.Nonvihotrovatocheil
garzonedistalla,edaluihocon-
segnato tutte le lettere, perché
le portasse a chi doveva averle.
Padr. Meno male. E la
provvista per domani?
Serv. L' ho fatta : per
pader quandfit andà, cK l'era
V essenzial?
Se^y. Appénna fine d' pio-
ver : ma an i o truvà né so
pader ne so mader, ne so zio,
perchè jir V alter i andónn in
campagna,, e i stenn la noti.
Patr. Mi fradéll però, o
so mujer almanc srà sta in
cà?
Serv. Sgner nò, perchè i
aveven fati una trutta vers,
Casalàcc, e i avevan condòtt
al fandsein e al tousteini.
Patr. ili/a la servitù erla
tutta fora d' cà ?
Serv. Al cugh era andà
d' fora cun al sd sgner pader:
la camarira e du servitur
eren cun so eugnà: e al cucir,
avénd avù loérden d^ attaccar
per mover i cavali', s'n era
andà cun la carrozza vers
Zrédell.
Patr. Dónca la casa era
viida ?
Serv. An % ho truvà che
al station, e ai o cunsgnà el
letter perchè al li purtass a
chi gli aveva d' aveir.
Patr. Mane mal E la
pruvesta de dman?
Serv. A l'ho fatta: pei*
493
minestra ho preso della pa-
sta, e intanto ho comprato
del formaggio e del burro.
Per accrescere il lesso di vi-
tella, ho preso un pezzo di
castrato. 11 fritto lo farò di
cervello, di fegato e di car-
ciofi. Per umido ho compra-
to del majale, ed un anatra
da farsi col cavolo. E sicco-
me non ho trovato né tordi,
né starne, né beccacce, ri-
medierò con un tacchino da
cuocersi in forno.
Padr. e del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità", perché costava po-
chissimo.Hocompratosogliole,
triglie, razza, nasello e aliuste.
Padr. Così va benissimo.
Ma il parrucchiere non l'avrai
potuto vedere?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e cioccolata,
così ho parlato anche a lui.
Padr. E che nuove ti ha
date?
Srrv. Mi ha detto che
mnestra ai ho preis dia pasta,
e intani ai ho cumprà del
furmai e del butir, Pr accre-
scr al léss d' vidéla ai ho tolt
un pézz d* castra. Al fritt al
farò d' zervtUa, d' feghet et
d cardoffel. Pr' umid ai ho
cumprà dèi majal e un ana-
dra da fars cun i coli. E
siccòm an ho Iruvà né turd,
né Stalin né pizzacher, ai ri-
mediarò cun un tucchéin da
cusers in tal foùren.
Patr. e del péss ten na
cumprà ?
Sery. Anzi ai n ho tolt
dimandi, perché al custava
! pache ssm\ Ai o cumprà sfoi,
I tréglia, raza, merluzz e al-
liusti.
Patr. Acqusì la va be-
I nessm. Ma al perrucohir t' en
V ara mega pssù védr.
Serv. Anzi, siccom Vka la
buttéiga attacch a quella del
drughir, dov ai ho fatt pru-
vesta d' zùccher, pàver, stecc
d' garofel, canéla e ciùcolàta,
acqusì ai ho parla anch a lù.
Patr. E ch'nov t' al da?
! Serv. Alm*a dett ch'Inope-
L
«04
l'opera in musica ha fatto
furore, ma che il ballo è stato
fischiato ; che quel giovine
signore suo amico perde l' al-
tra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire colla diligenza.
Mi ha detto pure che la si-
gnora Lucietta ha congedato
il promesso sposo, e ha fatto
giuramento di non volerlo più.
Padr. Gelosie.... questa sì
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima ìcosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara lutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli migliori;
tra i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
manchino né scodelle, né vas-
soj. Accomoda la credenza con
ra ha fati funmr, ma eh al
ball è sia fistia: che quill
zóuven sgnoùr so amig perde
l'altra sira al zugh iùU et
scumésSy e eh' adéss V aspiava
d* parlir cun la diligéinza per
Traini. Al m'a detfarwh eh la
sgnerra Luzièlta ha lizenzià
al mroùs eh' f ave da tor, es
ha Irati zuraméint d' n al
vléir più védr.
Patr. Gelusx . . . oh quésta
SI eh em fa ridr: ma pinséin
a mi.
Serv. S' al s euntéinta a
rìfiagn un pocch d' pani a biìv
un bicchir d' vein, e a tourn
stlbit arzévr i su eùiand.
Patr. Siecom'ai ho prezza
e a dev andar fora d* easa,
aseóulta prtm^i cosa a f our-
den,epò t'magnarà e t'arpusrà,
quant et piasrà.
Serv. Ch al emanda pur.
Vki^.Praldsnarehavéin
da far . prepara tutt in Ila
salteina mioùra. Té là tvaja
e i tvajé più fin; tra % piai-
t' seegl qui] d' purzlana, e
procura eh en manca ne scu-
dell' né fiammèingh. Accòmda
la cherdéinza con fruta, ù,
I
195
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottìglie.
Serv. e quali posate naet-
terò in tavola?
Padr. Prendi i cucchiai
d'argento, le forchette e i
coltelli col manico d'avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini siano
quelli di cristallo arrotato. Ac
comoda poi intorno alla tavola
le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna.
Tu sai quanto è stucchevole
quella vecchia! Metti in ordi-
ne la camera buona, fa' riem-
pire il saccone e ribattere le
materasse. Accomoda il letto
con lenzuola e federe le più
fini, e cuoprilo col zanzariere.
Empi la brocca di acqua, e
sulla catinèlla distendi un
asciugamano ordinario ed uno
fine. Fa' tutto in regola, e la
mancia non mancherà.
Serv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
nus, mandel, cunftura e 6u-
telli.
Serv. CK pussà meiiroja
in iavla?
Patr. Té % cucciar d' ar-
zéint, el furzèin e t curii dal
mangh d'avori, e arcordt eh' el
bocCy i bicchir e % bicchirein
seppen quij d' cristal arrudà.
Tmettrà pò intoérnalla tavla
el scrann rriióuri.
Serv. Al sra serve pun-
tualméint.
Patr. Arcardet eh' sta sira
vein mi nona. T sa quant V è
nujoésa quìa véccia. Meli in
oùrdn la camera bona, fa
rimpir al pajazz e àrfar al
tamarazz. Accòmda al Hit
cun linzù e fodr el più feini,
e cruvel cun la zinzalira.
Impèss d acqua la brocca, e
dstènd soévra la cadinélla un
svgaman fein e un urdinari.
Fa tutt in réiguld, e an
t'mancarà la manza.
Serv. In verità al m' ha
oùrdnà d' gran cos : ma a li
farò tutti.
496
DIALETTI DELLA LIGURIA
CON ILLUSTRAZIONI ETNOLOGICHE.
A rendere completa la Raccolta dei principali dialetti
usati nelle Provincie dell' i4//a Italia, è necessario varcare
l'Appennino; per discendere nelle coste liguri e perlustrarle
dal Varo alla Vara. L' origine degli antichi Liguri restò ingom-
bra di oscurità, ma lutti gli storici consentono di riconoscerli
fra i più antichi abitatori d' Italia. Se ne mostrò convinto
lo stesso Guarnacci, con la consueta sua condizione però di
fargli derivare dagli Etruschi piuttosto che dagli Umbri, come
altri avrebbe opinato. Ma se furono gratuitamente interpe-
trate certe espressioni di T. Livio per sostenere la prima
opinione, renderebbesi necessario ad accettare la seconda
un qualche valido documento e non la sola semplice sup-
posizione ; tanto più che dall' eruditissimo Micali fu giusta-
mente avvertito, come le sorti primitive delle popolazioni
abitatrici dell' Italia meridionale ebbero un carattere così
diverso da quello degli eventi succeduti nelV Italia superiore,
che direbbesi spettare questi ad altre genti. Sembrò quindi
ad alcuno più naturale il supporre nei Liguri provenienza
celtica ; e poiché V immensa catena alpina presentò ostacoli
per trasmigrare in paese ricinto da gioghi inaccessibili, forse
avvenne che lungo le coste del Mediterraneo si avanzassero
al di qua del Varo : che se Scilace ne avverte che dalla
Iberia al Rodano la popolazione era un miscuglio di Iberi
e di Liguri, può supporsi che lungo niare si avanzassero al
di qua delle Alpi, tanto più che ebbero forse comune la
provenienza dalle coste di Libia.
Antichi Liguri. — I greci ed i latini storici distinsero
con duri ritratti quai rozzi e selvaggi i montanari della Li-
guria ; ma false ed ingiuriose furono al certo le accuse del
497
troppo severo Catone, del passionato Nigidio Figulo, e di
altri scrittori che ne adottarono le opinioni. Abitatori i Li-
guri di monti alpestri, e privi perciò di ricchezze, di
cooiodi e di agi contrassero abitudini di asprissima vita,
ambirono cioè di acquistar destrezza nella caccia e nelleser-
cizio della fionda, conservarono strane fogge nell' acconcia-
niento degli intonsi capelli, e mantennero la più grosso-
lana semplicità nelle vesti ; rozze costumanze che gli fecero
comparire al fastoso Romano rustici ed incolti. Le stesse
loro donne indurate nella fatica esercitarono i più penosi
mestieri, dissodando i terreni, tagliando pietre, trasportando
sulla testa pesantissimi fardelli ; sicché gli' ammolliti Greci
ebbero a dire meravigliati, che le femmine della Liguria pos-
sedevano forza maschile ed i Liguri la vigoria delle belve !
Essi infetti dispiegarono più ferocia che coraggio contro quei
nemici, i quali ardirono attaccarli nei loro alpestri abituri;
sempre audaci e precipitosi nelle pugne si scagliarono con
impeto terribile contro gli assalitori, e se talvolta la sorte
fu loro contraria, trovarono nelle disfatte facile asilo nei
nascondigli delle loro montagne, d' onde poi ricomparvero
più formidabili, cogliendo astutamente all' aguato chi aveva
osato di tener dietro alle loro orme. Ecco perchè gli orgo-
gliosi Romani, già vincitori della Grecia della Macedonia e
dell'Asia minore, indispettiti di dover pugnare infruttuosa-
mente per moltissimi anni contro una popolazione povera
e selvaggia, vollero disfogare il loro superbo sdegno contro
di essa, ingiuriandola con accuse di ladroneggi, di menzogne
e di frodi, nelle quali bruttezze la dicevano educata e nu-
trita. Ma r ingiuriosa sentenza di passionati scrittori fu con-
tradetta da storici assai meno ingiusti, che celebrarono
unanimi V alto valore, T invitta fermezza, il mirabile eroismo
dei Liguri : i quali ebbero anche una certa cultura, com-
provandolo la loro vetustissima costumanza di rispettare il
198
diritto faciale e la santità del sacerdozio, al pari delle più inci-
vilite tra le antiche nazioni d'Italia. Vero è che essi poi dove-
rono ammansare la nativa fierezza, divenula inutile di fronte
alle immense forze dei conquistatori romani : se nonché
riuniti in seguito alla gran famiglia italica coi vincoli di
una sorte comune, poterono per compenso partecipare alla
civiltà del formidabile nemico che gli aveva soggiogati.
Moderni abitanti della costa Ligure. — Nella oppres-
siva dominazione dei barbari restarono al tutto segregati i
popoli circompadani dagli abitatori delVAppennino; i quali ri-
parando nei loro montuosi abituri, poterono sottrarsi alla
rapacità degli invasori, abbastanza contenti del feracissimo
suolo irrigato dal Po, per non intrigarsi in aspre e difficili
pugne entro le gole di monti inaccessibili. Confinato in tal
guisa il vero tipo della razza Ligure tra quegli aspui gioghi
ed il mare, supplì industriosamente alla scarsezza dei pro-
dotti agrarii colla navigazione e col .commercio marittimo,
e venne in tal guisa a contrarre quelle abitudini sociali che
così bene lo distinguono tuttora da ogni altro popolo della
penisola. Da Lerici a Mentono la schiatta Ligure conserva
originalità nazionali : quegli abitatori di monti e poggi vicini
al mare tollerano con mirabile sotferenza le più dure fatiche
e sono instancabili nel lavoro : né questa loro alacrità nel
trar partito dall' esercizio dei più laboriosi mestieri, è fomen-
tata da sete di lucro che gli conduca a voler sodisfare vi-
ziose abitudini; ma è invece una lodevole previdenza di biso-
gni e di ipfortunj domestici straordinarj, che gli rendono
solleciti di cumulare un peculio sul perfetto guadagno, con
l'accomodarsi di buon grado alle privazioni della più parca
sobrietà. È questa una conseguenza dell' essere il popolo li-
gure propenso a rispettare le leggi, osservante dei precetti
di morale pubblica, e caldo oltremodo di onore nazionale
e di amore alla patria. Egli conserva bensì la sua primitiva
199
ed originaria fierezza, ma non ne fa mostra che contro chi
tentasse di nuocergli e specialrnente nell'interesse; a difesa
del quale ei veglia gelosissimo. Pronto d' ingegno nelle ope-
razioni d' industria, animoso e costante nelle intraprese, ove
gli offrano considerabili vantaggi, mostrasi allora incurante
di qualunque ostacolo ; ma non è meno sagace nello ab-
bandonare il suo proposito, tostochè conosca di poter ri-
trarne dei danni. Poco dissimile è il carattere degli abitatori
del basso littorale e dei porti marittimi : anzi in questi è
somma V attitudine alla navigazione ed al commercio, nel-
r esercizio del quale si mostrano appassionatissimi, dimo-
doché il negoziante" che pervenne ad estrema vecchiezza
non curasi già di consumare in lieto riposo i cumulati gua-
dagni, ma continua fin che può a dirigere i suoi traffici,
confortando intanto con provvidi consigli il meno esperto
erede, che dovrà poi succedergli.
Sono questi i caratteri veramente nazionali che distin-
guono gli abitanti del Genovesato, i quali non sono al certo
imputabili di gravi accuse, date forse giustamente ad una
parte della popolazione che tien domicilio entro la capitale.
Della quale avvertenza, mostrandosi non curanti quegli autori
stranieri che scrissero di cose italiche, disvelarono l'obliqua
noira di volere ad ogni modo ripetere le antiche ingiurie,
confondendo la verità con manifesti errori. Accadde infatti
in Genova, come nei porti marittimi molto frequentati tutto
giorno interviene, che ivi si trapiantarono varie famiglie di
estranea origine, ma provenienti particolarmente dalle di-
verse nazioni abitatrici delle lunghe coste bagnate dal Me-
diterraneo ; sicché venne a riunirsi una popolazione collet-
tizia di genti diverse, attirate dalla frequenza dei traffici, e
talvòlta dal bisogno di cercare un asilo, onde sottrarsi ai
rigori della giustizia che gli avrebbe altrove severamente
percossi. In questa guisa fino dai più remoti tempi si formò
200
nella popolazione di Genova una classe straniera di abitanti,
che per identità di cause si mantiene sempre numerosa, ed
a cui appartennero forse quei facinorosi demagoghi, e quei
negozianti di dubbia fede, i quali attirarono ingiuriosi rim-
proveri su tutta la nazione. Che se la maggior musa italiana
volle anch'essa far ecOvalle antiche contumelie, è cosa ma-
nifesta che essa intese di percuotere colle sue esecrazioni
quella razza appunto eterogenea e degenerata, che cercò
asilo nella capitale : senza di ciò è ormai troppo noto che
l'Alighieri, come cittadino di parte, non risparmiò nel suo
sdegno poetico né connazionali, né patria, e tanto meno è
da maravigliare se si mostrò sdegnalo contro Genova, ove
si sa che per briga dei d' Oria ebbe scortese e mala acco-
glienza. Le ingiurie insomnia così degli antichi come dei
moderni scrittori nulla, provano contro gli abitanti della Li-
guria, o non sono applicabili alla intiera nazione : mentre
all' opposto é notissimo che senza contrasto essa è la più
industriosa di ogni altra d' Italia, ed altresì la più esperta
nella navigazione, nei diversi traffici e nel commercio.
DIALETTI DELLA LIGURIA.
L Dialetto di Nizza. — Presso l' estremo confine del-
l' alta Italia occidentale, nella distanza di soli 7400 metri
dalla foce del Varo, sorge una elevata rupe, le di cui falde
meridionali son flagellate con alto fragore dai flutti del
Mediterraneo. Sulla sua cima edificavano un ben munito
castello quei Focesi emigrati dalla Jonia, che verso la
XLIV Olimpiade approdati alle spiagge dei Galli Salii ot-
tennero di fondare Massilia ora Marsilia: ma per .distendere
il loro dominio fino oltre il Varo, essi avevano dovuto per
avventura azzuffarsi con la feroce tribù Ligure dei Vedianzii,
e per eterno ricordo di averli debellati, chiamarono la
j
201
novella città Nike o Nicaea, cori greca voce che suona
vittoria. Le ottime leggi, il valore nelle armi, e la flori-
dezza nel commercio, mantennero per più secoli indipen-
dente la Repubblica dei Marsiliesi. Nella tirannica disputa
di Cesare e Pompeo per V Impero universale essi restarono
allucinati dallo zelo di libertà, che il secondo ostentava
con somma scaltrezza, ed accogliendo nei loro porti le navi
di Domizio, offersero occasione a Cesare di compiere la
conquista delle Gallie con la invasione del loro territorio fino
allora rispettato. Per tale avvenimento passò anche Nizza sotto
il giogo di Roma, e restò aggregala alla vicina Cimella, dichia-
rata per romano decreto metropoli delle Alpi Marittime. Ma il
maggior lustro di questa le attirò poi contro tutto il furore dei
Borgognoni, dei Longobardi e dei Saraceni, tanto che i suoi
edifizi restarono consunti dal fuoco ; mentre Nizza danneggiata
col sacco, ma non distrutta, risorgeva a maggiore grandezza,
dando ricetto alla popolazione fuggitiva da Cimella, ed acqui-
stava lo specioso nome di Bellanda o Bel paese, conserva-
tole fino ai tempi di Carlo Magno.
. Dopo la caduta del Romano impero seguì Nizza la
sort^ della Provenza, di cui allora faceva parte : i Goti, i
Borgognoni, i Visigoti, i Re e Conti di Arles, la Casa di
Angiò, i Re di Napoli successivamente la signoreggiarono.
Avvertasi però che nel cominciare del secolo XII anche i
Nizzardi imitar vollero l'esempio dei popoli Italiani che si
reggevano a Comune, eleggendo una Magistratura Conso-
lare con libero partito, ed il Conte Raimondo II, accorso a
punirli, cadde estinto sotto le mura dell' assalita città. Suc-
ceduti nella Signoria di Provenza i Principi Arragonesi
ricondussero Nizza alla loro divozione, conservandole bensì
il consolato e concedendo franchigie ai cittadini ed al Co-
mune. Beatrice figlia di Raimondo lY portò poi i suoi Stati
in retaggio agli Angioini, ma nelle sanguinose contese insorte
202
fra questi e i pretendenti alla successione nel Regno di
Napoli, Ladislao, anziché veder Nizza in polere dell'abor-
rito emulo Lodovico II d' Angiò, dar volle un esempio di
rara, sebbene coatta generosità, concedendo ai Nizzardi di
eleggersi as sovrano quel principe che esser potesse di loro
maggior gradimento. La scelta cadde sopra Amedeo VII di
Savoja, detto il Cmie Rosso; e per verità fu saggiamente
reso un tal tributo dai Nizzardi alle virtù di quel prode,
tosto che mancava ad essi la forza necessaria per procla-
mare la propria indipendenza e sostenerla a mano armata.
Certo è però che i Sovrani Sabaudi seppero poi altamente
apprezzare quel generoso partito di una dedizione spontanea,
prodigando beneficenze ai nuovi sudditi, e riguardandoli con
occhio di speciale benevolenza. Questi cenni storici si resero
necessarj dopo il modernissimo avvenimento dell' incorpo-
razione nell'impero di Francia di Nizza col suo territorio.
Così volle l'arbitrio della diplomazia, ma non potrebbesi
accertare che quella popolazione abbia accettato di buon animo
la rinunzia alla fratellanza italiana.
Abbastanza di Nizza e dei Nizzardi : parlisi ora del loro
Dialetto, tanto più che la prossimità della Provenza rende
importantissimo questo argomento. Secondo alcuni potrebbe
supporsi che l'antico idioma dei Liguri fosse greco-celtico,
ma non è mio scopo di tener dietro a congetture, comun-
que ingegnose, di filologi, ai quali manchi poi il soccorso
dei documenti : citerò quindi unicamente come probabile
l'opinione del Presidente De^Brosses, il quale scrisse che i
conquistatori romani poterono sottomettere anche la favella
dei vinti, sebbene nella collisione dei diversi idiomi con
quello del Lazio, questo si difformò e decadde in bocca del
volgo, mentre gli altri si dirozzarono, si arricchirono e cam-
biarono di indole. Da ciò dunque avrebbe presa origine una
terza favella, da principio informe e capricciosa, e propria
203
del solo popolo, ma forse adoperata poi anche per le pro-
duzioni dèlio ingegno dalla classe più ardimentosa degli
scrittori, ossia dei poeti ; i quali certamente nell' estremo
confine appunto dell' Italia marittima occidentale introdussero
sul terminare del secolo XI una lingua al tutto nuova, detta
provenzale e romanza. Furono questi i festevoli Trovatoìi della
gaja scienza, i primi canti dei quali risalgono, giusta la opinione
di colti filologi, fino a queir epoca in cui gli Spagnuoli soccorri
da' Provenzali, dopo avere soggiogati gli Arabi in Toledo si in-
gentilirono alle scuole dei vinti, e presero amore alla poesia,
accompagnata dal canto e dal suono. Ora se potesse provarsi,
come alcuno opinò, che le barbare orde del settentrione
contribuissero notabilmente al corrompimento del linguaggio
popolare latino, tanto più sarebbe presumibile che essendo
quésto nella Francia meridionale già frammisto a greche voci
arrecate dagli antichi Focesi, potè alterarsi anche di più
per il commercio con gli Arabi o Saraceni, venendo così a
trasformasi in quel romanesco o provenzale, che nei tempi
della più cupa ignoranza formò le delizie delle piccole corti
feudali. Ma le opinioni dei filologi sono in tale argomento
talmente discordi, che mentre alcuni pensano con Leonardo
Aretino e col Bembo che la lingua italiana moderna sia
antica al pari della latina, ricercano altri nelle poesie degli
scandinavi la vera origine di quel parlare romanico, in cui
si cambiò il latino militare delle provincie! Accadde frat-
tanto che la gentilezza cavalleresca dei Trovatori restò presto
deturpata dalla invereconda licenza dei Giullari : Y idioma
gentile sonante e puro già formatosi da gran tempo comparve
nobilmente abbellito con più fausti e lieti auspicj nel XIV
secolo, e fece ecclissare al tutto la fama già oscurata dei
provenzali poeti ; sicché due soli secoli videro nascere e
morire la loro lingua. Della quale sarebbesi per avventura
perduta ogni traccia, se nella parte più montuosa delle Alpi
204
marittime, che forma il contado Nizzardo, non si fosse assai
ben conservata ; stante che nel vernacolo ivi tuttora ado-
peralo si ravvisa un fraseggiare molto conforme air idioma
dei Trovatori, come può facilmente dimostrarsi ponendolo a
confronto di ciò che restaci delle loro poesie. Entro Nizza
però il dialetto del popolo ha perduto quasi tutte le antiche
desinenze in as, os, m, e le finali degli infiniti ar, er, ir che
gli provenivano dal latino ; mentre nella pronunzia ed or-
tografia si è ravvicinato ai suoni ed alfe frasi italiche, per-
ché da circa quattro secoli gli studj, le predicazioni, e gli
atti pubblici vi si fanno in italiano. Contuttociò è da notarsi,
che il predetto vernacolo nizzardo ha conservato alcune voci
e frasi di provenienza manifestamente gr^ca e latina, mentre
air incontro può dedursi dal Glossario del Ducange, che non
poche voci furono date dai Nizzardi al latino barbaro del
medio evo. È altresì da avvertire che se molte frasi pro-
venzali passarono ai Catalani ed ai Francesi nel tempo dei
Conti di Catalogna e dei Re d'Arragona, da un altro lato
è innegabile che per le consecutive invasioni dei Francesi
e degli Spagnuoli, come per l' uso della lingua italiana, ven-
nero ad introdursi nel vernacolo del contado molte parole
francesi, spagnuole e italiane, che furono ignote agli antichi
Provenzali. Questo dialetto insomma meritò giustamente lo
studio di dotti filologi : per parte mia mi riserbo di invitare
il lettore a porre a confronto Y antico col moderno nizzardo
con le speciali osservazioni poste in fine al consueto Dialogo.
205
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
F.D UN SUO SERVITORE.
Padrone. Ebbene, Bali-
sta, hai tu eseguite tutte le
commissioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino ;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città, ma
poi è piovuto tanto !
Padr. Che al solito sei
stato a fare il poltrone in
un'osteria, per aspettare che
spiovesse ! E perchè non hai
preso r ombrello?
Serv. Per non porlarquel-
r impiccio; e poi jeri sera
quando andai a letto non pio-
veva ^iù, se pioveva, pio-
veva pochissimo : stamani
quando mi sono alzato era lut-
to sereno, e solamente a leva-.
ta di sole si è rannuvolato.
Più tardi si è alzato un gran
vento, ma invece di spazzare |
* Si consultino le Avveilenzi) ove séno
TRADUZIONE
NEL DIALETTO
NIZZARDO.^
Mestre. Ebbm, Battislo,
aS'tu eseghit toutoi lei comis-
sion che f hai donai?
Servitou'M)wssw, yeupoudi
v' assurà d' estre stat pontual
lo plus cK hai poscùt Stoù
mattin a siei oro e un cari
eri già en marcio; a set oro
e mie'go mi trovavi a miec
camiUy e a vuec oro e très cari
intravi en villo; ma ensuito
ha tan ploùgut !
Mes. Che all' ordinari sies
stat a [aire lo fenéant en un
oste, per sperà che ramais-
sesso ! E perchè non ti siès
pigliai lou paraplueio ?
Ser Per non mi porta
achei embarras. />' ailiur jei^
au sero choro m' aneli courcà
non ploùvio plus, o se ploùvio,
bruniavoappeno;stomatinchoro
mi sieu levai ero toul seren,
e solamen lo temp s es recu-
beri au leva doù soulèu. Più
tardi s es levai un grò veni,
ma en plasso de dissipa lei
Indicate le prii\cipaii regole di pronunzia*
L
1
?06
le nuvole, ha portato una gran-
dine che ha durato mezz'ora,
e poi acqua a ciel rotto.
Padr. Così vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto qua-
si niente di ciò che ti avevo
ordinato; non è vero?
Serv. Anzi spero che Ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
Serv. Nel tempo che pio-
veva mi sono fermato in bot-
tega del sarto, ed ho visto
con questi miei occhi racco-
modato il suo soprabito con
bavero e fodere nuove ; i pan-
taloni colle staffe erano finiti, e
I9 sottoveste stava tagliandola.
Padr, Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo. e il calzolajo, e
di questi non ne hai cercato?
Serv. Sì signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio, e non gli mancava
che orlare il nuovo. Il cal-
zolajo poi aveva terminati gli
stivali, le scarpe grosse da
caccia, e gli scarpini da ballo.
Padr Ma in casa di mio
nio, ha poiiat uno gragnolado
ch'ha durai mieg' oro, e pi
d'aigho a verso.
Mes. Ensin vuòs mi (aire
entendre de non ave fac casi
ren de sen che t' avit ordenaly
es ver?
Ser. Ansi speri, Moussù,
che serès content, choro san-
près lu tour eh' hai fap per la
villo, en t espassi de doui ofv.
Mes. Sentèn li tieu va-
lantèo.
•Ser. Pandanchepkmvhmi
sieu arrestai a la botìgho dm
Sartre, e hai visi emV ei mieu
propre uès comodai lo vuosire
alni embè colici e dobluro novo.
La vuoslro vesto novo, e lu pan-
ia ^òn embe ti staffov eron finii,
e iagliavon lo gilecco.
Mes. Tanmigliòu.Maavìes
aussi a catre pas lo cappelliè
e lo sabatiè; e non as sercat
de lu vére?
Ser. Vom Moussù: Ib cap-
pelliè repassavo lo vuosire cap-
peù vieill, e non avio plus
che lo noti a borda. Ma lo
cordoniè avio già finii lei bot-
to, lu grò soliè de casso, e lu
scarpin per lo bai
Mes. Ma a la maton de
207
padre quando sei andato» che
questo era 1' essenziale ?
Serv. Appena spiovuto,
ma non vi ho trovato né suo
padre, né sua madre, né suo
zio, perchéjeri l'altro andarono
in villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno sarà stata
in casa?
Serv. No Signore, perchè
avevano fatta una trottata, ed
avevano condotto il bambino
e le bambine.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa ?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor
padre, la cameriera'e due ser-
vitori erano con sua cognata,
e il cocchiere avendo avuto
r ordine di attaccare i cavalli
per muoverli, se né era anda-
to colla carrozza fuori di città.
Pàdr. Dunque la casa era
vuota ?
Serv. Non vi ho trovalo
che il garzone di stalla, ed
a lui ho consegnate tutte le
lettere, perchè le portasse a
chi doveva averle.
moìipère en che oro li siesanat;
che aissò era lessensial?
Ser. Subito cessado la più-
eio; ma non li hai trovai ni
vxmslre pere, ni vuostro mère,
ni vuoslroncle, perchè davantiè
se n anèron en campagno, e li
han cocià li doni nuec.
Mes. Mon frère per autre,
aumanco sa moglie sera stado
en maìon.
Se r . Nimanco, Mousse, per-
chè avìon fag uno trottado a Sa-
vona, e s eron menat tu doui
piccioi, lo garson e la figlitto.
Mes. Donco touìoi leigen de
servissi eron fuòro de mesòn?
Ser Lo coiniè era en cam-
pagno embè vuosiìx pére: la
figlio-de-ciambro e lu doui do-
mestico èron embè vuostro bel-
lo-sorre, e lo code en avèn
ressut l' ordre d' attellà lu ca-
vau per partì, s en ero anat
embè la carrosso dòu costà
de Ciavari.
Mes. Per ensin la mesòn
era vueio?
Ser. Non li hai trovai che
lo garson de l' eslable, e es
en eu che hai consegnai touioi
lei lettro affin che lei portesso
a chu eron adressadoi.
208
Padr. Meno male. E la
provvista per domani ?
Serv. L'ho fatta : per mi-
nestra ho preso della pasta, e
intanto ho cotnprato del for-
maggio e del burro. Per ac-
crescere il lessò di vitella,
ho preso un pezzo di castra-
to. Il fritto lo farò di cer-
vello, di fegato e di carciofi.
Per umido ho comprato del
majale, ed un* anatra da farsi
col cavolo. E siccome non
ho trovato né tordi, né starne,
né beccacce, rimedierò con un
lacchino da cuocersi in forno.
Padr. E del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perché costava po-
chissimo. Ho comprato so-
gliole e. triglie, razza, nasello
e aliuste.
Padr. Così va benissimo.
Ma il parrucchiere non avrai
potuto vederlo?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e pioccolata,
così ho parlato anche a lui.
Padr E chenuoveti badate?
Mbs. Manco de màu. E li
pwiston per deman ?
Ser. Li hai facckoi. Per
sopo hai piglia de pasto, e
entan hai crompat de (fornai
e de burre. Per creisse lo
bwjlit de vedèUy hai pigliat
un ir OS de motori. La frittura
la farai de cervello, de fege,
e d' armotio; per pitanso hai
crompat de puorc, e un ca-
nari comodai au caulès. E
siccomo non hai trovai ni tor-
do, ni perdts, ni becasm li
rimedierai emb* un dindonèu
cueg au four,
Mes. e de pei non n as
crompat ?
Ser. Ansi, n ai pigliai tou-
plen, perchè non costàvongaire.
Hai crompat de sollo, de stri-
glio, de rajo,^ de merlan, e de
lingosio.
Mes Va fuor ben. Ma lo
perrucchiè non V auras poscu
veire ?
Ser Ansi,siccom>ohalasieu
bottigo a costà d'achello dòu dro-
ghisto, don hai fac provision de
sucre, de pebre, de claveu-de-
ghalofre, de canello e de dccola-
to,ensin hai parlai aussi en eu.
Mes. e che novoifha donai?
209
Serv. Mi ha detto che
r Opera in musica ha fatto
furore , ma che il ballo è
stato fischiato; che quel gio-
vine signore suo amico perde
r altra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire colla diligenza.
Mi ha detto pure che la si-
gnora Lucietta ha congedato
il promesso sposo, e ha fatto
giuramento di non volerlo più.
Padr. Gelosie.... questa sì
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo, un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,*
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara tutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli miglio-
ri; tra i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
manchino né scodelle, né vas-
Ser. M'a die che V opero
en musico ha fa( furor, ma
che lo ballet es estat sublat ;
che acheu giove m^oussù t?tw-
sfre amie ha perdut V autre
sera au guec toutvi li pariùroi,
e che aspero la partenso d* un
bastimen per s en anà. M'a
dig tamben che Madomei sello
Lussio ha donai congiè a
r espous che avio promès, e ha
guraé che non lo vòu plus.
Mes. Gilosioi . . . achesto
Sì che mi fa rire; ma auro
pensèn a nautre.
Ser. Moussù, se sias con-
tent, vau mangia un pou de
pan, e beure un ghoio de vin,
e pi retorni suUtto a recevre lu
vuosire ordre.
Mes. Siccomo sieu pressai,
e devi sortì, fai premieramen
atienston a sen che ti vau co-
manda, e pi mangeras e ti
pauheras tan che ti farà pleà.
Ser. Comandàs puro.
Mes. Per lo dina che devm
faire, preparo la taulo dins uno
bello salo ; piglia la tovaglio e
lei servietto lei più belici ; per
plat e sìetto ciausisse acheUoi
de porsellanOf e fai en ma-
niero che non li manche ni scu-
14
210
soj. Accomoda la credenza con
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Skbv. e quali posate met-
terò in tavola ?
Padr. Prendi i cucchiai
d' argento, le forchette e i
coltelli col manico d' avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini sia-
no quelli di cristallo arrotato.
Accomoda poi intorno alla ta-
vola le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna. Tu
sai quanto è stucchevole quella
vecchia! Metti in ordine la ca-
mera buona, fa'riempire il sac-
cone e ribattere le materasse.
Accomoda il letto con lenzuola
efedere le più fini, e cuoprilo col
zanzariere. Empi la brocca di
acqua, e sulla catinella disten-
di un asciugamano ordinario
ed uno fine. Fa'tutto in rego-
la, e la mancia non mancherà.
Serv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
dello, ni piai a fruQO. Preparo lo
embè desser de fruQo, de ratn,
de mtòe, damendo, de sucrerio,
de confilluro, è de botfeglio.
Ser. e che argentei'xo mei'
irai en iaulo?
ììes. Piglieras lei posadoi
d' argen che han lei forcettoi
e lu coteu embi lo mance d'avori:
e rapelleti che lei caroff'ai, lu
gotto, e Inveire a licor sigon
achulus de cristal sisellat. Ar-
rango ensuito au tour de la
tauh totoi lei chadieroi laugie-
rii de Cavari,
Ser . Serès servii esattameli .
Mes . Aighes da saupre che
stosero ven aissi ma bello-mere.
Sabes can es diffìcilo a contenta
achello viello. Mette ben en or-
dre la salto a manga; fai ramplì
la pagliasso, e batire lu mata-
las; e pi fai lo lieg^e metteli lu
lansòu,e lei cubertoi lei più
fimi, e plnsseli la zinzaliero.
Ramplisse lo potalo d aigho, e
su la cuvetio plcceli un pana-
mam e uno servieito. Fai tot en
regio, e pi ti donerai /* estreno.
Ser. En verità m*avès co-
mandai toplen de cauvo, ma
farai tot.
2M
OSSERVAZIONI ED AVVERTENZE
SUL DIALETTO NIZZARDO.
Osservazione I. — Il signor Rancher di Nizza pubblicò nel 4823
un elegante poemetto intitolato La Nemaida. V ortograGa da esso
usata diversifica notabilmente da quella, che prescelse il coltissimo
traduttore del mio Dialogo. Ciò nacque da divergenza di opinioni fra
i più valenti letterati di Nizza: ecco i motivi della questione.
L* a si pronunzia come in italiano nei monosillabi, in mezzo delle
parole ed in fine di esse ancora, ma solamente quando ba un ac-
cento; per esempio, là, ma, mangia: ma se Y a finale manca dell* accento
debbefsi pronunziarla strettamente, col suono cioè deiro: quindi alcuni
scrivono Nisso, muso^ lonyOy raro, terrò, plumo ; altri poi dicono
Nissa, musa, longa, rara, terra, piuma.
Intendono questi ultimi di volere usar riguardo alla derivazione
di simili parole dal latino oppure dall' italiano; trovano perciò poco
ragionevole di scrivere terrò, plumo ec. mentre tutti i loro derivati
hanno l' a in fine, e conchiudono che quest' uso, modernamente in-
trodotto nei vernacoli usati in Provenza, non "è che una corruzione
del vero provenzale, usato dai Trovatori fino al secolo XIV. Ma poiché
parlammo del suono dell' a, giovi lo aggiungere le seguenti sommarie
regole di pronunzia nizzarda:
L* a in mezzo delle parole, ed in fine di esse ancora purché
accentata, si pronunzia come i^ italiano; mancando T accento prende
il suono della o;
L' e si pronunzia come neir italiano ; ma sempre molto aperta in
fiine delle parole, ogni qualvolta abbia V accento;
La i non richiede osservazioni;
La si pronunzia talvolta stretta, tal* altra apèrta, come in
italiano voto e vuoto; se in fine delle parole manca d'accento, e
se dopo di se ha un m, oppure una n, si pronunzia strettissima, sal>
vochè però non sia preceduta da un ou o u italiano, come fuont,
puorU, suon ec.
La u, come in francese e in provenzale, cioè molto stretta.
Au dittongo si pronunzia come in latino e in italiano; ma se
212
la ò ha il segno di accento grave, le due vocali si proDunziaao se-
parate.
Ai ha li suono delle voci italiane mai, dai, ec. ; se la i ha il
trema deve pronunziarsi separata come at (si).
Eu che i Provenzali scrivono eou si considera come composta
di un e e di un ti italiane.
Od equivale all'ou francese e u. italiana; ma se sulla ù vien
posto un accento, allora si considera come una o ed una ti italiane,
separate, come boù (bove).
La e si pronunzia air italiana, ma infine delle parole non prende
il suono del k, ma del eh francese : ed il eh nizzardo ha preso quello
del fc, così in mezzo come in fine delle parole.
Gì preceduta o seguita da un t equivale alla / mouillée dei
Francesi ; così iravagl suona come travail.
Impegnatomi in queste rapide osservazioni sulla preferenza di uno
dei primarj dialetti italici, pensai di aggiungerne poche altre sul ver-
nacolo genovese, tanto più che si trovano in esso scritte, come ac-
cennai, spiritose e belle poesie. v^
d si pronunzi trascinata, come aa;
ae equivale ad una e' larghissima e trascinata ,■
ee ha il suono di e molto larga, ma tronca e corta ;
e ha suono stretto, ma se trovasi avanti iid una r succeduta da
altre consonanti, allora si pronunzi mollo larga e trascinala;
é, è stretta ma prolungata, corale ee ;
eif si faccia sentire più la e che la i;
eù come in francese /eu, heureux;
i trascinata come ti;
ha un suono ora stretto, ora largo, ma nel primo caso si pro-
nunzia come la u dei Toscani ;
pronome, equivale all'u toscana;
ó, stretta come ti toscana ma trascinata, come uu ;
ò', larga e trascinata ;
ò larga ma corta e tronca;
oi dittongo in cui si fa sentire molto la t, poco la o;
ou si pronunzia come in toscano preti, grou;
^ 243
u sempre stretta con suono francese ;
Le coDSonaDjti raddoppiale si pronunziano in generale come se fos-
sero una sola e semplice ;
nn si pronunzia in modo che alla vocale precedente la prima n
resti attaccato anche il suono di essa : per esempio caden-na si prò-,
nunzia caden colla n finale francese, e na come in toscano ;
r negli articoli ra, re, rt, ro^ ed in mezzo alle parol(^ quando
non è accompagnata da altra consonante, si pronunzia così dolcemente
da sentirsi appena ;
rr si pronunzia come r semplice, ma si strascica molto il suono
della vocale precedente, ierra come leera ;
s come s aspra toscana, ma avanti le consonanti ed alla i prende
sempre il fischio di 5c, come signora scignora^ salvo bensì alcune ec-
cezioni ; .
scc si pronunzia col fischio di 5c, cui sia aggiunto il suono chiaro
di altro e, come sedavo sc-ciavo ;
X equivale alla j francese, dexe come dpge;
z ha suono dolce come la s dolce dei Francesi;
g come in francese fagon. .
Osservazione II. — Chi bramasse porre a confronto la poesia
provenzale dei Trovatori colle rime degli antichi e dei moderni Niz-
zardi, esamini i. seguenti saggi poetici.
Il primo è tolto da un Albata o Inno del mattino, di <jiraldo
di Bornello, il quale fìnge che imi Trovatore penetrato di notte entro
il castello della sua Dama, e temendo di non esser colto air improvviso
dal geloso rivale, abbia posto al di fuori una guardia, la quale vedendo
avvicinarsi Talba, si fa sotto alla rocca, e così prende a cantare:
Bel companhOs, si dormetz o velhatz
Non dormetz plus, qu' el jorn es approchatz,
Qu' en Oi'ien vey T estella cregiida,
Qa'adutz Io Jorn qu'ien l*ai ben conoguda,
E ades sera l'Alba !
Bel companhos, en chantan vos apel,
Non dormetz plus, qu' leu aug chantar l'auze],
Que vai queren lo jorn per lo boscatge.
Et ai paor ch'el gilos vos assatge;
E ades vien 1* Alba !
1
214
Bel conipanbos, issetz al fenestrel,
Et esgardatz las ensenhas del cel,
Connoisseretz si us sui figei messatge ;
Si non o fuitz, voster er lo dampnatgu ;
£ ades serj' r Alba !
Il saggio seguente è un brano di poesia erotica nizzarda di Gu-
glielmo Boyer, celebre poeta, matematico e giureconsulto, che fu creato
da Carlo li di Provenza è da Roberto suo figlio Giudice di Nizza, e
che mancò di vita nel 1355:
Drecb e rason es ch'jeu canti d'amor
Vezenl ch'jeu ai jd consumat mou age
A li complaire et servir nuech jor
Sens'aver d'el proOech ni avaittage 1
Encar el si Tas cregner
Doulent et non sai fegner.
Mi pougne la courada
De sa fleccia dorada :
Kmbe son are qu' a gran pena el pos tendre
Per se qu' el es un enfant jouve et tendre.
Dalla Nemaida, elegante poemetto del signor Giuseppe Bancher
di Nizza, pubblicato nel 1823, presi il terzo saggio poetico, ond(3
meglio far conoscere F antichità e T origine del dialetto modernamente
usato dagli abitanti di quella città e del contado. Dopo V invocazione
delle muse, descrive quel leggiadro poeta il bel cielo di Nizza, e i
primi amori di Lubino e Gurina.
Souta d'acheu beo siel, che fouora caduu vanta,
£ don l'ivér souven sembla un printen cb*encanta,
A Nissa, luec divi.n, giardln tougiou flourit,
Dopi calegnaire urous, l'un de l'autre cerit,
Lubin dau tendre couor, Courina la timida,
Passavon plen d' amour lu momen de la vida.
Rem con era plus beù, che de lu veire ensem,
A l'amour toni lu giou si brulava d'Insen,
£ semblava, acheù dieù, ch'es monarca a Sitera
D'un avenl ben dous li durbl la carriera.
Non son pa plus coustant, plus tendre, plus uruub
Che Courina e Lubin, doui pigion amourous !
f
215
ABITANTI E DIALETTO DEL PRINCIPATO DI MONACO*
Il littorale maritlimo posto a levante del Varo, nel risalire
che fa verso la parte di tramontana, per quindi piegarsi nel
pittoresco e bellissimo semicerchio delle due riviere liguri,
presenta una interruzione di confini tra le due provincie di
Nizza e di S. Remo, pel tratto -di miglia italiane IO, o chi-
lometri 18 e §. A questo delizioso tratto territoriale limitasi
appunto la maggiore estensione del Principato di Monaco, e
.di tutta la sua parte meridionale, la quale è ridente
di coltivazioni, ed insieme la più abitata, trovandosi la sua
popolazione quasi tutta raccolta in riva al mare.
L'aver rappresentato un monaco appoggiato all'arme
gentilizia dei Grimaldi, e poi avere effigiato quello stemma
in mezzo a due monaci in atto di vegliarne alla difesa a
mano armata, fu ridevole velleità religiosa, immaginata per
attribuire alla città di Monaco origine teocratica ! Mi si con-
ceda di deviare in traccia di notizie filologiche, tanto più
che esse si riferiscono air italiano incivilimento.
Fino alla metà del secolo XIV, epoca in cui dicesi che
i Grimaldi acquistassero in compra Mentono dai Veut, Roc-
cabruna dai Lascaris, ed tn altra frazione territoriale dagli
Spinola, non venne a formarsi questo piccolo Stato che limi-
tavasi anteriormente ai confini angustissimi della rupe su cui
siede Monaco. Se non che a quel nome trovasi unito nelle
antiche storie quello di Ercole, e ciò ne riconduce ai tempi
favolosi, nei quali tutto è falsità per chi non attende che al solo
senso letterale della siro-egizia e della greca teogonia, men-
tre una sana critica può dtscuoprire notizie utilissime sotto
il velame di quelle favolose stranezze.
Le tanto celebri imprese di Ercole furono risguardate
dalle antiche nazioni come prodigiosi eJSetti di un valore
SI6
divino, ed in ogni angolo dell* antico mondo si volle con-
servare la memoria di quel prode. La Fenicia, la Bitioia,
la Caria ebbero una città fregiata col nome di Eraclea o
Erculea; una pure ne possederono cos) la Tracia come la
Tessaglia, due la Macedonia ; e nelle meridionali provincie
italiche ebbero la loro Eraclea i Siculi, i Lucani, i Campani.
Portò altresì il nome di Ercole una isoletta del mar Tirreno,
oggi Asinara, e lo portarono varj promontori di Creta, del
Ponto, della Magna Grecia, della Britannia. Ebbero i Siculi
un Lago erculeo^ i Celti una Selva, gli Egizj la Foce di un
loro canale, gli Etruschi e i Liguri un Porto. Varj però fu-
rono gli Ercoli, poiché senza far caso dei moltissimi indicati
da Varrone, sei ne annovera Tullio, tre Diodoro Siculo, tutti
celebri per immenso valore, ma di origine affatto diversa;
che ad alcuno si die per patria T India, ad un altro V Egitto,
ad uno la Grecia.
Ora tra questi chi sarà V Ercole che diede il nome al
porto di Monaco ? I Grecomani saranno unanimi nel rico-
nascere in questo T Ercole greco, tanto più che trovasi di-
stinto colla voce ellenica di Moneco; onde spiegar la quale
debbesi poi presumere, o che al solo Ercole prestassero culto
gli abitanti di questa spiaggia marittinfa, o che cacciati questi,
ivi bramassse quel conquistatore* di restar solo. Alle quali
gratuite interpetrazioni letterali se si vorrà prestar fede
senza discuterne il valore, si resterà sempre all' oscuro sui
veri primordj dell'italico incivilimento, mentre potrebbesi
forse travedere un qualche lampo di luminosa verità nel
nome di Moneco.
Interponesi infatti con rispettèbbilé autorità Y immortale
Romagnosi, ricordando che le favole devono riguardarsi come
ingegnose allegorie, nelle quali furono avvolte le più importanti
storiche tradizioni, per tramandarle meno alterate alla me-
moria dei posteri. In quella guisa pertanto che in vSaturno
ai7
venne personificato l' incominciamenlo della, prima fra le ar(i
r agricoltura, ed in Mercurio la scienza dell' astronomia e
della meteorologia, guide indispensabili all'agricoltora, così
il genio bonificatore dei terreni venne simboleggiato in
Ercole liberatore di Prometeo dall' avvoltojo, ossia dell'umano
incivilimento dalla barbarie. Ma gli orientali riguardando il
sole come il Dio tutelare dell'agricoltura, lo avevano già
salatalo col nome di Ercole, il quale dunque non era che
il sole, invocato dagli Assirii col nome di Adad, che significa
V unico, il soh. Che se Ammiano Marcellino scrisse che
l'Ercole veneralo in Italia era il Libico o Egizio, la sua
opinione restò comprovata da un fatto moderno, stantechè
nel 1802 fra le rovine d'un vecchio castello posto nelle
adiacenze dei monti che sorgono tra la Roja ed il Paglione,
tuttora chiamato Monte di Bere, fu dissotterrato un idolelto
in bronzo del Dio Api, simulacro egizio che non fu portato
al certo né dai Focesi venuti d' Ionia, né dai Cartaginesi
che professavano una religione simile alla greca, ma piut-
tosto dai navigatori della Fenicia e della Libia, approdati
all' Italia non meno di quindici secoli prima dell' era volgare.
Se mi diffusi nell' indagar 1' origine di un così piccolo
angolo territoriale, per dilucidare il controverso articolo del
primitivo incivilimento d' Italia, sarò conciso nel far menzione
dei sovrani di Monaco^ Lasciando a parie le gratuite asser-
zioni del Venasco, che risaliva al secolo VIII per trovare
il fondatore di quella stirpe, dirò con Chasot e coi dotti
autori dell' Arte di verificare le date' non potersi incominciare
la vera storia cronologica di questo ramo dei Grimaldi, che
dal figlio di Oberto condottiero di quella flotta di Crociati
che sul cominciare del secolo XIII presero Damiata. Cario I,
del di cui dominio sopra Monaco non possono nascere con-
testazioni, morì nel 1363 ; e con la morte di Antonio avve-
nuta nel 1731 si estmse la linea maschile di questi Principi,
passando la loro eredità con Luisa-Ippolita nei Matignon di
Francia, Duchi di Valentinois.
Abitanti. — I proficui effetti del benignissimo clima
di questo piccolo Stato si rendono principalmente manifesti
nella fisica conformazione degli abitanti, i quali godono pro-
spera salute, senza esser molestati né da epidemiche né da
endemiche malattie. Né meno delle fisiche sono da pregiarsi
le loro qualità morali : indole buona e pacifica ; intelligenza
non comune negli affari ; attitudine ad intraprese di ogni
specie; solerzia ed ingegno nel. condurle a buon esilo. Che
se tra di essi è scarsissimo il numero dei facoltosi, pure si
mostrano contenti delle loro miti fortune : ed è poi da ri-
marcarsi che il popolo, sebbene assai incolto, é religioso si,
non superstizioso.
I predetti abitanti di questo Principato formano una
popolazione collettizia, principalmente composta di indigeni
di quella costa marittima e delle adiacenti, con i quali sembra
che venissero a promiscuarsi alcuni Spagnoli, Francesi e
Piemontesi nelle differenti epoche nelle quali i piccoli prin-
cipi di Monaco si trovarono nella necessità di darsi ih ac-
comandigia militare ai sovrani di quelle nazioni. Ciò provasi
manifestamente anche dall' indole del loro dialetto composto
d' italiano e francese, con varie voci spagnuole, e molte altre
usate, dai Genovesi. Diversifica alcun poco il linguaggio di
quei di Mentono e di Roccabruna da quello che parlasi io
Monaco, non quanto però la pronunzia che negli abitanti
della capitale è piuttosto dolce ed aperta, mentre altrove,
e parzialmente a Montone, riesce di una fatigante lentezza,
e ben distinguesi per una certa cantilena nasale nelle de-
sinenze.
219
DIALOGO ITAUANO
THA UN PADRONE
BD UK SUO SERVITORE.
Padrone. Ebbene, Balista,
hai tu eseguite tutte le com-
missioni che ti ho date?
SERVITORE. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino ;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città i ma
poi è piovuto tanto!
Padr. Che al solito sei sta-
to a fare il poltrone in un oste-
ria, per aspettare che spioves-
se! B perchè non hai preso
r ombréllo ?
Serv. Per non portar quel-
rimpiccio;epoi jeri sera quan-
do andai a letto non pioveva
più, se pioveva, pioveva po-
chissimo: stamani quando mi
sono alzato era tutto sereno,
e solamente a levata di sole
si è rannuvolato. Più tardi si
è alzato un gran vento, ma
invece di spazzare le nuvole,
ha portato una grandine che
TRADUZIONE
NEL. DIALETTO
DI MONACO.
Mestre. Ebben, Balista,
hai fàu tutte re cumissiiie che
min t* ho dàu?
Servitù'. Scia pò sta ciii
che segilru che ho fàu iantu
ben che hopusciiiu. Stamattin
a sei ure e un cartu era già
per camin: a sette e mesa
n aveva già fàu ra mittan, e
a ettu e tre carti entrava drentu
ra villa ; ma pei s è tantu
messu a cève che .' . . .
Mes. S^t- addire che a ru
solitu Sì stàu drentu Un ober-
gè a fa ru feneante, per aspetta
che nun cevessa dii ! Eh per-
dio nun hai piàu ru paraiga ?
Ser. Perchè m'embarras-
sava, e pei jeri sera candu
me sun andau curcà non ce-
vevaciii, o ben se ceveva, ceveva
ben poca: sta matin candu me
sun levàu, era- tiìttu seren, e
sulamente a ru Uva de ru su
se fàu nivuru. Un pocu ciii
tardi s'è lavau Un gran ventu,
e enAega de scassa re nivure
ha fan tumbà de neve, e pei
L
ha durato mezz'ora,
acqua a ciel rotto.
Padr. Così vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto quasi
niente di ciò che ti avevo or-
dinato ; non è vero ?
Serv. Anzi spero che ella
sarà contento^ quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
Serv. Nel tempo che pio-
veva mi sono fermato in bot-
tega del sarto, ed ho visto con
questi miei occhi raccomodato
il suo soprabito con bavero e
fodere nuove; i pantaloni colle
stafle erano finiti, e la sotto-
veste stava tagliandola.
Padr. Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellaio e il calzolajo, e di
questi non ne hai cercato?
Serv. Si signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio, e non gli mancava
che orlare il nuovo. Il calzolajo
poi aveva terminati gli stivali,
le scarpe grosse da caccia, e
gli scarpini da ballo.
Padr. Ma in casa di mio
padre quando sei andato,
«20
poi : ha ciilvhi a verse.
Mes. Gusci me vèi fa capi
che nun hai fau reti de se-che
t'aveva dittu; nun è veru?
Ser. a ru cunirari spera
che scia sera cuntentu scia
saverà ru giruche ho fau drentu
ra villa en due ure.
Mes. Vedemu se ch'hai fàu.
Ser. En tempu che ciUvevor
sun andàu da ru tajilr, e ho
vistu cun ri miei ej ì*u so
vestitu raccumudàu, cun ru
culeitu e ra dublUra nevi ; ru
so gilecu nevu e re sue braghe
cun ri tiran erun finie, e tajava
ra cornigera.
Mes. Tant\j^mejuym(kavevi
a dui passi ru capelè e ru
curduniè, e nun sì andàu da
dilsciun de chesti?
Ser. Signur sci; ru capelè
arrangiava ru su capelu veju,
e nun aveva ciil eh' a burdà
ru nèvu. Ru curduniè pei
aveva finiu i^e bote, re scarpe
grosse da caccia, e ri scarpin
da ballu,
Mes. Ma en casa de me
pàirey candu ghe si andàu ?
n\
che questo era l'essenziale?
SEav. Appena spiovuto, ma
non vi ho trovato né suo padre,
né sua madre, né suo zio, per-
chè jeri r altro andarono in
villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno sarà stata
in casa?
Serv. No signore, perchè
avevano fatta una trottata, ed
avevano condotto il bambino
e le bambine.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa ?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor pa-
dre, la cameriera e due servi-
tori erano con sua cognata, e
il cocchiere avendo avuto l'or-
dine di attaccare i cavalli per
muoverli, se ne era andato col-
la carrozza.
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
SERv.Nonvihotrovatocheil
garzonedistalla,edaluihocon-
segnato tutte le lettere, perchè
le portasse a chi doveva averle.
Padr. Meno male. E la
provvista per domani?
Serv. L'ho fatta: per
aissò .era r essensiale !
Ser. .i4/>/)ena ha avUu finìu
de cève : ma nun g.ho truvau
dilsciUn, ne so pàire, ne so
maire, ne so barba, perchè
avanVjeri sun' andai en cam-
pagna, e g han durmm.
Mes. Mèfrai sepandan, o
ben so mujè seran stai en
casa?
Ser: Signur nun, perchè
erun andai sinu a ra Turbia,
e avevan menati ri soi fièj.
Mes. Ma ri servitili erun
tutti fera?
Ser. Ru cugine era andàu
en campagna cun so papa, ra
dona de camberà e dui ser-
vitùi cun so cugnà, e ru pu-
stiùn avendu avUu urdine de
stacca ri cavalli per ri busticà,
se nera andau cun ra carrossa
de ru custà de Mentun.
Mes. Dunca ra casa era
vea?
Ser. Nun g ho iruvàu che
ru garsun de ra stalla, e g' ho
dàu tutte re lettre per re purtà
a cU deveva re ave.
Mes. Menu ma. E la pre-
vista per deman ?
Ser. /?' ho fa : per mene-
L.
222
minestra ho preso della pa-
sta, e intanto ho comprato
del formaggio e del burro.
Per accrescere il lesso di vi-
tella, ho preso un pezzo di
castrato. 11 fritto lo farò di
cervello, di fegato e di car-
ciofi. Per umido ho compra-
to del majale, ed un anatra
da farsi col cavolo. E sicco-
me non ho trovato né tordi,
né starne, né beccacce, ri-
medierò con un tacchino da
cuocersi in forno.
Padr. e del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perché costava po-
chissimo. Ho compralo so-
gliole, triglie, razza, nasello
e aliuste.
Padr. Così va benissimo.
Ma il parrucchiere non l'avrai
potuto vedere?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e cioccolata,
così ho parlato anche a lui.
Padr. E che nuove ti ha
date ?
Serv. Mi ha detto che
stra ho piàu de pasta, e entaniu
ho catàu de fromagiu e de
biirru. Per accresce ru butu
de vitella ho piàu un bucun
de mutun. Ra frittura ra farò
de servetta, de figaretu e d ar-
cicoti. Per fricassà ho catàu
de p&i'cu, e un canar per ar-
rangia cun ru coru. E cume
nun ho truvàu ne turdi, ne
pernige, ne bvcasse, ghe rime-
dierò cun un dindon che farò
cheige a ru furnu.
Mes. e de pesci n'hai
catàu ?
Ser. a ru cuntrari n ho
piàu en cantità, perchè custava
troppu pocu. Ho catàu de sole,
de treglie, de rasa.
Mes. Cosci va ben. Ma ru
peruchè nun r hai vistu?
Sek.A ru cuntrari cuma ha
ra so buttega accantu de chella
de ru drughista, dunde ho
catàu de sucaru, de peve, ga-
nefaretti, canella, ciculata, en-
tantu g' ho parlàu.
Mes. e che neve i ha dau ?
Ser. Hf ha dittu che r opera
n3
r opera in musica ha fatto
furore, ma che il ballo è stato
fischiato ; che quel giovine
signore suo amico perde T al-
tra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire colla diligenza.
Mi ha detto pure che la si-
gnora Lucietta ha congedato
il promesso sposo, e ha fatto
giuramento di non volerlo più.
Padr. Gelosie.... questa sì
che noi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
beva un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome" ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
e pòi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara tutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli migliori;
tra i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
manchino né scodelle, né vas-
soj. Acconaoda la credenza con
en musica ha fàu effetiu, ma
che ru ballu è andàu ben ma:
che achellu zuvenu, so ami-
gu, ha per su V autra sera a
ru gegu tutte re sue pariiire,
e che aura asperava de partì
cu/fi ra diligensa. M' ha dittu
tamben che madamaigellà Lu-
cia ha remandàu ru so futu-
ru spusu, e che ha giuràu de
nun ru vurè ciU.
Mes. Giruste . . . achesta si
che me fa ride, ma aura pen-
samu a nui.
Ser. Se Scia se cuntenta,
mangiu un pocu de pan, e bevu
un goitu de vin, e serò siibitu
a ri sai cumandi.
Mes. Cuma sun spresciau,
e devuandà fera de casa, ascuta
piimu cosa te cumaìido, e pei
mangerai e te repuserai tantu
che tu vei,
Ser. Scia cumande piXra.
Mes. Per ru derna die
devemu fa, prepara tixttu ru
salun. Pija ra tuaja, e re ciif
bmie serviette; fra i piatti pij
achelli de purselana, e fa en
sorta chenunmanche nescUelle,
ne cabarè. Arrangia ru biiffettu
cun de frutta^ d*iXga, nuge,
n
224
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Serv. e quali posate met-
terò in tavola?
Padr. Prendi i cucchiai
d'argento, le forchette e i
coltelli col manico d'avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini siano
quelli di cristallo arrotato. Ac-
comoda poi intorno alla tavola
le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna.
Tu sai quanto è stucchevole
quella vecchia! Metti in ordi-
ne la camera buono, fa' riem-
pire il saccone e ribattere le
materasse. Accomoda il letto
con lenzuola e federe le più
fini, e cuoprilo col zanzariere.
Empi la brocca di acqua, e
sulla catinella distendi un
asciugamano ordinario ed uno
fine. Fa' tutto in regola, e la
mancia non mancherà.
Serv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
amandure, confitture e butije.
Ser. e che cuver metterò
en torà?
Mes. Pija ri cujài dar-
geniu, e re furcine, e ri cuteli
curi ru manigu d'avoriu, e su-
vègnate che re caraffe, ri gutti,
e ri gutelli, siciun achelli de
crislallu tajàu. Pei arrangai
aiturnu de ra torà re ciu bone
careghe.
Ser. Scia sera servtupun-
fUalmente,
Mes. Suvègnate che chesta
sera vègne me maire gran. Sai
cantu chella veja è annujante.
Mete en urdine ra camberà
bona, fa jence ra pajassa, e
fa batte ri maialassi. Fa ru
lettu cun ri linsei e re diverte
re ciu fine, e crèveru cun una
sinsariera, lence ru giaru
d' aiga^ e sciu de ru bassin
stende un panaman ur dinari
e un fin. Fa tuttu en regula,
e ra bona man nun mancherà.
Ser. En verità scia m' ha
cumandàu tante cose; ma farò
tiitiu.
^25
DIALETTO GENOVESE.
Del carattere dei Genovesi fu detto abbastanza ; resta
ora a dare un cenno del loro dialetto. Anch' essi dunque
hanno il loro linguaggio, e sebbene nei diversi vernacoli
delle dqe Riviere vada soggetto a notabili modificazioni, con
tutto ciò deve riguardarsi come tipo primario quello di
Genova. Viene questo usato non solamente dal popolo, ma
nelle migliori società ancora, pochissime eccettuate; qunidi può
dirsi di uso generale. Esso deriva manifestamente dalla lingua
italiana ; sulla di cui sintassi è intieramente modellato, seb-
bene gli si siano unite varie voci di origine francese, spagnola
e portoghese ; e le lettere gutturali, con tanta frequenza in
esso impiegate, rammentano le molte relazioni commerciali
che ebbero i Genovesi con popoli di araba provenienza.
Sembrò a taluno aspro e duro il dialetto ligure, e di
ìjiù ingrata pronunzia : si volle anche privo di quelle grazie
e di quei piccanti caratteri, che rendono gradevoli altri ver-
nacoli italiani, come quello dei Veneziani, dei Bergamaschi,
dei Napolitani. A sostegno della quale sentenza si addusse
r osservazione, che sulle scene sogliono quelli adoperarsi
non senza plauso, mentre il genovese quasi mai viene in-
trodotto, e solamente in un modo sfavorevole, e per dipin-
gere odiosi caratteri. Ma T inflessione delle voci ed il modo
di proferirle potrebbe facilmente trarre in errore, chi giudicar
volesse con quel mezzo il genio e i pregi di una lingua !
Certo è frattanto che alcuni valenti ingegni della Liguria
scelsero la nativa favella per interpetre della feconda loro
fantasia, e tra questi si distinsero il Foglietta, lo Spinola,
il Gaserò, il Dertona, il Villa e varii altri che composero
poesie degne di lode. Ed il celebre Iacopo Cavalli, che di
gran lunga tutti li superò, riuscì maraviglioso, anco a pa-
15
2^6
rere degli stranieri, nel poetare in genovese ; tanta è la
facilità, la delicatezza, lo spirito con cui seppe far uso del
proprio dialetto. Rappresentando quel vivace poeta amori
di pescatori e di plebei, pose in pregio tra le muse una
lingua, che dai popoli tenevasi in vilipendio. Questo giudizio
è del celebre Chiabrera ; il quale aggiunse, che se la
favella è opera propria dell'uomo, il Cavalli ccm onorare
r idioma genovese fece onore alla sua nazione in cosa, onde gli
abitatori delle due riviere non rimanevano senza vergogna,
adoperandolo malamente. E per certo il ciò fare fu nuova e
strana vaghezza ; ma la Liguria produce uomini Trovatoci, e
Trovatori di cose non immaginate e neppure credute.
Dopo avere ottenuto un così favorevole giudizio e da
tanto senno pronunziato, sembra che il Cavalli molto si
compiacesse dei suoi versi, e ne menasse anche vanto. Convien
dire infatti ch'ei fosse stranamente invaghito del suo pre-
diletto vernacolo, se non fu scherzo o esagerazione poetica
il concetto del seguente sonetto in lingua genovese !
Cento poera de béu tutti azzovse
No doggeraa ra leDgua a ud Foreste,
Chi digghe ia boa Zeneize, Bertomé.
Amò. mOB, ceUy biUu, parolle tae.
Questa è particola feligitae
A ri ZeDeixi daeta da ro Ce,
D'avel parolle in bocca con Taroé,
De proferire tutte insuccarae.
Ma ri Toschen meschin, chi son marotti,
£ che ro gè da bocca ban beli* amaro,
Ne ban noi per mezelengue, e per barbottil
Vòrrae che me dixessan, se un Prue caro,
Sensa stàghe a mesccià tanti ciarbotti, •
Va per cento Fratelli ^ e sta do paro.
Con buona grazia del signor Cavalli, altri or giudichi
del vernacolo genovese come meglio gli sembrerà, pren-
dendone una giusta idea dal seguente consueto Z>ta%o, che
fu tradotto da soggetto coltissimo.
227
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
ED UN SUO SERVITORE.
Padrone. Ebbene, Bali-
sta, hai tu eseguite tutte le
commissioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino ;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città, ma
poi è piovuto tanto 1
Padr. Che al solito sei
stato a fare il poltrone in
un' osteria, per aspettare che
spiovesse 1 E perchè non hai
preso l'ombrello?
Serv. Per non portarquel-
r impiccio; e poi jeri sera
quando andai a letto non pio*
veva più, se pioveva, pio-
veva pochissimo : stamani
quando mi sono alzato era tut-
to sereno, e solamente a leva-
ta di sole si è rannuvolato.
Più tardi si è alzato un gran
vento, ma invece di spazzare
le nuvole, ha portato una gran-
TRADUZIONE
NEL. DIALETTO
GENOVESE.
Padron. Ebben, Baciccia,
ti e ae eseguie e commisdoin
che ( ho daeto ?
Servito. Scignor posso as-
segnalo che son staeto poniuaìe
ciù che ho posciuo. Sta mat-
tin-na a sei óe e un quarto,
eo za per viaggio; e a saétte
oe e méza eo a meitè stradda,
e a éutto oe e trei quarti in-
travo in Zéna; ma poi Ve
ciùvùo mai tanto !
Pad. Za secondo o solito
ti saé staeto a fa o pòtron in
f un ostaja per aspétà che ces-
sasse l'aegua. E per case ti no
r ae piggioA o pa-égua ?
Ser. Pe ito porta queir imr-
bramo. E poi, vei seja quando
son andaeto a dormi no ciu-
veiva ciuf o se ciuveiva, ciu-
veiva cianin ; sta matin-na
quando me -son levoH V ea tutto
sén, e solo quando V e sciorth
sa se facto nuveo. Citi tardi
s e misso un gran vento, ma
invece de spassa e nuvé, o Iha
portoùun-nagragnéuafCKa l'ha
2^8
dine che ha durato mezz'ora,
e poi acqua a ciel rotto.
Padr. Così vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto qua-
si niente di ciò che ti avevo
ordinato; non è vero?
Serv. Anzi spero che Ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
Serv. Nel tempo che pio-
veva mi sono fermato in bot-
tega del sarto, ed ho visto
con questi miei occhi racco-
modato il suo soprabito con
bavero e fodere nuove ; i pan-
taloni colle staffe erano finiti, e
la sottoveste stava tagliandola.
Padr, Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo, e il calzolajo, e
di questi non ne hai cercato?
Serv. Sì signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio, e non gli mancava
che orlare il nuovo. Il cal-
zolajo poi aveva terminati gli
stivali, le scarpe grosse da
caccia, e gli scarpini da ballo.
Padr. Ma in casa di mio
padre quando sei andato,
di^ miz oa, e poi dell* aegua
che paiva che a vuassan.
Padr. Cosci ti me véu dà
da capì che ti non ae faeto
quaxi ninte de tutto quello che
f aveivo ordinóu, non è veo?
Ser. Anzi mi speo che scià
sa contento quando scià savia
gio ch'ho faeto pe a q\ttae
in doe oe.
Pad Sentimmo dunque e
tò valentìe.
Ser. Mentre ciuveiva me
son assostóu in ta buttéga do
chuxióu, e ho visto coi mae
proprj éuggi o s6 capotto ac-
comodoà c6 bavao e a fodra
néuva, a so marsdn-na niuva
e i pantahin co i sottopé finj\
e gipponetto cK ó taggiàva.
Pad. Ben: ma tigK aveivi
d* appresso o capellà e o ca-egà;
e ti i ae serchae ?
Ser Sciscignor. capellà
spassava o so capello végio,
e no n aveiva dù che da
orla néuvo. O ca-egà poi
r aveiva terminóu i stivae,
e scarpe grosse da caccia e
i scarpin da ballo.
Pad. Ma in casa de mae
poae quando ti ghé andaeto, che
^29
che questo era l'essenziale?
Serv. Appena spiovuto,
ma non vi ho trovato né suo
padre, né sua madre, né suo
zio, perchéjeri l'altro andarono
in villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno sarà stata
in casa?
Serv. No Signore, perchè
avevano fatta una trottata, ed
avevano condotto il bambino
e le bambine.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa ?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor
padre, la cameriera e due ser-
vitori erano con sua cognata,
e il cocchiere avendo avuto
r ordine di attaccare i cavalli
per muoverli, se ne era andato
colla carrozza a S.Pier d Arena .
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
Serv. Non vi ho trovato
che il garzone di stalla, ed
a lui ho consegnate tutte le
lettere, perchè le portasse a
chi doveva averle.
Padr. Meno male. E la
provvista per domani ?
Serv. L'ho fatta : per mi-
le quello che ciù im premeiva?
Ser. Subito che Ve desmisso
de deùve, ma no g' ho trovóu
ne so papà, ne so marna, ne
so barba, percK avant' ei soii
andaeti in villa, e ghe son dormì.
Pad. Ma a meno mae fra£
ò so moggié sàan staeti in
casa ?
Ser. No scignor, perchè
aveivan faeto unna carrozzata
scinna a Sanna^ e s ean por-
tae con lo i figgieu.
Pad. Ma a gente de serviax)
a rea tutta féua de casa; le asci?
Ser. Ó cheùgo o l éa an-
daeto in villa con so papà, a
caméa e doi servitoì éan con
so cugnà; e o carrozze avendo
avuo V ordine d' attaxxà i ca-
valli pe desligaghe e gambe,
rea andaeto co a carrozza
in San Pé d'A-enna.
Padr. Dunque in casa no
gh' ea nisciun?
Ser. No g ho trovóu che
garson de stalla, e g ho con-
segnóu tutte e lette perchè o e
portasse ao so destin.
Padr. Ancoa d' assae. E a
p'ovvista per doman?
Ser. L'ho faeta, Pe me-
L
?30
Destra ho preso della pasta, e
intanto ho comprato del for-
maggio e del burro. Per ac-
crescere il lesso di vitella,
ho preso un pezzo di castra-
to. Il fritto lo farò di cer-
vello, di fegato e di carciofi.
Per umido ho comprato del
majale, ed un' anatra da farsi
col cavolo. E siccome non
ho trovato né tordi, né starne,
né beccacce, rimedierò con un
tacchino da cuocersi in forno.
Padr. e del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perché costava po-
chissimo. Ho comprato so-
gliole e triglie, razza, nasello
e aliuste.
Padr. Cos\ va benissimo.
Ma il parrucchiere non avrai
potuto vederlo?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e cioccolata,
così ho parlato anche a lui.
Padr Echenuovetihadate?
Serv. Mi ha detto che
r Opera in musica ha fatto
furore , ma che il ballo è
nestra Iw piggiou da pasta, e
intanto ho accatou do fromaggio
e do buiiro. Pe azzonze ao
boggìo de vitella ho piggióu wi
pesso de craston. [rito o
fò de gervelky de figaeto e
d' articiocche. Pe umido ho
accatóu do porco e un anatra
da mette coi cai. E scicomtne
non ho posciùo trova ne tordi,
ne pernixe, ne beccasse, ghe
rimedio con un bibin da cheùxe
in to forno.
Padr. E pesci ti n ae ac-
catóu ?
Ser. Anzi n ho piggióu
tanti, perchè ean quaexi de
badda. Ho accatóu de lengue,
de treggie, da razza, do na-
zello e ^e aragoste.
Pad. Cosc\ va ben. Ma o
perucché ti no V aviae poscmo
vedde ?
Ser. Anzi sdcomme o l'ha
a buttega da pràesso a quella
do droghe, dove ho facto a
provvista de succao, peive,
ganéufani, canella e cicolata,
cosci ho parlóu a le asci.
V Ali. E che notizie of ha daeto?
Ser. m'ha dito che Vopea
in muosica a V ha facto furò,
ma che o ballo o V e staeto
231
stato fischialo; che quel gio-
vine signore suo amico perde
r altra sera al giuoco tutte le
scomnìesse, e che ora aspet-
tava di partire sopra una nave
per Livorno. Mi ha detto pure
che la signora Lucietta ha con-
gedato il promesso sposo, e ha
fatto giuramento di non voler-
lo più.
Padr. Gelosie.... questa sì
che mi fa ridere ; nàa pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara tutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli miglio-
fischidu; che quello scignorin
so amigo latra spja, o V ha
pèrso ao zéugo tutte e scomme,
e che ax)a o V aspéta a par-
tenza d'unna navepe andàsene
a Livorno. O m'ha dito asci
che a scià Lusietta a l ha
daeto vattene a o so sposóu,
e a rha ztióu. de no voeih dù.
Pad. Gioxie . . . questa chi
sci eh' a me fa rie, ma aoa
pensemmo un pitin a wot.
Ser. Se scià se contenta
mangio un boccon de pan, beivo
un gotto de vin, e poi tomo
subito a reseive i so comandi.
Pad. Scicomme hopremùa,
e devo sciorfl, prima sta a
sentì quello che t'ordino, e poi
ti mangiae, e ti te posiae quanto
te parrià e piaccia.
Ser. Scià me comande quello
che scià véu.
Pad. Per o disnà che devo
dà, prepara tutto in f o mégio
salotto. Piggia a tovàgia e i
tovaggiéu cm boin ; a terraggia
ri; tra i piatti scegli quelli di j sérni quella de porsellanna, e
porcellana, e procura che non amia che no mancan ne xatte,
manchino né scodelle, né vas- ! ne piatti: prepara a credenza
soj .Accomoda la credenza con | co a fréta, uga, noxe, aman-
232
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Serv. e quali posate met-
terò in tavola ?
Padr. Prendi i cucchiai
d'argento, le forchette e i
coltelli col manico d' avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini siano
quelli di cristallo arrotato. Ac-
comoda poi intorno alla tavola
le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna.
Tu sai quanto è stucchevole
quella vecchia! Metti in ordi-
ne la camera buona, fa' riem-
pire il saccone é ribattere le
materasse. Accomoda il letto
con lenzuola e federe le più
fini, e cuoprilo col zanzariere.
Empi la brocca di acqua, e
sulla catinella distendi un
asciugamano ordinario ed uno
fine. Fa' tutto in regola, e la
mancia non mancherà.
Serv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
doe, dósci, confiitve e bottiggie.
Ser. e e possale quae
glie devo mette in toa.
Pad. Piggia i cuggiae dar •
genio e forsinne e % cotelH co
manego d'avorio, e legnile a
memoia che e bottiggie, i gotti
e i gottin véuggio che segginn
quelli de cristallo arrotae. Metti
I poi in gio a toa tutte e car-
\ règhe legee de Ciàvai.
Ser Scià sa servìo a
l pontin.
Pad. Regordate che questa
seja ven mae Madonava. Ti
sue quanto a V e rausa quella
végia, Prepàraghe a camera
citi bonna. Fa impì o saccon,
e scioà e str aponte. Fa o letto
con i lenzéu e sciéunie e ciù,
finne, e mettighe a sinsa-ea.
Impi a brocchetia de V aegua,
e in scióu bassi destendighe
un macramè e mina piccagetta.
Fa tutto come se deve, e poi
te dóo a mancia.
Ser Per bacco scia m* ha
ordinóu troppo cose ma f'óo
lutto.
II.
PRINCIPALI DIALETTI
DELL' ITALIA MEDIA CENTRALE
CON
ILLUSTRAZIONI ETNOLOGICHE.
L'ordine topografico che adottai, mi condusse nell' Italia
Media o Centrale, antica dimora di Etruschi, di Latini e di
Umbri : qui si formò l'aureo linguaggio del Lazio; qui nacque
da esèo nei bassi tempi
L' idioma genlil, sonante e puro.
Pochi saranno i Dialetti in questa bella parte della. Peniso-
la raccolti, perchè meno esposta alle incursioni di quei ladroni
oltramontani di razze moltiplici che occuparono T AUa Italia,
restò meno alterato l'antico tipo etrusco-romano. Ma insieme
coi barbari scese e si propagò tra noi l' infausto germe delle
civili discordie e delle fazioni, fomentato poi perfidamente
dai tirannelli, che per solo diritto di maggior forza si re-
partirono il dominio delle belle contrade della Penisola;
quindi avvenne che pel corso di secoli i popoli italiani ri-
valizzarono tra di loro, e si invidiarono, come rozze tribù
di diversa origine straniera !
Basti il dire che la lingua italica, perchè nata e ingen-
234
tilita in Toscana, fu spesso argomento di letterarie asprissime
contese. Risalendo infatti ai tempi dello Speroni, evenendo
ai modernissimi della famosa Proposta del cavalier Monti e
del conte Perticari, si menò il più strano romore e si addusse
una farragine di sottili ricerche, per determinare, se il nostro
idioma appellare si debba italiano o toscano ! Dichiarai già
che il primo dei due distintivi è tanto splendido, da meritare
giustamente di essere preferito : ma subitochè il dialetto dei
Toscani, che comprende tutto il volgare illustre, non potrà
mai andar confuso con gli altri della Penisola, e poiché su di
esso si formò V italiana grammatica, e la classe colta di
tutta Italia studia di imitarlo quando vuole favellare o scri-
vere gentilmente, a qual prò tanta pertinacia nel volerlo
oscurare e deprimere? Ma di questi fastidiosi ricordi con.,
verrà pur troppo far parola, in proposito del dialetto fiorentino;
ora si sospenderanno.
DIALETTO 8AKZANE8E.
Allorquando io preludeva ai miei lavori storico-statistici
coir Atlante della Toscana, prescelsi la divisione territorale
per Vatli, perchè di una mirabile fisica esattezza : e come
in allora incominciai dalla Valle della Magra, seguirò lo
stesso ordine, trovandola appunto a confine colla Liguria or
ora perlustrata.
Nelle pendici occidentali di Monte Orsajo hia sua ori-
gine la Magra; fiume impetuoso, che
per camin corto
Lo Genovese parte dal Toscano.
La feroce nazione dei Liguri .abitò certamente questa
valle, ma troppo sono incerti gli antichi confini del loro do-
minio. Divenuti i Romani padroni dell' Etruria, e domati i
53^
Liguri Montani ed Apuani dedussero forse una colonia sulle
rive della Magra : Luni al certo ebbe da essi ingrandimento
e splendore, siccome lo attestano le vaste rovine e le molte
iscrizioni latine sopravvissute alla sua distruzione.
In vicinanza della Vara tributaria della Magra trovasi
Sarzana, detta in antico Sergianum^ poi dai Toscani Serez-
zana, e da quei del paese per elisione Sarzana. Ma il Giorio,
con più fondamento dell' Ivani opinò, che dalle rovine di Luni
desumesse V origine questa città, insignita di tal titolo da
Papa Paolo II e dal terzo Federigo. Nel decorrere del se-
colo XV i Fiorentini erano vequti in potere del Sarzanese, e
per consolidarsi in quel possesso sborsarono una somma ai
Fregoso, che a tradimento se ne impadronirono. I Fiorentini
furono solleciti di ricuperarlo a mano armata, ma Piero
de' Medici rèse vano il frutto di quella vittoria,- offrendo vil-
mente 'Sarzana e il forte di Sarzanello al Re di Francia,
che ne die la custodia ad un castellano di nazione francese,
col quale ne trattò la compra con molta facilità la Banca
di San Giorgio, oflFrendo 25 mila ducati di oro, dei quali
l'avido francese fece sacco. Dopo un lasso di circa quattro
secoli i moderni avvenimenti concedono di considerare Sar-
zana come posta entro i confini naturali di Toscana.
Tra gli abitanti dell'antico territorio granducale distac-
cato, V immediata comunanza coi limitrofi dipendenti da
quattro diverse potenze, contribuì necessariamente ad alte-
rare il loro idioma con voci e pronunzie che nelle diverse
località partecipano dei vernacoli genovese, parmigiano, mo-
denese e lucchese. Ecco il perchè volli procurarmi una
traduzione del consueto Dialogo in Sarzanese, affinchè meglio
si possa giudicare quale influenza eserciti negli abitanti di
un estremo confine di uno Stato la vicinanza coi limitrofi.
236
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
BO VV SUO SERVITORE.
TRADUZIONE
NEL DIALETTO
SARZANESE.
Padrone. Ebbene, Batista,
bai tu eseguite tutte le com«
missioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino ;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città j ma
poi è piovuto tanto!
Padr. Che al solito sei sta*
to a fare il poltrone in un*oste-
ria, per aspettare che spioves-
se! E perchè non hai preso
r ombrello ?
Serv. Per non portar quel-
l'impiccio; epoi jeri sera quan-
do andai a letto non pioveva
più, se pioveva, pioveva po-
chissimo: stamani quando mi
sono alzato era tutto sereno,
e solamente a levata di sole
si è rannuvolato. Più tardi si
è alzato un gran vento, ma
invece di spazzare le nuvole,
ha portato una grandine che
Padron. Ebben Baciciu,
te r é pò fatu tutu qucr eh' a
t* ordina ?
Servitore. Sorpadrmime
arpossu assegùrare d'averlu fa-
tu mèi ch'o possù. Sta matina
ale sei e 'ri quartu a m ere
za missu en camin, e a sete
ore e mezu a ere za a mità
strada, e al otu e trei quarti
a entrave en Genoa: ma p6
r è piueù tantu . . .
Padr. Che ar to solitu te
te se sta a fare er purtron en
t' l usiaiia, sptandu che la.
fnisse de piovre. E prchè te
n é piglia V umbrela ?
Serv Pr n avere quel imba-
razzo. E pò jeri sera quand
a me n andè a durmire, ne
piuveva pu gmnte; e se la
piuveva, la brusclave mala-
pena: staman pò quandu a me
son leva l'ere tutu sren; e solu
quandu s è leva er solo la sé
arnuvlà:pu iardiua le vegnu
'n gran ventu, m4i 'nvece de
spazar le nuole i a purtà le
937
ha durato mezz'ora; e poi
acqua a ciel rotto.
Padr. Così vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto quasi
niente di ciò che ti avevo or-
dinato ; non è vero?
Serv. Anzi spero che ella
sarà contento^ quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
Serv. Nel tempo che pio-
veva mi sono fermato in bot-
tega del sarto, ed ho visto con
questi miei occhi raccomodato
il suo soprabito con bavero e
focjere nuove; i pantaloni colle
staffe erano finiti, e la sotto-
veste stava tagliandola.
Padr. Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo e il calzolajo, e di
questi non ne hai cercato?
Serv. Si signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio, e non gli mancava
che orlare il nuovo. Il calzolajo
poi aveva terminati gli stivali,
le scarpe grosse da caccia, e
gli scarpini da ballo.
Padr. Ma in casa di mio
granzole che l'en dura mezora;
e poi' è vegnù 'n aqua a secce.
Padr. Cussi te te me vofar
acapire che te n è fatu quasi
gnente de quer che me a
j t'aveu ordina: la né vera?
I SERv.i4f?zi me a speru, sor
Padron che la restrà contentu
quandu la savrà er ziru eh* o
fatu pr la zita en do oi'e.
Padr. Sentm enpó le tó
prudezze.
Serv. En ter tempu che la
piuveve me a me son ferma en
fla butega der sartu, e o vistu
propiu con i me oci acumdà
er so capotu tvn er bavro, e
la froda nova ; la so marsina
nova e i cauzon lunghi con i
tiranti i erti fni: la sottomar-
Sina poi i la tagiava.
VkDK.Tantumei.Ma teiere
pur vsin ar caplaro e ar cauz-
laro e de questi prchè te te
n en è dumandà ?
Serv. Oh sor si eh' a l'ó
fatu. Er caplaro i arpuUve er
so capelu veciu, en ghe restave
che da ourlare er novo. Er
cauzlaro pò i aveve termina
i stivai, i scarpon da cacia e
i scarpin da halu.
Padr. Ma 'n casa de me
ns
padre quando sei andato,
che questo era F essenziale?
Serv. Appena spiovuto, ma
non vi ho trovato né suo padre,
né sua madre, né suo zio, per-
ché jeri l'altro andarono in
villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno sarà stata
in casa ?
Serv. No signore, perchè
avevano fatta una trottata, ed
avevano condotto il bambino
e la bambina.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa ?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor pa-
dre, la cameriera e due servi-
tori erano con sua cognata, e
il cocchiere avendo avuto l'or-
dine di attaccare i cavalli per
muoverli, se ne era andato col-
la carrozza.
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
SERv.Nonvihotrovalocheil
garzone di stalla, ed a lui ho con-
segnato tutte le lettere, perché
le portasse a chi doveva averle.
Padr. Meno male. E la
provvista per domani?
Serv. L' ho fatta : per
padre, qiuindu te ghe se andà;
che queslu ié*rpu che 'mporta?
Serv. Subttu che la fui de
piovre; ma me a ne gh'ó truvà
ne so padre, ne so madre, ne
so ziu, prchè fin d'jeri V autru
i andon en vila e % gh'en prnutà.
Padr. Me fradelu pv, o
so mugera pr-lumeno i ghe
saran sta 'n casa ?
Serv. Sor no, prchè i aveun
fatu na scorsa a Savona e i
aveun parta via er fantu, e la
(anta.
Padr. Mai i servitori i ero
tuti for de casa ?
Sekw. Er coghu i era andà
n campagna con er so sor pa-
dre, la cambrera e doi sei^i-
toìi eran con so cugnada; e V
cuccerò chi aveva avu V or-
dine d'ata^care i cavai pr fargi
n pò spassigiare, i se n era
andà con la carezza.
Padr. Doriche en casa la ne
gK ere nissun?
Serv. An gK 6 truva che
er garzon de stala, e a le a
gK ó consigna tutte le letre
prchè igi portasse a chi la van .
Padr. Menu mah. E la
pruvista pr duman ?
Serv./I Vo fata.Prmnestra
239
minestra ho preso della pa-
sta, e intanto ho comprato
del formaggio e del burro.
Per accrescere il lesso di vi-
tella, ho preso un pezzo di
castrato. Il fritto lo farò di
cervello, di fegato e di car-
ciofi. Per umido ho compra-
to del majale, ed un* anatra
da farsi col cavolo. E sicco-
me non ho trovato né tordi,
né starne, né beccacce, ri-
medierò con un tacchino da
cuocersi in. forno.
Padr. e del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perchè costava po-
chissimo. Ho comprato so-
gliole, triglie, razza» nasello
e aliuste.
Padr. Così va benissimo.
Ma il parrucchiere non lavrai
potuto vedere?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e^ cioccolata,
così ho parlato anche a lui.
Padr. E che nuove ti ha
date?
Serv, Mi ha detto che
pigia de la pasta, e n tantu
pruislu der formagiu, e der
bìitiru. Pr acresser er lessu de
vitela pigia n pezzu de
castron. Er fritu ar farò de
zervela, de figaretu, e d' ar-
ticiochi. Pr umidu o cumprà
der porca, e napavarinad'acu-
mudare con i coi. E come a
nò truvà ne di tordi, ne die
stame, ne die becazze, a gh'ar-
mdiero con ' en pitu en ter
fomu.
Padr. E dipessi te n en
è cumprà?
Serv. Anzi a no pigia mu-
tuben, prchè i erun a bori patu.
Ocumprà die lenguate, die trege,
raze, nasei, e ragostre,
Padr. CusA la va ben. Ma
er prucheru ten l'avre miga
pussu vdere?
Serv. Anzi come lAià la
butega a canta a quela derdru-
ghero, donde ó fatu pruista de
zucrOf pevro, garofji, canela, e
dculata, cussi Sparla anchealù.
Padr. E che nove i tà datu?
Serv. Im*à ditu che l'opra
^iO
l'opera in musica ha fatto
furore, ma che il ballo è stato
fischiato; che quel giovine
signore suo amico perde Y al-
tra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire colla diligenza.
Hi ha detto pure che la si-
gnora Lucietta ha congedato
il promesso sposo, e ha fatto
giuramento di non volerlo più.
Padr. Gelosie.... questa s^
che mi fa ridere ; ma" pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara lutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli migliori;
tra i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
manchino né scodelle, né vas-
soj. Accomoda la credenza con .
n musica l' a faiu furore, ma
eh* er ^balu i è sta friscià: che
quer zovno signore so amigo
i a persu l' autra sera al sogu
iute le scomisse ; e che adessu
i' aspetta che partissa na nava
pr andarsne a Livorno. Im' à
ditu anche che la sora Luzieta
la Uzenzià er promisso sposo,
e la s è zurà che la n er
ve pH.
Vxi>i\.Gelusie! lèpropiu
da ridre. Ma pensan en pò a
noautri.
Serv. Se la se contenta a
mangio n pò de pan, e a
beo 'n Incero de mn, epe subitu
a vegno a sentire cose la me
comanda.
Padr. Come me 6 (rezza,
e a dèo surtire fora de casa,
senta prima cos a f ordino pr
temangeriy e farposeré quantu
te para.
Serv. / me comanda pure.
Padr . Pr erdisnare cKabiam
da fare te te prepareré tutu en
ter saloto bon. Te pigeré la
tuagia, e i tuagin i mèi. Pri
i piati zema quei de purzlana,
e prucura che ne manca né
scudele ne iportabiceri.Acomda
la credenza con le frute, uva
2il
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Skrv. e quali posate met-
terò in tavola ?
Padr. Prendi i cucchiai
d'argento, le forchette e i
coltelli col manico d'avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini siano
quelli di cristallo arrotato. Ac-
comoda poi intorno alla tavola
le seggiole n^igliori.
Sbrv. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna.
Tu sai quanto è stucchevole
quella vecchia! Metti in ordi-
ne la camera buona, fa' riem-
pire il saccone e ribattere le
materasse. Accomoda il letto
con lenzuola e federe le più
fini, e cuoprilo col zanzariere.
Empi la brocca di acqua, e
sulla catinella distendi un
asciugamano ordinario ed uno
fine. Fa' tutto in regola, e la
mancia non mancherà.
Serv. Per verità ella mi
1^ ordinato molte cose, ma
farò tutto.
uose, mandurle, dozsi,coììflnra,
e butige.
Serv. E che posate 6 da
metr en (aula ?
Padr. Pigia i cuciari dar-
gentu e le furzine, e i cuttei
dar mangu d* avoriu. E ar-
cordte che le boce, i biceri, e
i bicerin i sio quei de cristalu
ruta. Te metré p6 n torno a
la taula le careghe iute de
quele lenzere de Ciavri.
Serv. La sarà servì a do-
vere.
Padr. Ar cordte che stas-
sera la ven me nona. Te te se
quantu le l'è mai na veda
nujosa. Pensa de metr'en ordine
la stanzia bona: te fare 'mpire
er sacon, e arfare le strapunte.
Prpara er letu con i lenzoi,
e le frudete le pu fine, e tiraghe
la zenzalera. Empia la bi^oca
d' aqua, e n ter bazilu dsten-
dghe sovra 'n sugaman ordì-
nariu, e n autru fin. Fa tutu
en regula, e pò la mancia la
ne mancrà.
Serv. En vrità la ni à
ordina tante cose; ina a mirerò
de far tutu.
2i2
DIALETTO LUCCHESE.
Queir italiana Repubblica, che fino dai primi anni del
secolo XI i Lucchesi costituirono, per deliberazione generosa
ed unanime del popolo di abolire il servaggio imposto dai
Duchi e dai Marchesi, prepotenti ministri della straniera
tirannide ; con successivo consiglio, umiliante ma necessario,
di tenere nascosa la propria debolezza sotto l'egida del
patrocinio imperiale, potè per più secoli salvare Y esistenza,
ma dal vortice delle moderne concitazioni politiche trasci-
nata, essa pure ebbe il suo fine. Gli imperatori di Alemagna
avevano per verità riguardato sempre la Lucchese Repubblica
qual vassalla dell'impero; ma sul cadere del 1798 il ri-
voluzionario generale Serrurier, simulando di volerla eman-
cipare col richiamare in vigore lo Statuto democratico alquan-
to leso dalla legge aristocratica Martiniana, accompagnava
queir atto di apparente generosità con modi fraudolenti, la-
sciando poi esposta V ebrezza patriottica dei più incauti alla
vendetta dei nuovi invasori. Indi a non molto Bonaparte
primo Console tornava ad annunziare V indipendenza ai Luc-
chesi, ma impugnato appena lo scettro imperiale, lo stendeva
all'oltraggioso comando di voler essere supplicato, per con-
ceder loro ad assoluti signori i coniugi Baciocchi, a tal so-
vranità già da esso eletti. Fortunatamente quei principi nuovi
disposero il repubblicano patriottismo lucchese ad accomo-
darsi al regime monarchico, dispiegando inaspettata saggezza
negli ordinamenti governativi, i quali riuscirono tali da onorare
grandemente il regno del più benefico sovrano.
Fu poi rovesciato il trono Napoleonico, ed i più forti
fra i potentati d' Europa comandarono che Lucca tornasse a
far parte dell' Etruria ; invitando prima la Borbonica di-
nastia Parmense ad errare per provvisorio diporto sulle
243
ridenti rive del Serchio, finché la vedova di Napoleone avesse
esercitato il suo dominio nei tre Ducati Transpennini di
Parma, Piacenza e Guastalla. Mancò poi di vita la Duchessa
austriaca ; i Principi Borbonici furono trasferiti a Parma, e
i Lucchesi tornarono a far parte della famiglia toscana ; ma
giustizia vuole la dichiarazione, che se per la sua piccolezza
lo Stato Lucchese tenne uno degli infimi gradi tra le po-
polazioni indipendenti, lo meritò elevatissimo al pari di ogni
altra nazione per T ingégno, l'attività, l'industria, la probità
di quel buon popolo.
Abitanti e Dialetto. — La toscana famiglia dei Luc-
chesi non ha per tipo le atletiche forme di ^uel tempera-
mento, cui i vecchi fisici quadrato o boetico appellarono. Il
loro abito di corpo è d' ordinario gracile e adusto ; la faccia
stessa presenta un ovale piuttosto oblongO; con certi tratti
di fisionomia non senza venustà delicati. Le condizioni
atmosferiche, le soverchie fatiche dei campagnoli non sem-
pre ristorate da alimenti abbastanza nutritivi, e in qualche
luogo r uso di acqua non molto pura, sono altrettante cagioni
di una certa mollezza di fibra, che rende assai rare le ro-
buste costituzioni, e più particolarmente negli abitanti della
bassa valle, e dei paesi circonvicini ai due laghi di Sesto
e di.Massaciuccoli. Da osservazioni fisiche accuratamente
ripetute deducesi infatti, che se nella provincia Lucchese
non predominano malattie endemiche, e se molto rare sono
quelle chiamate dai medici steniche, predominano invece
le altre prodotte da soverchia debolezza. Vuoisi più spe-
cialmente avvertire, che fino a questi ultimi tempi furono
frequentissimi i cronicismi entro la città di Lucca, del pari
che le ostruzioni, la tise scrofolosa, le idropi, e ciò dipendeva
manifestamente dalV uso delle acque impure dei pozzi. I
Principi Baciocchi avevano emanato il provvidissimo decreto
di condurre entro Lucca dal vicino Monle Pisano un' acqua
n
-244
potabile : la duchessa Maria-Luisa volle che fosse continuata
quella grandiosa intrapresa, e il Duca figlio la condusse a
termine : Igeja ne esultò, e i cittadini lucchesi tramandarono
ai posteri eterna memoria di così utile beneficenza.
Addurrò in brevi note il carattere morale che distin-
gue i Lucchesi, essendo quale può bramarsi in un popolo
industrioso ed attivo. Indole tranquilla e bontà di costumi
sono infatti i primarii e quasi comuni pregii di tutti gli
abitanti della Valle del Serchio : la gioventù campestre
propende alle risse, ma ve la spinge il solo stimolo della
gelosia.
Il linguaggio dai Lucchesi usato, tranne pochi idiotismi,
molto si accosta alla pura lingua toscana ; se non che la
pronunzia può riguardarsi come eccezione specigca, perchè
accompagnata da nasale cantilena, specialmente nelle inter-
rogazioni : tal caratteristica è propria di ogni classe di
persone. Nel linguaggio comune dei Lucchesi si notano,
come in ogni altro paese, alcuni idiotismi e sbagli di pro-
nunzia, e questi in maggior o minor numero, secondochè è
più o meno colta la persona di condizione agiata che parla ;
si avverta bensì che tra gli idioti hanno un modo di pro-
ferenza e un fraseggiare cattivissimo quei della pianura, meno
ingrato e non tanto serrato gli abitatori delle colline, di
maggiore purezza e di grato accento i montagnoli. Nella
traduzione del consueto Dialogo si fa interloquire un Pa-
drone non tanto colto, ed un servitore nativo del piano,
solo perchè meglio conoscasi la massima difierenza del
vernacolo lucchese dal puro parlare toscano.
2i5
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
BD UN SUO SEBYITOHB.
Padrone. Ebbene, Batista,
hai tu eseguite tutte le com-
missioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città; ma
poi è piovuto tanto!
Padr. Che al solito sei sta-
lo a fare il poltrone in un'oste-
ria, per aspettare che'spioves-
se! E perchè non hai preso
r ombrello ?
Serv. Per non portar quel-
rimpiccio;epoijeri sera quan-
do andai a letto non pioveva
più, se pioveva, pioveva po-
chissimo : stamani quando mi
sono alzato era tutto sereno,
e solamente a levata di sole
si è rannuvolato. Più tardi si
è alzato un gran vento, ma
invece di spazzare le nuvole.
TRADUZIONE
NEL DIALETTO
LUCCHESE.
Padrone. Ebbene lista ai
fatto tutto quello che (ho detto?
Servitore. Gni posso dì
Sig. Padrone che ho fatto me-*
glio cK ho potuto. Tstamani alle
sei e un quatto ero già fuora
di casa, alle sette e meszo ero
a mesza via, e alle otto e tre
quatti ero alle porte, ma doppo
ha incomincio a piove tanto!
Padr. Che sei stato secondo
il solito a gingillarti (o'a lille -
rarti) in una osteria per aspet-
tar che restasse ! E perchè
non hai preso il paracqua?
Serv. Per un^ ave quel-
rompicelo, epò gliarsera quando
itti a letto non pioveva piti
goccia^ se pioveva, pioveva
piani piam, [stamani quando
ho sarto il letto era ber tempo,
e solamente ha comincio a an-
nuvolassi a levata di sole. Un
pò più taldi si è levato una
burasca di vento, che in cambio
* T/j in vece di non si usa generalmente dai Lucclicsi.
2U
ha portato una grandine che
ha durato mezz'ora, e poi
acqua a ciel rotto.
Padr. Così vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto quasi
niente di ciò che ti avevo or-
dinato ; non è vero ?
Serv. Anzi spero che ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
Serv. Nel tempo che pio-
veva mi sono fermato in bot-
tega del sarto, ed ho visto con
questi miei occhi raccomodato
il suo soprabito con bavero e
fodere nuove; i pantaloni colle
staflFe erano finiti, e la sotto-
veste stava tagliandola.
Padr. Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi .il
cappellaio e il calzolajo, e di
questi non ne hai cercato?
Serv. Si signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio , e non gli mancava
che orlare il nuovo. Il calzolajo
poi aveva terminati gli stivali,
le scarpe grosse da caccia, e
gli scarpini da ballo.
Padr Ma in casa di -mio
1 (li spassare ita fatto una gran-
dinata, th' ha duro mezz oi'a,
e pò doppo acqua a brocche.
Padr. Così vuoi farmi ca-
pirCy che non hai fatto quasi
niente di tutto quello che ti
avevo ordinato, un è vero?
Serv. Gniomò ; senta un
pò il giro eh' ho fatto in
du ore.
Padr. Sentiamo le tue bra-
vure.
Serv. Quando pioveva mi
sou misso in bottega del salto,
e ho visto co mi occhi il sii
soprabbito racconciato, col col-
Uno e frode nuove : la su giubba
e i carzoni co tiranti erin
foniti, e tagliava ir panciotto.
Padr. Benissimo; ma pei-
che non siei stato dalcappel-
laro, e dal calsolaro che era
lì accanto.
Serv. Ci son ito. Ir cap-
pellaro conciava ir su cappdh
vecchio, e a quer nuovo man-
cava di ollallo; il carzolaro pò
aveva fonilo gli stivali, gli
scalponi per la caccia e gli
scalpini da ballo.
Padr. Ma a casa di mi
ni
padre quando sei andato ,
che questo era l'essenziale?
Serv. Appena spiovuto,
ma non vi ho trovato né suo
padre, nò sua madre, né suo
zio, perché jeri l'altro andarono
in villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno sarà stata
in casa ?
Serv. No Signore, perchè
avevano fatta una trottata, ed
avevano condotto il bambino
e le bambine.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa ?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor
padre, la cameriera e due ser-
vitori erano con sua cognata,
e il cocchiere avendo avuto
r ordine di attaccare i cavalli
per muoverli, se ne era andato
colla carrozza verso Lunata.
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
Serv. Non vi ho trovato
che il garzone di stalla, ed
a lui ho consegnate tutte le
lettere, perché le portasse a
chi doveva averle.
1 Amena collina prossimi n Lucca, ove molti si recano per passeggio.
' Paesello di piano, colla cliiesa sulla via postale, a quattro miglia da Lucca:
passeggiala frequentata in estate dalle carrozze.
padre ci siei andato, che era
quel che più mi premeva ?
Serv. Subbilo ch'ha smisso
di piove, ma un e ho troto ne su
pà, né sii ma, né ir zio, perchè
glierlatroandorno incampagna,
e ci son rimasti anco a alberga.
Padr. Il mio fratelh però,
la sua moglie almeno saranno
stati in casa?
Serv. Gniornò; ai)evin fatto
una gita invelso Monsanquili-
ci,^ e ci avevin menato tutti
dii i bambori.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori?
Serv. // cuw era ito in
cixmpagna cor su padron; la
cambariera e du selvitori erin
iti colla su cugnata, e il cuc-
chieri cK avea uto 01 dine di
attacca t cavalli pe muovelli,
era ito colla carossa su per la
via di Lunata,^
Padr. Dunque in casa non
e era nessuno ?
Serv. Un cera proprio che
lo staglieri, e gni ho date tutte
le lettere perché le po^^talse
induve andavino.
UH
Padr. Meno male. E la
provvista per domani ?
Serv. L'ho fatta : per mi-
nestra ho preso della pasta, e
intanto ho comprato del for-
maggio e del burro. Per ac-
crescere il lesso di vitella,
ho preso un pezzo di castra-
to. Il fritto lo farò di cer-
vello, di fegato e di carciofi.
Per umido ho comprato del
majale, ed un' anatra da farsi
col cavolo. E siccome non
ho trovato né tordi, né starne,
né beccacce, rimedierò gon un
tacchino da cuocersi in forno.
Padr. E del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perché costava po-
chissimo. Ho comprato so-
gliole e triglie, razza, nasello
e aliuste.
Padr: Così va benissimo.
Ma il parrucchiere non avrai
potuto vederlo?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e cioccolata,
così ho parlato anche a lui.
PADR.Echenuovetihadate?
Padr. Meno male, e la
spesa per domani ?
Serv. L' ho fatta: pel mi-
nestra ho preso der pastume,
e intanto ho compro del cacio
e del butiro. Per accrescere il
lesso di vitella ho preso un
pelso di castrato^ e ir fritto lo
farò di celvello, di fegato e di
carcioffi. Per pietanza ho com-
pro della carne da comodassi
co cauli, e perchè un cerin
né toldif né staine, né occeggie,
la remedierò con una tocchina
cotta in nel forno.
Padr. E del pesce non ne
hai comprato?
Sert. Anzi morto, percJié
gostava poghissimo. Ho preso
delle sogliore, delle triglie, una
rasza, un nasello, e delle lo-
guste.
Padr. Benissimo: ma il
perrucchiere l'hai visto?
Serv. Gniorsì Vho visto,
e e ho parlato, perchè ha la
bottegdlR ^^^^^ ^ quella del
Droghieri, che e' ho compro der
succaro, der pepe, delle bul-
lette di garfoni, della cannel-
la, e della cioccolata.
PADR.CAe ììuove ti ha dato?
riO
Serv. Mi ha detto che
r Opera in musica ha fatto
furore , ma che il ballo è
stato fischiato; che quel gio-
vine signore suo amico perde
r altra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire con la diligenza
per Firenze. Mi ha detto pure
che la signora Lucietta ha con-
gedato il promesso sposo, e ha
fatto giuramento di non voler-
lo più.
Padr. Gelosie.... questa sì
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara tutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli miglio-
ri; tra i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
Serv. Mi ha itto che la
ommedia ha fatto furcyre, ma
che il hallo V han fischia ; che
che quel Signor suo amio Vartra
sera ha pelso ar gioco tutte le
scommisse, e che ora aspettava
d* andassene con la diligenza
a Fiorenza. Mi ha itto anco
che la Sig. Lucietta ha dato
ir baro ar sii damo, e ch'ha
giurato d un volello più vede.
Padr. Gelosie . . . questa st
che mi fa ridere ; ma pensiamo
ora a noi.
Serv. Se si contenta man-
gio una boccata, e beo un
bicchiel di vino, e pò torno
subbilo a su comaìidi.
Padr. A^ò; ho fretta e devo
andar fuori: senti prima gli
ordini, e poi mangerai e ti
riposerai qu^anto vuoi.
Serv. Gniorst.
Padr. Apparecchia per il
pranzo nel salotto buono. Piglia
la tovaglia e i salvietti più
fini; mette fuori il servito di
porcellana, e bada che non ci
fnanchi né scudelle né caba-
250
manchino nò scodelle, ne vas-
soj. Accomoda la credenza con
frutta, uva» noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Srrv. e quali posate met-
terò in tavola?
Padr. Prendi i cucchiai
d'argento, le forchette e i
coltelli col manico d'avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini sia-
no quelli di cristallo arrotato.
Accomoda poi intorno alla ta-
vola le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna. Tu
sai quanto è stucchevole quella
vecchia! Metti in ordine la ca-
mera buona, fa'riempire il sac-
cone e ribattere le materasse.
Accomoda il letto con lenzuola
efedere le più fini, ecuoprilocol
zanzatìere. Empi la brocca di
acqua, e sulla catinella disten-
di un asciugamano ordinario
ed uno fine. Fa' tutto in rego-
la, e la mancia non mancherà.
Serv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
rette, ne nulla. Prepara la
dispensa co' fiotti, coir uva,
colle noci, le mandorle, i dolci
e le bottiglie.
. Serv. E che posate e ho a
mette?
Vadvì.I cucchiai di argento
le forchette e coltelli col manico
d'avorio: bada bene che le
bocce, i bicchieri e bicchierini
sian quelli arrotati. Tomo tomo
alla tavola mettici le sedie
bone.
Serv. Gnorsi, sarà servito.
Padr. Ricordati che stasera
vien la nonìia. Già lo sai
come è pisigna quella vecchia I
Prepara la cammera buona; fa
riempire il saccone e rifare le
matrazze; rifa il letto con la
biancheria più fina, e metteci
la zenzaliera. Mette l'acqua
nella brocca, e sulla catinella
un tovagliolo ordinario e uno
fino. Fa le cose a modo e
avrai la mancia.
Serv. Per esse ini ha ot*-
dinato tante ose, ma farò
r ompossìbile.
251
AVVERTENZE SUL. VERNACOLO LUCCHESE.
In questi ultimi tempi si pubblicavano in Lucca certi Almanac-
chi intitolati il Goga, il Mercmeo, Brogio lo Sventra^ con erratissimo
scopo destinati ad uso del popolo. Anziché valersi di quel mezzo per
diffondere tra le classi meno istruite utili cognizioni, sull'esempio
laudevolissimo dell'altro lucchese Lunario II fa per tutti, piacque
agli autori dei precitati Almanacchi lo adoperare in quei loro meschini
e insipidi libriccioli un certo tal linguaggio, che i mariuoli delle strade
cambiano con altri plebei d* infima lega, e consistente in un accozzo
quasi convenzionale di viiiss'ime voci. Di quel fraseggiamento strano
e bizzarro addurremo qui varii esempi ; perchè se alcuno di quei
pessimi almanacchi anderà in mano di colti italiani, questi non sup>
pongano di trovare in esso il linguaggio popolare dei Lucchesi, e me-
ra vigliarsi a torto della differenza che passa tra il vernacolo usato
con tutta accuratezza nel nostro Dialogo, e i seguenti bisticci dei
Goga e dei Meremeo.
BrOGIO de TOCGAFONDI ALLE SIGNORE LEGGIARUOLE.
(( Buon d'i, er buon anno Bagasse. Arallegrativi sposzette e
9 fanciulle catrettaglie/ e anche voartre che un sete né fanciulle,
Q ne sposze, e che... ma ora lascian istà i mólti a taula. Arallegrativi
» donca, che se nimmo per un fino a qui un ha penso a chienivvi ^
» un pò un bricin diveltite con favvi una dediha d' un Armenacco
» ci ha penso Brogio de Toccafondi, ci ha penso. Dice er provelbio :
» Un restò mai ccdnaccia in beccarta, che nun venisse un can a
» poltalla via.
y> Mal pelcheije un siate stuprefatte a vedemmi S trogolo, vi
» farò apace dell' affare come glie e. Mi pà e mi ma, che si vo-
» levin beno, un facevin artro e che un velso, e anche er ^i si-
» prele,'^ a dimmi che avessi giudisio, pelchei e er mondo gira ;
* Ragazze dei Borghi, volgarmente delle Cairi.
- A tenervi. — ^ Zio prete.
252
D giria i pianelli, girin gli omini; i celvelli, e i' uzzanso, e callo
» dicevin beni dice anche er provelbio: Doppo tani'anni e tanti
» mesi l'acqua tolna a su paesxi. In somma la slrogolarìa; a vo-
» Iella vede funo i primi a liralla faora i peorari di Gillo; ma pò
A per esse lanlo buoni si lascìon melle la avessa da ciolladini, che
» a suoa di abole si rinvestitlia delie loro iragion, senza nemmanco
» pagalli ir gaudemìo.
» Donca bigna sape, che i cioUadini s*abbuzzon lanlo di uesta
» scensia, ne fellin lanle, e di lanli olori, che pijon per un On buono
» con esso ir diaule (sarvo si eia) e dovenlòno slregoni, dovenlòno.
1» Ma ir mondo ( e decchicci ^ alla ragion der siprele ) ir
» mondo gira ; fellin lanf imbrogli e bilbonale, che gli anlil padroni
» gli han mando la alucilà, e ora lolnino ar pozzezzo i conladini.
i> Elgo, un si polrà, mi giudio scandoliszà nimmo, se io ho
» lascio il salloglio e 'I colbello e la vanga, e se mi son bullo alla
» Slrogolarìa; popoe un ho fall*arlro che racquislà quer che ci aveo
» prelassion, e che mi si appelvieoiva di gliure. (Brogio de Toc-
» cafondi detto lo Sventra, antagonista di Meremeo) Almanacco per
» le signore Suburbane, per Tanno 1835. 9
Prenostio dell'anno mille ottocento uaranta.
a Òimmeglia !... uesta vorla ho sfaligato uanlo un cane, perchè
m* è sulcesso una disgrasia rediola. Àddivinale un pò (addivinate) ;
» uand'ebbi fallo il Lunario segondo ir solilo, lo mesurai (lo come
» si suol fare) e veddi che m' era riiscilo corlo, e un m^araccapes-
» savo che dianlin fussi sialo ; e lì dalli, mesura che li mesuro, me-
» surai lullo il mondo. Volsi provare perunfino anco nella slusia che
» aveva trovalo Meremeo uando faceva i Lunari: presi un bolticino
» di uelii delle laccìue, che me l'ero fatto dare anni sono da un
r> caciagliolo per fa cicceossi; ci levai i cerchi, e con quelli feci
» anch' io nel coso tondo che pare un trabiccolo, e che noaltri
)) Stroiai lo chiamamo ir Grobo, per lenello liccosì in sulla taula,
x> to' come tenghino i libbri su per i laulini taliduni. Presi l' arci-
fi pendolo, il braccelto, Iq tanaglie e lì tira, ma un c'era velso che
* Ed eccoci.
io3
» arivdssi. L'anno irìmaneva più longo del lunario; e un mi potevo
» pelsuadere di uest* affare; un mi c'andava. Di già se mai un
xr equivoho si può pia tutti; Terore un fa pagamento; tanto più
» eh' è la prima verta che mi c'imbatto. Pensa e ripensa mi vense
» a mente che il sig. Meremeo mi diceva che gni tanto capita un
)) anno più longo che Io cbiamin Bisestiale, perchè bisesta a motivo
» di febbraglio che gni tanti anni cresce d' un giorno, per via che
» gn' anno ir sole è a peso di calbone e coir avanzi si mette assieme
» un giolno dì più. Allora irifrettendo a questa osa, dedi un antra
» sborniata col Vapore e veddi ch'era propio il sig. febbraglio che
» mi spostava gni osa; e dissi addirittura, un' accor' artro, ci siamo;
)) ih quaranta è Bisestiale. Dedi un giolno dì giunta a febbraglio,
y> e feci bisestiale anco il Lunario e sta ben perappunto.
» C enne .di uelli che voglin propiare che il bisesto dà cattivo
» gurio per il frusso de' pianetti eccetera ; ma un date retta alle stre-
h garie, ch'en tutte soprescrissione ; istate pure al vostro posto; per-
» che io ho già mangiato ir tempo, e dal Gnestrin del cesso ho sbor-
» niato in d'un batter d'occhio la tera e ir celo, e ho visto tutto
D nel che poi esse. Però e vi diho in sulla mi parola, che le ose
lì indarano sempre per i su piedi segondo il su solito. A me un c'è
y) da dammi addintendere lucciore per lanterne; me un m'incabo-
9 lano!.«. Sono un certo fero, che un ve lo vorrei d\ s'un fussi
j> verol... Per inquantosa ricolti è guasi unutile che vi stia a dir
» nulla; tanto o pogo o purassai che ce ne sia è Io stesso, perchè
9 voglin vendere gni osa uanto gni pare. Nunistante, per aggravio
)} di oscenza, vi dirroe che il grano sarà bello e buono, e ce ne
» sarà purassai incrusibilmente per chi un ha in duve metello, perchè
» ce n' han sempre di vecchio, e nun pogo; ma un v' arallegrate nò,
» perchè i granaglieli e i fornari la voglin sempre a modo loro. Buon
y> prò gni facci come la polenta a gatti (salvando). Il vino poi un lo
» saprebbi recidere ; ma mi pare che ce n' abbi a esse tantetto anco
» di uello, s' un sulcedé disgrasie. A sentire i ontadini uand è un
» certo tempo, l' uva è bella e tanta, ma po' tutf in d' un tratto
» isparisce, e ign' anno diceno, che del vino ce n' è stato manco del-
l' l'anno avanti, e poi ce lo rinvecchiano, e bisognando bigna che
mi
alle fìae lo vendine allo stillo dell' acquevilìe. Uando poi è fn delle
mane delle Àntine, buon per chi ci casca. — Mi sa male che ci
casco anch'io!...
» Anco in dell' oglio un s' arebbe a sta lanto malaccio ; sal-
vando sempre nel che si deve salvare. Gli ulivi imprometten bene;
e per tutto i resto da un pò più a un pò meno un mancherà nulla
di tutto uel che ci bisogna. (Goga sulcessore del famoso Strolao
e Mattemathio Meremeo di Lucca — Armanacco a vapore per
r Anno Bisestiale 4840. »
ni'y
DIALETTO CORTONESE.
Come la valle della Magra servì di confine occidentale
tra i Liguri e TEtruria, così la valle della Chiana divise a
levante gli Etruschi dagli Umbri. Grandiosa è questa valle,
fisicamente feracissima, popolosa nei prischi tempi, siccome
ne fanno testimonianza le tre città che qui si trovano Chiusi,
Arezzo e Cortona.
Chiusi fu r antica e celeberrima sede del potente Por-
senna, ampia e fortunata città degli Umbri chiamò Dionisio
Cortona, poi capitale dei Pelasgo-Tirreni : ed Arezzo pure
è vetusta città nobilissima. Quando i Romani ebbero con-
quistata TEtruria, furono solleciti di aprire in questa valle
la bella via militare detta Cassia, lungo la bassa pianura,
parallela al corso del fiume primario; indizio certissimo
che nei primitivi tempi era il suolo sgombro di paduli, il
clima salubre. Ma le acqife avevano pendenza opposta a
quella che ora seguono. Giulio Obsequente parla di un la-
ghetto prossimo ad Arezzo da cui sembra prendesse origine
la Chiana. Strabene aggiunge che essa scendeva ad irrigare
l'agro di Chiusi, e Plinio dice che recava al Tevere tutte
le sue acque. Nella barbarie della tirannide Longobardica
incominciasi a trovar notizie di acque morte e di impadu-
lamenti: nel secolo XIII alcuni terreni erano ormai affatto
abbandonati perchè infrigiditi, né più sementabili. La Chiana
sempre più mancante d'impulso venne a formare un punto
di culminazione, e questo fiume prese il nome delle Due
Chiane : frattanto li storici ed i poeti di quei tempi dipin-
sero coi più tetri colori il tristissimo aspetto della valle ed
il miserando squallore degli abitanti.
Tentarono più volte gli Aretini di provvedere al risa-
namento di quella micidiale insalubrità: dal secolo XIV
n
256
al XVII i necessari bonificamenti non ebbero effetto: fu il
celebre Torricelli che gettò il prezioso germe di quei prin-
cipj idraulici, i quali dovevano riconquistare la perduta salu-
brità, per via cioè di colmate. Era riserbato al sommo in-
gegno di un celeberrimo mattematico, il Fossombroni, il
merito di prescrivere il vero piano idrometrico per rendere
questa valle un vero giardino di delizie.
In questa valle dunque, ove ai tempi di Dante
.... eran volti lividi e confasi,
Perchè Taere e la Chiana era nimica
trovasi ora una popolazione di fervido temperamento, di
vivace carattere, di sottile e facile ingegno, ospitale per
cordialità, cauta nelle operazioni, proclive per vero dire
alle risse, e alle difese assai pronta.
Per ciò che riguarda il Dialetto mi limiterò ad osser-
vare che gli abitatori della Val di Chiana si riconoscono
facilmente per un suono di pronunzia assai forte, special-
mente poi i più vicini alla valle Tiberina, i quali cambiano
molto spesso Va in ae, facendo però sentire più distinta-
mente la e; sembra infatti che dicano mele per male, preti
per joratf, e simili.
Ma in proposito della traduzione del mio Dialogo in
vernacolo Cortonese, da me prescelto perchè quella vetu-
stissima etrusca città è limitrofa all'Umbria, debbo rinno-
vare la stessa avvertenza su ciò che mi accadde prima in
Napoli e poi in Roma. Anche l'erudito e cortesissimo sog-
getto che prese l' incarico della traduzione in cortonese, erasi
limitato a tradurmi la parte del servitore, facendomi sapere
che i Cortonesi abbastanza provveduti di beni di fortuna
per tenere una persona al proprio servizio, parlano tutti il
vero italiano. Prevalendomi nella mia replica di argomenti
semplicissimi feci notare che anco nei Dialetti Fiorentino,
257
Pisano e Senese, il Padrone cadeva assai spesso nell' uso di
idiotismi: ciò bastò per eccitare il traduttore cortonese
a procacciarmi la versione nel suo vernacolo non solo col
linguaggio usato familiarmente dal Padrone di città, ma
con quello pure del Padrone campagnolo. Ed io mi appresi
al partito di pubblicare -l'uno e l'altro.
258
DIALOGO ITAUANO
TRA UN PADRONE
KD UN SUO SERVITORE.
Padrone. Ebbene, Bali-
sta, hai tu eseguite tutte le
commissioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino ;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città, ma
poi è piovuto tanto 1
Padr. Che al solito sei
stato a fare il poltrone in
un' osteria, per aspettare che
spiovesse 1 E perchè non hai
preso r ombrello?
Serv. Per non porta r quel-
l'impiccio; e poi jeri sera
quando andai a letto non pio-
TRADUZIONE
NEL DIALETTO
GORTONESE.
•Padrone Campagnolo. E
biene, Bista, he fatto quel che
t*ho ditto?
Padrone di Città. E baine,
Batista, he tu eseguite le com-
missioni che t'ho daeio?
Servitore. Gnor^, % posso
arsigurè vussignoria che sé stato
priciso piucchho pvduto. Sta-
mene a la sieje e un quarto
jero sinunge n cammina; a
le sette e mezzo jero a mezza
via, e a le otto e tre quarchie,
entreo n cita ; ma pu ha più-
vuto un buscano!
Padr. Camp. Che al sollito
sé stèlo a fere l' poltrone ntur
una sturia, per aspettò che
qmvesse: e perchè n he preso
r ombrello ?
Padr. Citt. Che al sollito
sé staeto a fare V poltrone in
una ostaria, per aspettaere che
spiovesse : e perchene n he
tu preso r ombrello ?
Serv. Pre n portare quelo
mpiccio: e pù jarsera quando
vitti a letto, nun piovea piùy o
2o9
veva più, se pioveva, pio-
veva pochissimo : stamani
quando mi sono alzato era lut-
to sereno, e solamente a leva-
la' di sole si è rannuvolato.
Più lardi si è alzato un gran
vento, ma invece di spazzare
le nuvole, ha portato una gran-
dine che ha durato mezz'ora,
e poi acqua a ciel rotto.
Padr. Così vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto qua-
si niente di ciò che ti avevo
ordinato; non è vero?
Serv. Anzi spero che Ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr. Sentiamo le lue pro-
dezze.
Serv. Nel tempo che pio-
veva mi sono fermato in bot-
tega del sarto, ed ho visto
con questi miei occhi racco-
modato il suo soprabito con
bavero e fodere nuove ; i pan-
taloni colle staffe erano finiti, e
se piovea, piovea queso gnicnle :
stamane quando me si'glievalo
jera tutto sereno, e solamente
al glievè del sole s è arnuvi-
glieto. Più tardo s'è glieveto
un vento del dimogno, ma in-
vece de spazzere le ìiuveglie,
ha menèto una grandene, ch'ha
dureto mezz ora, e pù acqua
a bigoncie. ^
Padr. Camp. A sto moudo
me rm fé capire de n her fatto
guèso nuelle de quel che t' heo
ordenetOy sì è vera?
Padr. Citi. Cosie vò farme
antendere de n'aer fatto niente
de quel che ti avevo ordinaeto,
né vera?
Serv. Anze tengo fidanza
che vussignofia sirà contento,
quando sapparà V giro che ho
fatto per cita in do oì*e.
Padr. Camp. Sentino le tu
bravure.
Padr. Citi. Sentino le" tu
prodezze.
Serv. N'tul tempo che pio-
vea me so fermeto n butiga del
sarto, e ho visto con queschie
mi occhie arcommodato el vostro
soprabbeto con bavero e fuedere
nove; la vostra giubba nuova
i calzogne' cn le staffe jerono
Padr, Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo, e il calzolajo, e
di questi non ne hai cercato?
^00
la soltoveslc slava tagliandola. | finiclnc, e 7 corpeHo l tagliia
! alerà alerà.
Padr. Camp. Tanto più.
Ma ci haee pure a puochie
passie r cappellio e T calzolio,
e de queschie tu nhe cercheto?
Padr. Cìtt. Ma avevi pure
a pochi passi il cappellajo e
il calzolajo, e di questi tu
n he cercacelo?
Serv. Gnorsx: V capellio
arpulia l vostro capéllo vecchio
e n glie manchea che orlere
V nuovo. L calzolio pu aea
finichie i stivaglie, le scarpe
grosse da caccia, e i. scarpigni
da ballo:
Padr. Camp. Ma n chesa
del mi babbo quando ce sé
Vito, che questo jera V più
nicisserio ?
Padr. Citi. Ma in caesa
del mi paedre quando se tu
andaeto, che questo era l'es-
senziale ?
Serv. Subbetospiuvuto, ma
nun n ho troveto né l' vostro
babbo né la vostra mamma,
né Vvostro zio, perchè jer V altro
vetteno n villa e ci han prinottà.
Padr. Camp. El mi fratello
però, e la su moglie almanco
sirà stèlo n chesa?
Serv. Sì signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio, e non gli mancava
che orlare il nuovo. Il cal-
zolajo poi aveva terminati gli
stivali, le scarpe grosse da
caccia, e gli scarpini da ballo.
Padr. Ma in casa di mio
padre quando sei andato,
che questo era l'essenziale?
Serv. Appena spiovuto, ma
non vi ho trovato né suo padre,
né sua madre, né suo zio, per-
chè jeri r altro andarono in
villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno sarà stata
in casa?
2fM
Serv. No signore, perchè
avevano fatta una trottata, ed
avevano condotto il bambino
e la bambina.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa ?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor pa-
dre, la cameriera e due servi-
tori erano con sua cognata, e
il cocchiere avendo avuto l'or-
dine di attaccare i cavalli per
muoverli, se ne era andato col-
la carrozza.
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
Serv. Non vi ho trovato
che il garzone di stalla, ed a
lui ho consegnato tutte le let-
tere, perchè le portasse a chi
doveva averle.
Padr. Meno male. E la
l^rovvjsta per domani ?
Padr. Cut. El mi fratello
però, la sii moglie almeno
sarà staeta in casa?
Serv. Gnomo, perchè cono
fatto ìia trottata, e menèto
fpichino e la pichina.
Padr. Camp. Ma la simrò
jera tutta fuor di chèsa?
Padr. Citi. Ma la servitù
era tutta fuori di caesa?
Serv. L' cuoco jera vito
n campagna col vostro babbo,
la cambiriera e do' servitone
jerono co la vostra cugneta, e
t carmhiere cK ea auto V or-
dine d^atacchere % cavaglie, per
muoverghe, se ti jera vito co
la carrozza a trotterà.
Padr. Camp. Dmiqua la
cìièsd jera vota ?
Padr. Citi. Donqua la
caesa era vota?
Serv. Nun ci ho troveto
che l' garzone de la stalla,
e a lu ho consegneto tutte h
littrCy perchè le portasse a chi
dovea avelie.
Padr. Camp. Meno mele:
e la pruvista per domene ?
Padr. Citi. Meno maele:
e la provvista j^er domani?
2G:>
Serv. L' ho fatta : per
minestra ho preso della pa-
sta, e intanto ho comprato
del formaggio e del burro.
Per accrescere il lesso di vi-
tella, ho preso un pezzo di
castrato. Il fritto lo farò di
cervello, di fegato e di car-
ciofi. Per umido ho compra-
to del majale, ed un anatra
da farsi col cavolo. E sicco-
me non ho trovato né tordi,
né starne, né beccacce, ri-
medierò con un tacchino da
cuocersi in forno.
Padr. e del pesce non ne
hai compralo?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perchè costava po-
chissimo.Ho comprato sogliole,
triglie, razza, nasello e aliuste.
Padr. Cosi va benissimo.
Ma il parrucchiere non lavrai
potuto vedere?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, ga-
Serv. L'ho fatta: per me-
nestra ho piglielo la pasta, e
*ntanto ho compreto V chescio
e V burro. Per crescere V lesso
de vitella ho piglielo un pezzo
de castreto: el fritto V farò di
ciaravello, de feggheto, e de
scarcioffie: per l'ummedo ho
compreto V maele e unannelra
da fasse col cavelo: e siccome
n ho troveto ne lorghie, né
starne, né beccacce, arimediar ó
con un billo de cuoccse n lui
forno.
P.-^DR. Camp. E del pescio
n he preso punto ?
Padr. Citt. E del pescio
noìi ne hai compraeto?
Sery. i4njse n ho preso un
buscariOy perchè n costia gueso
ivelle: hocompreto soglie, triglie,
razza, nasello e aliuste.
Padr. Camp. A sto modo
va binissimo: ma l' pilucchiere
n haré puduto vedello ?
Padr. Citt. Cosie va be-
nissimo. Ma el perrucchiere
n arai potuto vederlo?
Serv. Anzi sicome ha la
butiga acanto a quela del dm-
ghiere, ducché ho pruvislo lo
ziwcherOf pepe, ganifegne, co-
263
rofani, cannella e cioccolata,
così ho parlato anche a lui.
Padr. e che nuove li ha
date ?
Serv. Mi ha detto che
r opera in musica ha fatto
furore, ma che il ballo è stato
fischiato ; che quel giovine
signore suo amico perde l' al-
tra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire colla diligenza.
Mi ha detto pure che la si-
gnora Lucietta ha congedato
il promesso sposo, e ha fatto
giuramento di non volerlo più.
Padr. Gelosie.... questa sì
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
. Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
nella e cioccholita, cusì ho
discurso anche con lu.
Padr. Camp. E che nuove
t* ha dete ?
Padr. Citt. E che nuove
ti ha daele?
Serv. M'ha ditto che la
commedia a muzzeca ha fatto
furore, ma che V hallo V han
fischièto; che quel giovanotto
signore che è V vostro amico,
perse V altra sera al giuoco
tutte le scomesse, e che mo
aspettia de vissene a la prima
ooasione. M'ha ditto ncora che
la signora Lucietta Ita man-
deto a spassi V su spuoso pro-
messo, e ha fatto giuramento
de n(m n lo voli vede più.
Padr. Camp. GiUusie ....
questa sie che me fa ridere,
ma penseno mo a nò.
Padr. Citt. Gelosie ....
questa sie che mi fa ridere, ma
pensiaemo ora a noi.
Serv. Se vussignuria se
contenta, magno npuoco de
pene e beo un bicchiei* de
vino, e avvengo subbeto a pi-
gliere i vostrie comanghie.
Padr. Camp. Siccome ho
fretta e devo vire fuer de
chèsa, sta a sin ti prima quel
26 i
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara lutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli migliori;
tra i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
manchino né scodelle, né vas-
soj. Accomoda la credenza con
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Serv. E quali posate met^
terò in tavola ?
Padr. Prendi i cucchiai
d* argento, le forchette e i
coltelli col manico d' avorio,
che f ordeno, eppù mangiare
e tarposarè quanto tepiaciarà.
Padr. Cut. Sicome ho fretta
e devo andaere fuor di casa,
senti prima cosa ti oì'dino,
eppoi mangerai e ti nposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comanda pure.
Padr. Camp. Pel pranzo
che s Ita fere, amannisce tutto
n tul salotto buono. Piglia la
tovaglia e i tovagliuoglie meglio;
tra i piaechie acappa. queglie
de bercellena, e teda che min
mancheno né scudelle né vasoja.
Aeommeda la credenza coi
frucchie, uà, noce, mandele,
dolcie, confitture e buttiglie.
Padr. Citi. Pel pranzo che
dobbiamo fare, prepara tutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli migliori;
tra i piatti scegli quegli di
porcellaena, e procura che rmi
manchino scodaelle né vassoi.
Acommida la credenza con
frutti, uva, noci, amandole, dolci,
confetture e bottiglie.
Serv. E che poséte met-
tarò n tivela ?
Padr. Camp. Piglia i cuc-
chierie d' argento, le furcine e
icolteglie col manneco d'avorio,
205
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini siano
quelli di cristallo arrotato. Ac-
comoda poi intorno alla tavola
le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta sera . viene mia nonna.
Tu sai quanto è stucchevole
quella vecchia! Metti in ordi-
ne la camera buona, fa' riem-
pire il saccone e ribattere le
materasse. Accomoda il letto
con lenzuola e federe le più
fini, e cuoprilo col zanzariere.
Empi la brocca di acqua, e
sulla catinella distendi un
asciugamano ordinario ed uno
fine. Fa' tutto in regola, eia
mancia non mancherà.
e arcordete che 'le boccie, i
bicchierie e i bicchirigne sieno
queglie de vetro arotèto. Acom-
meda pù ritorno a la levela
le siede le meglio.
Padr: Citi. Prendi i cuc-
clìiaei d'argento, le folcine e
i cultelli al manncio d' averio,
e ricordati che le bocce, i bic-
chieri e i bicchierini sieno quelli
di vetro arroieato. Accommida
poi intorno alla taevola le sedie
migliori.
Serv. Vussignuria sirefe
sirvito appuntino.
Padr. Camp. Arcordete che
stisera viene la mi nonna: tu
Vse quanto è stucchevegliequela
vecchia. Mette noì^dene la che-
mera buona. Fa animpire
V saccone e arbattere % ma-
tarazza. Acommeda V letto coi.
linzuoglie e le fuxdere più fine
e cuoproh co lo zanzaniere.
Empie la brocchela d' acqua,
e ntu la cattinella distende uno
scingamene ordenario e uno
fino. Fa tutto n reguela e la
mancia ce sirà.
Padr. Citi. Ricordati che
stisera viene la mi nonna. Tu
sai quanto hene stumacchevole
quella vecchia. Metti in ordine
L
26G
Serv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
la camera buma, fa riempire
il saccone e aribattere i ma-
terazzi. Acomida V letto con
linzuoli e fodere le, più fiìie,
e coprilo con lo zanzariere.
Empi la broccola d'acqua, e
sulla cattinella distendi uno
sciugamaeno m^dinaeiio e uno
fino. Fa tutto in regola e la
mancia non mancherane.
Serv. Per virità vussignu-
ria m'haete ordeneto un diavilio
de cuose, ma stiri fatto gni
cuosa.
:^.()7
DIALETTO FIOUEi\TIi\0
CON ILLUSTRAZIONI ETNOLOGICHE.
Eccomi ormai nella dura ma inevitabile necessità di
rientrare nel campo spinosissimo delle dispute letterarie !
Diedi già un cenno dell' antica pretesa di alcuni filologi
italiani di voler negare il primato, in fatto di lingua, ai
Toscani e più special ipente ai Fiorentini ; pretesa tanto più
ridevole e vana, ogni qualvolta -il punto della .controversia
non dipende dall' opinione, ma dal fatto ; ragione in forza
della quale i Toscani più assennati, contenti della eloquen-
tissima evidenza, non presero gran parte al conflitto che
modernamente si riaccese.
Volete chiamare italiano il beU'idimna? chiamatelo pur
così, sebbene ignorare non possiate le sentenze auto-
revolissime che vi contrariano. L' Alighieri chiama or to-
scana or fiorentina la lingua della Divina Commedia:
Ed un che intese la parola tosca (/«/"., e. 23)
Io non so chi tu sia, ne per qual modo
Venuto se' quaggiù, ma fiorentino
Mi sembri veramente, quand' io t'odo. (fvù e. 33)
E il Boccaccio, n^lla vita di Dante, aggiunge: « Scriverò
» in istile assai humile e leggero, perocché più alto non me]
» presta l'ingegno, nel nostro cioè fiorentino idioma. » E più
avanti parlando di Dante: « Compose, ei dice, un cemento
» in prosa in fiorentino idioma, sopra tre delle sue canzo-
» ni. » Nella Giornata IV poi, novella 3* del Decamerone sog-
giunge : « Il che assai manifesto può apparire a chi le pre-
» senti Novelle riguarda, le quali non solamente in fioren-
» tino volgare ed in prosa scritte per me sono, ma ancora
268
» in istile umilissimo. » Venendo poi al Tasso è noto ciò
che scrisse nella sua maggiore Opera:
Giidippe ed.Odoardo, i casi vostri,
Duri ed acerbi, e i fatti onesti e degni
(Se tanto lice ai miei toscani inchiostri)
Consacrerò fra pellegrini ingegni. [Gerus., e. 20j
Troppo in lungo mi trarrebbero le tante altre citazioni
che registrar potrei alle già addotte congeneri, e prove-
nienti tutte da soggetti autorevoli. Non si può quindi
facilmente render ragione della imperdonabile dimenticanza
in cui caddero ai giorni nostri il Perticari ed il Monti, di ciò
che avevano con tanta chiarezza e verità pubblicato il Mu-
ratori e il Salvini.
Infastidito il Salvini delle gare letterarie per cagione
di lingua suscitate, nelle Note alla perfetta Poesia del Mu-
ratori disfogavasi colle seguenti parole dal cel. Niccolini chia-
mate magnanime: « Or perchè tanto armarsi contro di noi, o
» Italiani; e quella lingua, le cui ricchezze noi non conosce-
vamo, e che voi i primi avete posto in luce, e bella e cara
rendutala, e in cui con tanta vostra gloria avete scritto, rin-
negate ora, per così dire, e più non conoscete? Non vo-
gliate disputare del nome, quando del soggetto medesimo
voi tenete così gloriosamente il possesso. Ella è toscana,
ma per questo non resta d essere italiana. Toscana la volle
la sua grammatica, i suoi primi famosi autori, il suo ter-
reno, il suo cielo, che con più particolare cortesia Y ha
riguardata. Ella è italiana, perchè voi foste i primieri che
la regolaste, che precetti ne deste, e che tuttavia coi rari
e molti e maravigliosi componimenti vostri la coltivate
e l' arricchite. I vostri natii dialetti vi costituiscono cit-
tadini delle sole vostre città : il dialetto toscano, appreso
da voi, ricevuto, abbracciato, vi fa cittadini d'Italia, poiché
2G9
» egli di particolare viene ad esser per le vostre diligenze
» comune ; e l' Italia, di regione di più e stravaganti climi
» e lingue che la moltitudine e stravaganza di quelli se-
» guono, non più un paese in più città e dominj partito,
» ma una città sola d' una sote lingua addiviene : il che
» non poco contribuisce a potere essere d'un solo spirito
» e d'un cuore, per quell'antico valore riprendere che ne-
» gf italici cuor non è ancor moi^to. Che non si può dire quanto
» la comunione dell' idioma leghi in iscarabievole carità, e
» sia come un simbolo e una tessera d'amicizia e di fra-
» tellanza. Il fare questa unità di lingua, che poi influisce
» neir unità degl'animi, necessaria al bene essere degli
» uomini, delle case, degli stati, a voi tocca, o letterati,
» dotti, dei quali fertilissimo è stato sempre, e sarà
» quel bel paese eh' Appennin parte, e il mar circonda e
y> l'Alpe. Voi col coltivarla, coli' esercitarla, con iscrivervi
» e trattarvi materie d'ogni ragione, necessaria la rende-
» rete ed invidiabile alle altre nazioni, che vedendo in essa
» uscir tuttora alla luce libri pieni della gravità e del giu-
» dizio italiano, cresceranno le loro premure in appren-
yy derla, e nostre coli' affezione si faranno e col genio, e il
» bene e 1' accrescimento nostro vorranno. »
Cosi esprimevasi T egregio Salvini, ma il Muratori
specificava ancor più chiaramente il vero motivo delle let-
terarie questioni, che fino dalla fondazione dell' Accademia
della Crusca, or son tre secoli, più volte si riaccesero per
brame indiscrete di unirsi in confederazione coi Toscani, nella
riforma di quel codice di irrefragabile autorità, che sarà
sempre venerato benché imperfetto : diasi ascolto alle sen-
tenze di quel venerando eruditissimo filologo.
« Merita assaissimo esser commendata là diligenza degli
» Accademici della Crusca, per opera dei quali abbiamo un sì
» ricco Vocabolario, che può servire di scorta a chiunque
270
» brama di leggiadramente scrivere e parlare in italiano.
» Ed io non so punto approvare la ritrosia di alcuni, che
)) non solamente sdegnano di accordarsi colle leggi di quella
» dotta e famosa Accademia, ma per poco l'accusano eziandio
» di alterigia, qUasi col suo Vocabolario eir abbia inteso di
» farsi per forza l'arbitra dell' italiana favella, e voglia porre
» in credito ora il rancidume di alcuni vecchi autori, ora
» certe voci e locuzioni, proprie del solo popolo di Firenze.
» Ma poco giuste nel vero son le querele di costoro. Se
» nel Vocabolario della Crusca sono raccolte non poche pa-
» role disusate, rozze e barbare, che si scontrano per le
)) scritture de' vecchi autori, ciò necessariamente dovea
» farsi per ispiegarle, e non già per consigliarne l'uso conie
» chiaramente protesta l Accademia medesima. Cosi ne'vo-
» cabolarj latini si rapportano i rancidumi d'Ennio, di
» Plauto e d'altri antichi, acciocché se n'intenda il senso
» nei libri già fatti, non perchè, in iscrivendo latino, que-
» ste s' adoperino. Parimente sono seguitate talvolta nel Vo-
» cabolario * suddetto alcune voci e modi di favellare
)) propri del solo volgo di Firenze, perchè mancano gli
» esempi de' letterati per ispiegair qualche cosa. Né dee
» sdegnar taluno, che ove manchi l'autorità dei dotti, piuttosto
» si proponga l' uso del parlare fiorentino che alcun altro,
» essendo finalmente quel dialetto il più gentile, il più
» nobile, e il men corrotto fra gli altri dialetti d' Italia ; e
» noi DA ESSO RICONOSCIAMO IL MEGLIO DELLA NOSTRA LINGUA.
» E non per questo si attribuisce quelV Accademia una piena
» e sovrana signoria sopra la lingua italiana. ^ Era troppo
1 u II Vocabolario è tesoro di tutte le voci antiche e moderne, di prosa, di
» verso, illustri, serie, burlesche, capricciose. E va maneggiato con discernimento d
» con ìscclta. I modi di favellare, propri del solo volgo di Firenze, aiutano talora
» r intelletto degli scrittori nobili ; e in giocoso componimento possono uiilemente
» essere impiegati, e servirò per le origini, ed etimologìe. » (A. M. Salviki.)
^ « Niuna Accademia si può attribuire piena e sovrana signoria sopra una
i> lingua, y.' «50 del popoìOf che la parla, è il sacrano padrone. » (A. M. Salvini.)
271
» necessario all'Italia un tal Vocabolario, in cui si adunas-
» sero e spiegassero le voci e locuzioni più belle, più usate,
» e più pure della nostra lingua; e per mezzo di cui si
» ponesse freno a certi scrittori, che si fan lecito di scrivere
» e favellare senza veruna scelta di vocaboli e frasi italiane.
» E A CHI MEGLIO SI CONVENIVA IL COMPOR QEEST OPERA, CHE
» A Toscani, e specialmente a Fiorentini? La provincia e
» la città de' quali, oltre la leggiadria del dialetto, ha la
» gloria d'aver prodotto i migliori padri della lingua. Ra-
» gion dunque vuole che s'ami, e stimi, e lodi la diligenza
» e fatica della dottissima Accademia della Crusca, siccome
» quella, che sicuramente è il miglior tribunale dell'italica
» favella. » [Della perf Poesia, voi. II, lib. Ili, pag. \01^
108, 109.)
Subitochè due autorevolissimi scrittori, come il Mu-
ratori e il Salvini, si erano espressi con ragionamenti sì
chiari e s\ giusti, dovea conseguirne che altrettanto faces-
sero i più accreditati scrittori nostri contemporanei. Nelle
pagine àéìV Antologia del Vieusseux, prezioso tesoro di no-
tizie scientifico-letterarie, si trovano disseminate dottissime
glosse sull'Italiano idioma del Niccolini, dell' ab. Zannoni,
del March. G. Caj^oni, e degli antichi carissimi amici Ur-
bano Lampredi, Antonio Benci e il Montani; ai quali ag-
giungerò di buon grado anco il Grassi, che con disappas-
sionato candore ripeteva, poch'anni or sono, esser presun-
zione anzi temerità ad uno scrittore non toscano il dettar
canoni sulV uso corrente delle voci italiane, lontano dalla fe-
licissima Toscana, nella quale per giusto privilegio di circo-
stanze fisiche e morali scaturiscono perenni le purissime fonti
della lingua parlata e si conservano le vive testimonianze
della lingua scritta ! Non ignoro che in onta di si gr«vi
sentenze e di proteste cotanto autorevoli ricomparve di
tratto in tratto sul campo un qualche nuovo Ajace, che con
L
S72
animo predisposto al tenzonare, andò provocando il fioren-
tino consesso degli Accademici destinati a mantenere la pu-
rezza del gentile idioma : né manca anco al dì d' oggi chi
canti i giambi ai custodi del frullone e del vaglio, per ca-
gionar loro imbarazzo nel gran lavoro che vanno perfezio-
nando : ciò a nulla monta.
A tutta la pertinacia di tante ostilità letterarie hanno
i Toscani il privilegio di poter contrapporre una replica
semplicissima, del pari che invincibile. Tutti quei che sor-
tirono i natali in riva all'Arno e all'Ombrone, se conser-
veranno il linguaggio succhiato col latte, con alcune modi-
ficazioni nella pronunzia e con poche correzioni di idiotismi,
verranno a far uso, senza accorgersene, deir italico idioma
in tutta la sua purezza; mentre ogn' altro abitatore della
penisola dovrà passare lunghe veglie nello studio dei To-
scani scrittori, né potrà dettar periodo senza assicurare le
voci impiegate con la consultazione del fiorentino Dizionario,
dalla autorità del quale tenterà sempre invano di eman-
ciparsi.
Ma r amore del natio luogo non mi fa velo alla ra-
gione. Anco tra i Toscani, siccome accade in ogn' altra re-
gione di discreta ampiezza, sono notabili alcune differenze
nella loquela volgare: delle principali tra esse darò il con-
sueto saggio con la traduzione dell' adottato Dialogo nei tre
vernacoli Fiorentino, Pisano e Senese ; premettendo di più le
seguenti sommarie osservazioni sopra le specialità nella pre-
ferenza usate dagli abitanti delle diverse valli o provincie,
facendone a tal uopo una rapida perlustrazione.
Fra gli abitanti del territorio toscano, che per lungo
tempo si chiamò distaccato, influì sul linguaggio V imme-
diata comunanza coi limitrofi ; di ciò faccian fede i modi
usati nel territorio Transpennino. Nella valle del Reno bo-
lognese il vernacolo accostasi al Pistojese : in quella del
273
Santerno al fiorentino : in tutte le altre poi è imitato più
o meno Yuso romagnolo di troncare i vocaboli e di cam-
biare la e in z. Anche nei villaggi più settentrionali di Val
Tiberina si troncano i vocaboli, e se ne abusa il significato
come nella confinante Romagna : ma la proferenza ivi è
men disgustosa di quella usata nella bassa valle, ove ac-
compagnasi con fastidiosa cantilena, e 1' a cambiasi in e con
tale abuso da pervertire le parole nel modo più straordintrio.
Nella prima valle irrigata dall'Arno è caratteristico un
suono aspro e forte nella pronunzia, la quale viene accom-
pagnata da un certo intercalare, massime nella fine dei pe-
riodi, che ben fa riconoscere i Casentinesi dagli altri To-
scani, e più facilmente le persone volgari ; le quali sono
altresi solite a far uso della i in luogo di certe vocali, di-
cendo per esempio tnnni per venniy incomido per incomodo, e
simili. Della prossima valle di Chiana fu dato un cenno nel
parlare del Dialetto Cortonese.
Nel Val d' Arno di sopra, la pronunzia è al tutto simile
a quella usata nel fiorentino suburbio : alcune poche voci
altera il volgo, come vegghi per vedi, alcune antiquate ne
conserva il contado, siccome quinammii, quinavalle, per
lassù alto, e laggiù basso. Altrettanto dicasi degli abitatori
di Val di Sieve, poiché il loro accento manifestamente con-
ferma la tradizione storica, di avere essi fatto parte del
contado fiorentino fino dall' origine della toscana favella, la
quale ivi infatti si usa come nelle vicinanze dell'antica ca-
pitale. Formano anzi eccezione grata all'udito gli abitanti
della predetta bassa valle della Sieve, ove incominciasi a
lasciare la dispiacevole aspirazione delle consonanti.
È questo il vizio innegabile di pronunzia comune al
popolo di Firenze e delle circonvicine campagne; il quale
però non abusa il significato della parola, poiché
L'idioma p;cntil suonante t puro
271
tra esso nacque e solamente tra esso mantennesi nella sua
purezza. Il vernacolo dei Pistojesi varia poco dal fiorentino;
pochissimo quello dei Pratesi. Pronunziano i primi assai
larga la o in alcune voci, ed alla s danno spesso il suono
della z: cambiano i secondi in e la f posta tra due vocali
in fine delle parole, e talvolta la / in r, dicendo per esempio
sordaco per soldato. In generale però gli abitanti del Val-
darrK) Fiorentino non alterano il suono delle vocali, non
mutano l'accento alle sillabe, non cambiano il significato
delle parole, e queste son sempre attinte, con naturale
spontaneità, alla pura sorgente del predetto gentile idioma.
Nelle due contigue valli della Nievole e dell'Elsa imi-
tano gli abitanti la pronunzia dei popoli più vicini alle lo-
calità ove tengono il domicilio. Odesi infatti sulle rive della
Nievole V accento pistoiese ; in Bientina e nelle adiacenze il
lucchese; nel Valdarno inferiore il pisano; presso Capraja
il fiorentino. Altrettanto dicasi degli abitanti di Val d'Elsa^
e delle limitrofe valli minori. I più vicini in fatti alla Mon-
tagnola propendono al vernacolo e alla preferenza dei Senesi^
siccome quei della bassa Evola e della Cecinella imitano
i Pisani, mentre in tutto il rimanente del territorio è usato
il dialetto fiorentino; anzi è da notare che in riva all'Elsa
odesi pronunziare con molta correzione e con grato suono.
Il vernacolo pisano è facilissimo a distinguersi dall'uso
assai frequente che fa la plebe della r per /, dalla pronun-
zia aperta di alcune vocali, dalla totale soppressione della
e in mezzo alle parole, e da una certa speciale cantilena.
In vai d'Era e in Val di Cecina, e nelle colline tra esse
interposte, non odesi che V accento pisano ; la plebe Livor-
nese forma notabile eccezione con un tal fraseggiare, di cui
darò saggio nelle Avvertenze poste in fine a quell'articolo.
Ricorderemo finalmente che fu soggetto di calde dispute
tra i letterati del secolo decorso, se in Firenze ossivvero
in Siena fosse parlato il linguaggio più puro. Senza ricor-
275
rere a vane questioni grammaticali può asserirsi con sicu-
rezza, che il modo di pronunziar dei Senesi, facilissimo a
distinguersi parzialmente pel frequente suono di z che essi
danno alla s, riesce altrettanto grato airorecchio, quanto
dispiace Y aspirazione fiorentina delle consonanti ; ma i*Se-
nesi adoprano voci e frasi non conosciute né ammesse nel
toscano linguaggio, mentre vien questo usato in Firenze in
tutta la sua purità.
270
DIALOfiO ITALIANO
TRA UN PADRONE
ED UN SUO SERVITORE.
Padrone. Ebbene, Batista,
hai tu eseguite tutte le com-
missioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città; ma
poi è piovuto tanto!
Padr. Che al solito sei sta-
to a fare il poltrone in un'oste-
ria, per aspettare che spioves-
se! E perchè non hai preso
r ombrello ?
Sbrv. Per non portar quel-
l'impiccio; epoijeri sera quan-
do andai a letto non pioveva
più, se pioveva, pioveva po-
chissimo: stamani quando mi
sono alzato era tutto sereno,
e solamente a levata di sole
si è rannuvolato. Più tardi si
è alzato un gran vento, ma
invece di spazzare le nuvole,
ha portato una grandine che
TRADUZIONE
NEL DIALETTO
FIORENTINO.
Padrone. Ebbene, Bista,
ha' tu eseguite tutte le com-
missimii eh' % ( ho date ?
Servitore. Gnor si; e posso
assicuralla d'essere stato pun-
tubale più cKiho potuto. Sta-
mattina alle sei e un quarto
% camminavo di già; alle sette
e mezzo ero a mezza via, e
all' otto e tre quarti entravo in
città; ma poi gli è piovuto
tanto I
Padr. Che al solito tu
se' stato a fare il poltrone in
un'osteria, per aspettare che
gli spiovesse! E perchè non
ha' tu preso V ombrello !
Serv. Per non portar quel-
l'impiccio; epoijer sera quando
ime n andai a letto e non
pioveva più, o se e pioveva
spruzzolava appena; stamani
quandi' mi son levato era ogni
cosa sereno, e solamente all'al-
zata di' ssole e' s'è rannuvolato.
Più tardi e sé levato un vento
che portava via, ma invece
di spazzar le nuvole, ha fatto
877
TRADUZIONE
NEL DIALETTO
PISANO.
TRADUZIONE
NEL DIALETTO
SENESE.
Padrone. Ebbene, lista,
hai fatto tutte le commissioni
che (ho dato?
Servitore. Mi creda sor
padrone mio che ho cercato
d'esse più puntuale che ho
possuto. Stamattina alle sei un
quarto ero già fora; alle set-
iemmezzo avevo fatto mezza
strada e all'otto e tre quarti
entravo n Pisa; ma che acquea
che è venuta !
Padr. St . , .a crederci !
Sarai stato bene a fare una
sbicchierata in un osteria per
aspettare che spiovesse ! O per-
chè minai preso V mnbrello ?
Serv. Per non portar quel-
l impaccio; e pò iersera quan-
d'andà a letto -non pioveva più,
piovicinava un popò; sta-
mattina quando mi son levato
era una giornata di paradiso:
Pò doppo quand' è venuto er
sole e sé riannuvolato. Più
tardi poi ha tirato un vento,
un vento che mai, ma 'n vece
di porta via e nuvoli, apriti
Padrone. Ebbene, lista,
hai tu eseguite le commissioni
che ti ho date?
Servitore. Gnor sì. Lei po'
sta sicuro che ho fatto tutto
quer che ò possuto. Stamani
a le sei e un quarto ero in
giro ; a le sette e mezzo ero a
mezza strada, e a V otto e tre
quarti entravo drente in città;
ma poi si è piovuto tanto !
Padr. Cìie al solito siei
stato a sbirbare in un'osteria
per aspettare che spiovesse ?
perchè non hai preso l' om-
brello ?
Serv. Per un porta que
l'impiccio; e poi jarsera quando
andiedi a letto un pioveva, o
si pioveva, pioveva a malap-
pena: stamani quando mi so
levo era ber tempo, artro che
quando s'è levo er sole s'è'
rabbruscato. Dopo ha comin-
ciato a tira un gran vento, e
in quello scambio di ripulì er
cielo è venuta una grandinata,
278
ha durato mezz'ora, e poi
acqua a ciel rotto.
Padr. Così vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto quasi
niente di ciò che ti avevo or-
dinato ; non è vero ?
Serv. Anzi spero che ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
SERv.Neltempoche pioveva
mi sono fermato in bottega del
sarto, ed ho visto con questi
miei occhi raccomodato il suo
soprabito con bavero e fodere
nuove; la sua giubba nuova e i
pantaloni collestafiFe erano finiti
elasottovestestavatagliandola.
Padr. Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellaio e il calzolajo, e di
questi non ne hai cercato?
Serv. Sì signore: il cap-
pellaio ripuliva il suo cappello
vecchio , e non gli mancava
• che orlare il nuovo. Il calzolajo
poi aveva terminati gli stivali,
le scarpe grosse da caccia, e
gli scarpini da ballo.
Padr. Ma in casa di mio
venire una grandinata che ha
durato mezz ora, e poi acqua
a precipizio!
Padr. Cosi tu vo farmi
intendere dinon aver fatto quasi
nulla di quel eh' t t' avevo or-
dinato; non è vero?
Serv. Anzi i' spero che la
sarà contenta, quando la saprà
% ggiro eh' i' ho fatto per città
in du ore.
Padr . O sentiamo le tu
prodezze !
Serv. Ni' ttempo eh' e pio-
veva, mi son fermato 'n bottega
di' ssarto, e ho visto con questi
me occhi raccomodato i' ssoso-
prabito con bavero e fodere
nove: la so' giubba turchina e i
pantaloni colle staffe eran finiti,
e la sottovesla stava tagliandola.
Padr. Tanto meglio. Ma
tu avevi pure a pochi passi il
cappellaio e il calzolajo, o di
questi tu nun n'hai cercato?
Serv. Gnor sì: il cappel-
la jo e'iripuliva il so cappello
vecchioy e gli mancava sola-
mente da orlare innovo. Il
calzolajo poi gli]avea finito gli
stiali, gli scarpimi da caccia,
e gli scarpint^da ballare.
Padr. Ma in casa di me
279
cieloj e giù grandine per mez-
z oray e poi acqua a brocche.
Padr. e intanto in bella
maniera mi fai sapere di ìion
aver fatto quasi nulla di quel
che f avevo detto eh ?
Serv. Oh gnor nò. Anzi
credo che sarà contento quando
saprà che tocco di girata che
ho fatto per Pisa in duore.
Padr. Sentiamo un pò le
tu bravure.
Serv. In tempo che pioveva
mi son fermato 'n bottega der*
sarto, e ho visto propio co' mi
occhi er soprabito accomodato
con batterò e fodere nove: la
su giubba turchina e panta-
loni on le staffe eran finiti, er
panciotto era li che lo tagliava.
Padr. Sta bene. Ma avevi
anche lì vicino il cappellaio, e
7 calzolaio: di questi, n hai
cercato ?
Serv. Gnor à;ercappel-
lajoy e ripuliva er cappello
vecchio, e un gli mancava che
d'orlare er novo. Er carzolajo
poi aveva finiti gli stivali, gli
scarponi da caccia, e gli scar-
pini da ballo.
Padr. Ma in casa di ìiii
è un ber rovescio d'acqua.
Padr. Cosi vum dirmi che
non hai fatto niente di quel
che ti avevo ordinato. È vero?
Skrv. Lei un si potrà mai
dolè di mene, quandi) saprae
er giro che ho fatto drente la
cittàe in du ore.
Padr. Sentiamo le tue bra-
vure.
Serv. In der tempo che
pioveva mi so fermo in bui-
tiga der sarto, e ò visto co
mi occhi arraccomidare er su
pechesce cor su bavarOy e le
su' fodare nove ; la su giubba
brue, e i carsoni coriacei eran fi-
niti, e'r corpetto l'avèa tramano.
Padr. Sta bene. Ma avevi
pure a pochi passi il cappel-
laio e 'l calzolaio : di loro non
n hai cercato ?
Serv. Lustrissimo sie : er
cappellaio ripuliva er su cap-
pello uso, e quello novo un ci
mancava altro che V orlatura.
Er carsolaro aveva feniio li
stivali, e le scarpe grosse da
caccia, e li scarpini da balla.
Padr J/fl in cam del babbo
S80
padre quando sei andato ,
che questo era l'essenziale?
Serv. Appena spiovuto,
ma non vi ho trovato né suo
padre, nò sua madre, né suo
zio, perchè jeri l'altro andarono
in villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno sarà stata
in casa?
Serv. No Signore, perchè
avevano fatta una trottata, ed
avevano condotto il bambino
e le bambine.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor
padre, la cameriera e due ser-
vitori erano con sua cognata, e
il cocchiere avendo avuto l'or-
dine di attaccare i cavalli per
muoverli, se ne era andato col-
la carrozza verso Rovezzano.
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
Serv. Non vi ho trovato
che il garzone di stalla, ed
a lui ho consegnate tutte le
lettere, perchè le portasse a
chi doveva averle.
Padr. Meno male. E la
padre quando ci sei andato,
che questo era V essenziale ?
Serv. Appena spiouto: ma
non vi ho iroato ne so padre,
né su madre, né % ssu zio,
perchè jerlaltro gli andomw
'n villa, e v hanno dormito.
Padr. // me fratello però
almeno la sa, moglie la sarà
slata 'n casa?
Serv. Gnor nò, perchè gli
I aeano fatto una trottata alle
I Cascine, è aean condotto seco
I i' bbambino e le bambine.
! - Padr. O la servitù eh' era
tutta for di casa ?
Serv. rococò gli era an-
dato n campagna con su pa-
dre; la cameriera e do servitori
gli eran fori colla só cognata,
e i'ccucchiere, cKavea uto V ordi-
ne d'attaccare e cavalli pemmo-
vegli, e se n era andato colla
carrozza veì^so Roezzano.
Padr. Dunque la casa l'era
vota?
Serv. firn v'ho iroato che
lo stallone, e ho consegnato a
lui tutte le lettere, perchè e' le
portassi a chi l'andavano.
Padr. Meno malo. E la
§81
padre, o quando ci sei andato ?
Questo era quelchemi premeva.
Serv. Appena smesso di
piovere : ma non ci ho trovato
né su padre, né su madre, ner
su zio, perché iellartro andò-
rnon villa e ci sono stati
anche tutta la notte.
Padr. // mi fratello però,
la su moglie almeno, sarà
stata in casa ?
Serv. Gnornò, perchè erano
andati a far una scarrozzala
alle Ascine nove C(yr bimbo, e
le bimbe.
Padr. Ma, o che la ser-
vitù era tutta foì^a?
Serv. Er covo era andato
'n campagna cor su sig. padre:
la amberiera e dù servitoli
erano con la su ognata e er
cocchieri avendo uto V ordine
d'attaccare e avalli per movelli,
se nera ito on la arrozza verso
San Mfele.
Padr. Dunque la casa era]
vota ?
Serv. Non ci ho trovato
artri che er garzon di stalla e
gli ho dato tutte le lettere perchè
le poi'tassi a chi' andavano,
Padr. Meno male. E la
quando ci sei andato, che que-
sto era l'essenziale ?
Serv. A malappena eh' è
spiovuto: ma unciò trovo ner
su sor padre, né la su signora
madre, ner su zio, perchène jei^
l altro andonno in campagna,
e ci so stati tutta una ìwtte.
Padr. Il mio fratello però,
almeno la sua moglie sarà
stata in casa.
Serv. Gnor nò, perchène
avevin fatto una trottata ver-
so.... e avevin menato con sene
er cittino e le cittine.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuor di casa?
Serv. Er eoo era ito in
campagna cor su sor padre ;
la camariera, e i du servitori
erano co la su cognata, er
cucchiere eh' ava auto V ordine
d' attaccare e avalli per mo-
varli se n'era ito co la car-
rozza verso....
Padr. Dunque la casa era
vuota?
Serv. Un ciò trovo eh' er
mozzo di stalla, e tutte le Iet-
tare l'ho lassate in delle su
mane, perchène le dasse a chi
andevino.
Padr. Meno male. E la
282
provvista per domani ?
Serv. L'ho fatta : per mi-
nestra ho preso della pasta, e
intanto ho comprato del for-
maggio e del burro. Per ac-
crescere il lesso di vitella,
ho preso un pezzo di castra-
lo. Il fritto lo farò di cer-
vello, di fegato e di carciofi.
Per umido ho comprato del
majale, ed un' anatra da farsi
col cavolo. E siccome non
ho trovato né tordi, né starne,
né beccacce, rimedieròconun
tacchino da cuocersi in forno.
Padr. e del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perché costava po-
chissimo. Ho comprato so-
gliole e triglie, razza, nasello
e aliuste.
Padr. Cosi va benissimo.
Ma il parrucchiere non avrai
potuto vederlo?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e cioccolata,
così ho parlato anche a lui.
provvista per dotnani ?
Serv. l'I ho fatta: pe mi-
nestra % ho preso delle paste,
e intanto ho comprato un po' di
cacio e un podi burro. Peccre-
scere % llesso di vitella % ho
preso un pezzo di castrati),
rifritto % lo farò di cervello,
di fegato e di carciofi. Per
umido ìho comprato d mmaia-
le, e un anatra da fassi coiccao-
lo. E siccome un v' ho troato
né tordi né starne né beccacce,
i la rimsdierò co' un tacchino
daccocessi in forno.
Padr. dil pesce tu non
n hai comprato ?
Serv. Anzi % n ho preso
di molto, perchè e costava po-
chissimo, r ho preso sogliole,
tìigUcy razza, nasello, e aliu-
stre.
Padr. Cosi la va benissimo.
Ma il parrucchiere tu un n'avrai
potuto vederlo?
Serv. Anzi siccome gli ha
la bottega accanto a quella
di' ddroghiere, dov % ho preso
lo zucchero, i'ppepe, e garofani,
la cannella e la cioccolata, % ho
parlato anc a lui, i' ho parlato.
283
spesa per domani l hai falla ?
Serv. Gnor sì: Per mi-
neslra ho compro della pasta,
e intanto ho preso der burro,
e der cacio. Per crescere el lesso
di vitella ho preso un pezzo
di astrato. Er fritto lo farò
di cervello, di fegato, e di ar-
ciofi. Per umido ho comprato
der majale e un anatra da fa
cor cavolo. E siccome e n un
cerano né tordi, né staile, né
beccacce, la rimedierò con un
tacchino che manderò al forno.
Padr. e del pesce non
ri hai preso ?
Serv. Anzi ne ho preso
tanto perché costava poino: ho
p'eso sogliole, triglie, razza,
nasello e aliustre.
Padr. Così va benissimo.
Ma, el parrucchiere non V hai
trovato eh ?
Serv. Anzi, siccome ha la
bottega accanto a quella der
droghieri n dove ho preso b
zucchero, er pepe, e garofani,
la annella e la cioccolata, così
ho potuto parlare anc a lui.
provvisione per domani ?
Serv. L' ho beli e fatta.
Pé la minestra ho pigliato le
paste, e in questo mentre ho
compro un po' di acio, e der
burro. Per cresciare l'allesso
di vitella ho piglio un pezzo
di astrato. Er fritto lo farce
di cervello, di fegato, e di ar-
ciofani. Peli' umido ho compro
der majale e un anatra da
fassi cor cavolo, E perchéne
de tordi, delle starne e delle
beccaccie un nho possuto tro-
var pergnente, rimediarò con
un billo da fassi in der forno,
cor un po' di sarciccia,
Padr. E il pesce non Ihai
comprato ?
Serv. Gnossi, anzi n'ho
piglio mortissimo, perchéne un
costava quasi gniente. Ho com-
pro sogliole, triglie, razza, na-
sello e ariuste.
Padr. Va benissimo. Ma il
barbiere non l'avrai potuto
vedere?
Serv. Anzi siccome la su
buttiga é accosto a quella der
droghiere indove ho compro
zuccaro, pepe, garofani, can-
nella e cioccolata, percioe ho
fatto da paìore anco coti lui.
2S4
PADR.Echenuovetihadate?
Sehv. Mi ha detto che
r Opera in musica ha fatto
furore , ma che il ballo è
stato fischiato; che quel gio-
vine signore suo amico perde
r altra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire con la diligenza
per Firenze. Mi ha detto pure
che la signora Lucietta ha con-
gedato il promesso sposo, e ha
fatto giuramento di non voler-
lo più.
Padr. Gelosie.... questa sì
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara tutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli miglio-
ri; tra i piatti scegli quelli di
Padr. E che i\ovitàt badale?
Serv. E' m ha detto che
r opera n musica V ìia fatto
furore, ma che % bballo gli è
siato fischiato; che quiggioane
signore su amico e perde l altra
sera tutte le scommesse ai g-
gioco, e che ora gli aspettaa
di partire colla diligenza per
Liorno, E m'ha dett' anche che
la sora Lucietta l ha s è ad-
dirata coi sso damo, e che l' ha
fatto giuro di nun vedello più.
Padr. Gelosie . . .oh questa
si che la mi fa ridere: ma ora
pensiamo un poco a noi.
Serv. Se la si contenta
i mangio un pò di pane, e beo
un bicchier d'Uno, e tomo subito
a riceere e so comandi.
I Padr. Siccome % ho fretta,
' e ho da andar fori di casa,
senti prima quel eh' i ( ordino,
e poi tu mangerai e ti ripo-
' serai quanto vorrai.
I Serv. La comandi pure.
[ Padr. Per il pranzo che
; dobbiamo fare, prepara ogni
cosa nel salotto bono. Piglia la
tovaglia e i tovaglioli più fini;
scegli tra piatti quegli di por-
S85
Padr./s che nove tha dato?
Serv. e m'ha deità che
r opera in musia ha fatto fu-
rore ma che er ballo V hanno
fistiata : che quer signorino
su amico perde Vartra sera ar
gioho tutte le scommesse, e che
ora aspettava di partire on la
diligenzia pè Firenze, M'anco
detto che la sora Lucietta ha
licetiziato er damo, e a giurato
di non lo volè vede più.
Papr. Gelosie .... questa
sì che è da ridere, ma pensiamo
un pò a nm.
Serv. Se si ontenta man-
gio un boccone, bevo un 6tc-
chieretto, e torno subito a su
omandi,
Padr. Siccome ho furia, e
devo andar fori, senti prima
cosa ti dico, e poi mangerai e
ti riposerai quanto vuoi.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare prepara tutto
nel salotto bono. Piglia la to-
vaglia e i tovaglioli più fini:
tra i piatti scegli quelli di por-
Padr. /?c/ie nuove tiha dato?
Serv. M' ha detto che l'o-
para in musia ha incontro di
morto, ma eh' erbalh l'hanno
fistiato e ha fatto fiasco; che
quer giovano signore amio di
Vosustrissima perse jer l'altro
sera al gioo tutti e quattrini
delle scommesse, e che ora
aspettava d'irsene colla dili-
genzia. M'ha detto di piue,
che la gnora Lucietta ha dato
licenzia al su sposo, e s'è giura-
ta d'un volelb veder mai piue.
Padr. Gelosie,... Questa
sì che mi fa ridere. Ma pen-
siamo a noi.
Serv. Se lei si contenia,
mangiarei un briciolin di pane
e berci un sorsin di vino, e
poi verroe a piglia e su' co-
mandi.
Padr. Siccome ho fretta
d' andar fuori, prendi prima
gli ordini, e poi mangia e ri-
posati quanto vuoi.
Serv. Farò cosie.
Padr. Pel pranzo che dob-
biamo fare, prepara tutto nel
salotto buono. Piglia la tova-
glia e i tovaglioli più fini: sce-
gli i piatti di porcellana, e
i
286
porcellana, e procura che non
manchino né scodelle, né vas-
soj. Accomoda la credenza con
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Skrv. e quali posate met-
terò in tavola?
Padr. Prendi i cucchiai
d'argento, le forchette e i
coltelli col manico d' avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini sia-
no quelli di cristallo arrotato.
Accomoda poi intorno alla ta-
vola le seggiole migliori.
SÉRV. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna. Tu
sai quanto é stucchevole quella
vecchia! Metti in ordine la ca-
mera buona, fa'riempire il sac-
cone e ribattere le materasse.
Accomoda il letto con lenzuola
efedere le più fini, e cuoprilo col
zanzariere. Empi la brocca di
acqua, e sulla catinella disten-
di un asciugamano ordinario
ed uno fine. Fa'tutto in rego-
la, e la mancia non mancherà.
Serv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
cellana, e procura che non
manchino né scodelle ne vassoi.
Accomoda sulla credenza le
frutie, r uva, le noci, le man-
dorle, i dolci e le boUi0e.
Serv. Ma che posate met-
terò io n tavola ?
Padr. Piglia i cucchiai
d'argento, e le forcfiette e i
coltelli col manico d'avorio, e
ricordali che le bocce^ i bic-
chieri e i bicchierini siano di
quegli di cristallo arrotato.
Accomoda poi attorno alla ta-
vola le meglio seggiole.
Serv. La sarà servito a
puntino.
Padr. Ricordati che stasera
e vien la me nonìia. Tu h
sai quanto l'è stucca quella,
vecchia ! Accomoda la camera
bona, fa riempire il saccone e
ribatter le materasse. Rifai il
letto colle lenzola e colle feder^e
le pili fine , e coprilo collo
zanzariere. Èmpi la mezzina
d' acqua, e sulla catinella di-
stendi uno sciugamane ordi-
nario e uno fine. Fa ogni cosa
per bene, e arai la mancia.
Serv. S'i'ho a dir ivvero
la m' ha dato di molte ordina-
zioni, ma % farò ugni cosa.
■^87
cellanaj e cerca che ìwn man-
chino né scodelle né vassqj.
Accomoda la credenza con frut-
te, uva, noci mandorle, con-
fetture, e bottiglie.
Serv. e quali posate ho
a mettere in tavola?
Padr. Piglia i cucchiai
d' argento, e le forchette e cur-
telli col manico di avorio, e
ricordati che le bocce, e bic-
chierini, e i bicchieri siano
quelli di cristallo arrotato.
Accomoda anco intorno la tavola
le seggiole più bone.
Serv. Sarà servito: un
pensi a nulla.
Padr. Ricordati che stasera
vien la mi nonna: sai quant' è
stucchevole quella vecchia ! Ac-
comoda la camera bona, fai
riempire il saccone, e ribattere
le materasse: anche il letto
rifallo con lenzola e federe le
pili fini e coprilo col zanzaliere.
Empi la brocca dell' acqua, e
sulla catinella distendi uno
sciugamano ordinario e uno piti
fine. Fa tutto per bene e avrai
la mancia.
Serv. Com'è vero mene
m' ha ordinato morte ose, ma
farò r impossibile pe potelle
falle tutte.
bada che non manchino cupa-
relle né vassoj. Accomoda la
credenza con le frutta, con
l'uva, con le noci, con le man-
dorle, coi dolci, e con le bottiglie.
Serv. E che posate met-
taroein della tavola.
Vadk. Piglia icucchiaj d'ar-
gento, e le forchette e i coltelli
col manico d'avorio: guarda
che le boccie , i bicchieri e i
bicchierini siano quelli di di-
stailo arrotato : e accomoda
intorno alla tavola le sedie
più buone.
Serv. Sarà servito pon-
tuarmente.
V ADR. Ricordati che stasera
viene la nonna. Tu sai quant'è
stuccosa quella vecchia! Ripu-
lisci la camera buona, fa' riem-
pire il saccone, e ribattere i
materazzi. Rada di rifare il
letto con le lenzuola e con le
foderuccie più fine, e mettici
lo zanzariere. Empi la brocca,
e stendi sopra h catinella una
salvietta ordinaria ed una fina.
Fa tutto per bene, e la man-
cia non ti mancherà.
Serv. A dilla tarquale vo-
sustrissima mi ha ordinato di
morte 'ose, ma lasci fare a
mene: farò iinipossibile, faroe.
288
AVVERTENZE SUL. DIALETTO FIORENTINO.
Il volgare fiorentino illustre è certamente il più puro idioma
che usar si possa dagli Italiani; ma siccome la lingua parlata, sempre
e dovunque, è diversa dalla scritta, cadono perciò in qualche sole-
cismo e pleonasmo anche in Firenze le persone più colte, siccome
può desumersi dalla traduzione del precedente dialogo. Ma i loro so-
lecismi e la viziosa preferenza non cangiano indole alla lingua; men-
tre la fiorentina plebe adopera talvolta modi e traslati sì bassi, che
purgando anche il suo vernacolo di ogni errore grammaticale, in
volgare emendato non si potrebbe ridurre. Ed è notabile che i nostri
plebei ben si accorgono dei frequenti errori in cui cadono, special-
mente per viziosa preferenza; poiché se un mercatino, o altra per-
sona di sìmil lega, si farà a parlare con persona che gli incuta sog-
gezione, per lo sforzo di correggersi cadere in ridevoii affettazioni,
dicendo per esempio pavolo per paolo^ Nove per Noè^ faina per
farsa; mentre nelle contrattazioni poco pacifiche con i contadini non
rispiarmierà dileggi ad ogni frase rusticale da essi usata.
Per dare una giusta idea del vernacolo plebeo fiorentino tra-
scrissi una scena del conosciutissimo R. Antiquario e Segretario del-
l'Accademia della Crusca Ab. Zannoni, e per far conoscere i modi
rusticali del nostro suburbio, scelsi alcune ottave negli eleganti Idilii
del Baldovini.
La Crezia rincivilita.
Atto Primo — Scena III.
Crezia e Saverio.
Crex. Un e* è male, eh Saverio, in quigGiuseppo ? E' mi par
eh' e' ci si sia ^ndovinaco bene.
Sav. E' sarà propio un miracolo. E's*è preso cosi a ibbacchio
e senza 'nformazione.
Crex. Che volei tu andar a Siena, do* egli è staco finquio
a'nformatti?
Sav, eh* era necessario piglia' lui?
Crez. piglian'uno ch'abbia servi e' a Firenze, ia. Tu se* par-
ticolare, sai! S*e*si daa*B carcheduno, che ci conoscessi, e eh* e' sa-
pessi chi no* eramo, alla prima gridaca che gli si fussi fatta, di botto
e* ci arebbe ieaco irrispetto.
Sav. Ma che credi che prim* o poi un saprà ugni cosa anche
chesto ! Da* un poco che no* siam noizj nella Signoria, e eh' e* si fa
una parte che un s'èmparaco bene ; e un aittro poco, eh* e* ci è
un* inSnilsL di gente bracona, che bada più a* fatti degli aittri che a'
sua, e che ha smania di rifistiagli ; e pò* tu m* ha* a dire se que-
8t^ omo gli 'ndugierà dimorto a essere *nformaco dittutto per fil, e per
ségno.
Crez. Sie ; ma gli ha a troà prima chi gli dia T imbeccata : e
un fiorentino e'potea dassi eh' e* fussi in grado di mettecci sulle gaz-
zette. Sa* tu com*eirè eh? i* un mi pento né punto né poco d*aè
fatto ehicch* i* ho fatto.
Cecco da Yarlungo del Baldoyini.
Ottave,
Sia dolco il temporale o sia giolato,.
Pricol non e* ee eh* i* mi discosti un passo ;
Al ballo, al campo, in chiesa, e*n ugni lato
Mai non ti sto di lungi un trar di sasso.
Come i' ti ypggo i' sono alto e biato,
Corouncbe i* non ti veggo, i* vo n fracasso,
E eh* e* si trovi al mondo un che del bene
Ti voglia piùe, non è mai ver, non ene.
E pur tu mi dileggi, e non mi guati,
Se non con gli occhi biechi, e*l viso arcigno;
Poifar 1* Antea ! non te gli ho già cavati^
Che tu meco t*addia tanto al maligno.
Voggigli in verso me manco *nfruscati ;
Che se tu non fai meco atto binigoo,
Fmi morròne, appoiché tu lo brami,
E tu non arai piùe chi tanto t*ami.
19
L
S9d
AVVERTENZE SUL VERNACOLO PISANO
E SOPRA QUELLO DKLLA PLEBE L1V0BI<;E8B.
I Pisani, anche discrelamente istruiti, pronunziano strettissimo
Yo Onale tronco, battendo molto in quel caso la r che lo precede,
dicendo farrò^ dirròj per farò, dirò ec. Allargano al contrario Te
nel pronunziare mettere, scegliere ed altre voci consimili ; e dicono
il J8o/c, il xommacco per il sole, il sommacco ec.
II basso popolo pisano raddoppia la r avanti airt in alcune pa-
role, ed in fine al singolare pone talvolta la t invece dell' e: per
esempio dirà er mestieri, er candellierij in luogo di dire il me-
stiere, il candeliiere. Sostituisce altresì la r alla / in calza, salto,
molto e simili, dicendo, carza, sarto, morto, e toglie affatto il e da
Duca, Duchessa, amico, pertica ec. pronunciando Dua, Duessa, amia,
perita ; mentre lo balte con forza in principio delle voci mascoline,
neir usar le quali sostituisce sempre all' articolo ti T er, dicendo er
cane, er colonnino ec.
Ma la traduzione del nostro Dialogo in vernacolo pisano, basta
a far conoscere i modi popolari e i vizj di pronunzia quasi comuni
in quella provincia. Siccome però nella propinqua citta marittima di
Livorno la plebe è composta di tal feccia, che ha le sue qualità ca-
ratteristiche negli usi e nelle costumanze non solo, ma ben anche
nel linguaggio volgare, vollersi perciò trascrivere alcune ottave di
un giocoso Poemetto dettato nel volgare plebeo, detto in Livorno
Veneziano, la qual burlesca poesia porta per titolo Lo slelminio de*
Pisani, e la Molte d' Ugolino,
Fate lalgo, o Poeti, e vo' passare.
Per quella via che vo' battesti plima,
Vogrire anchMo del bel Palnaso a stare
Colle nove sorelle in su la cima;
E nun pensate benché sia vergare
Che di nome lassò manchi e di stima.
Apollo sa chi sono, e come nasco
Che insiem più vorté sé beuto er fiasco.
291
Danque mi fate lalgo ; E se mi fate
UoQor di seguitammi, sentirete
Tante strage di sangue appiccicate
L'una coir altra s\ che impietirete;
E quelte furon plopio appreparate
Da quer conte Ugolin che avea la sete
D* esse signor di Pisa, e d' esse tald
Da fa di su' capticelo e bene, e male.
Musa, nun mi tradì, son io qaer vate
Che diletto ti fui da piccinino,
Che indiedi ritto sulle tue pedate
E debbi forte più d' un can mal tino ;
Da te più tetto nella plima etate
Vissi beato, e sol mi fé melchino
Queir anno che fu'pleso in cosclizione
Per fa selvizio al sor Napoleone.
In queir età, plincipierò accusie
Che r omini eran beltic di rapina,
E che per agguanta quand'era sie
A pezzi si facean come tonnina,
Eran in voga s\ le rubberie
Che genio ne facean d' alta dottrina ;
E r uom che più dell' altro ava rubbato
Era r uomo er più biavo, e il più stimato.
AVVERTENZE SUL VERNACOLO SENESE.
Asserimmo di sopra che i Senesi adoprano alcune voci non co-
nosciute né ammesse nel toscano idioma : ne faccian fede gli esempi
seguenti:
Sali su la tal cosa
Andar sello
Pasquare
Aflore
Scieda
Trespide
Porta su la tal cosa
Passeggiare nel fango
Par la Pasqua
Puzza
Mostra
Treppiede
Pestio
Canterano
Zocche
Cionca terriccia
Ciccio
Citta
Lustro
Trecciolo
Spararembio
Testo
Giangio
Ciolla
Bendo
Giacio
Bisi
Cocco
Tino
Per vezzeggia-
tivi di
292
Chiavistello
Cassettone
Ciocche
Catino di terra
Carne
Fanciulla
Lunaiera
Nastrino di filo
Grembiale
Vaso
Angiolo
Orsola
Raimondo
Orazio
Belisario
Niccolò
Agostino
293
DIALETTI DELL'ANTICO STATO PONTIFICIO
E DI SAN MARINO
CON ILLUSTRAZIONI ETNOLOGICHE.
Passeremo ormai dall' Etruria nell' Umbria e nel Lazio,
e cosi avremo perlustrata tutta l'Italia Media o Centrale.
Nel 1840, quando io a^ndava pubblicando la Corografia del-
l'italxay nascóndevasi gelosamente nel cuore dei migliori tra
gr Italiani T eterno voto mai appagato, del risorgimento della
nazionale indipendenza. Di quel tempo il così dello Stato Pon-
/^^cio distendeva i suoi confini dalle rive del Po a tram, sino a
quelle del Lago di Fondi a mezzodì: conseguentemente era vi in
esso compresa una porzione dell'antica Gallia Cispadana, una
parte dell* Etruiia, V Umbria, il paese dei Sabini, il Piceno
e il Lazio, corrispondenti ai moderni lerritorj di Ferrara
e di Bologna, delle Bomagne, di Urbino, di Pemgia, di Città
di Castello e di Orvieto, di Spoleto, di Castro, di Bonaglione,
del Patrimonio di S. Pietro e della Campagna di Boma,
Fortunatamente la maleaugurata antievangelica promiscuanza
di poteri spirituali e temporali non tiene distaccate ormai
dal Regno d'Italia che le ùltime due sezioni territoriali di
sopra indicale; esse però sotio di una altissima storica im-
portanza. Ed infatti se il solo nome di Boma è magico per
lo straniero; se lo accostarsi alle mura della città eterna
è considerato come un avvenimento dei più notabili della
vita dagli oltramontani stessi, sì poco amici dell'Italia, qual
contrasto d'affetti non dovrà risentirne chi l'ama passiona-
tamente perchè sua patria ! La gran pianura a valloncelli,
in mezzo alla quale ergono il vertice i sette colli della su-
perba già Capitale del Mondo," rattristerebbe potentemente
colla sua attuale solitudine il sorpreso viaggiatore, se gli
oggetti che lo circondano non lo distraessero dal meditare
294
suir orridezza della sua nudità : monti coronati di querci
e castagni a non lontana distanza : la nevosa giogaja del-
r Appennino, che sorge dietro di essi a levante, dimodoché
sembra che di là emanino i primi raggi del sole nascente
e ne vengano reflessi gli ultimi allorché tramonta : e sulle
più vicine pendici paesi abitati e visibili ad occhio nudo,
già resi dai latini scrittori di classica celebrità. Quel gran-
dioso anfiteatro dell' antico Lazio è scena pittoresca che
sveglia elevatissimi sentimenti. Ma la storia fisica ne spin-
gerebbe in un sentiero troppo lontano dall'etnologico che
debbesi seguitare ; rientriamo in questo.
Abitanti. — Se una promiscuanza di Latini, Sabini, Piceni,
Etruschi, Umbri e Galli venne a formare la popolazione di
questa parte d'Italia ai tempi del Romano impero, conviene
dedurne che sotto il rapporto di cèrte caratteristiche fisico-
morali, diversificano alquanto tra di loro anche i moderni
abitanti delle così dette Pontificie provincie. I popoli del-
l'Umbria e del Piceno ben poco diversificherebbero dai Ro-
magnoli, se condannati molti di essi ad un certo isolamento,
non si trovassero avviliti dalla mancanza dei mezzi di eser-
citare il loro ingegno. È anzi da notarsi la loro propensione
quasi generale alla industria, sebbene non ricompensata né
incoraggita da facili comunicazioni. Mentre intanto soprab-
bondano alcuni prodotti, il difetto di mezzi per procacciarsi ciò
che è mancante aì bisogni, rende la classe meno agiata piut-
tosto ligia alla facoltosa, in apparenza bensì, perchè con ani'
mo repugnante. Ciò è cagione di una certa simulatezza nel
contegno sociale delle città e delle borgate ; bene inteso
però che le famiglie distinte per nascita e per coltura ma-
nifestano anche in quei distretti le nazionali prerogative
degli Italiani. Che se discenderemo verso i confini meridio-
nali, là ove una mal guardata linea di frontiera, forse da
non potersi difendere per il modo stranissimo con cui si
I
j
295
trascurarono le confinazioni naturali, ci troveremo costretti
con vivissincìo rammarico alla trista confessione che in quei
dintorni fu sempre più o meno profanato il decoro ed il
lustro del nome italiano da ruberie a mano armata ; mac-
chia turpissima resa ora notabilmente esecranda, dappoiché
il Sacerdozio, e la tirannide di un despota esulante strinsero
tra di loro la brutta lega sostenuta dal brigantaggio.
Sul carattere fisico e morale degli abitanti di Roma
ben poco può dirsi, stantechè quella è in gran parte una
popolazione collettizia, chiamata nella città eterna dalla ro-
tazione non mai interrotta degli impieghi ecclesiastico-po-
litici. Già il popolo Romano proviene da un'antica riunione
di liberti e di schiavi, succeduti alla valorosa plebe dei
Quiriti, che nella conquista del mondo andò a versare il
suo sangue nelle Gallie, nell'Asia e nell'Affrica, lasciando
aperti i lari domestici al torrente dei popoli vinti, che ac-
corsero in folla ad occuparla. Se nel popolo stazionario at-
tuale indagar vorremo una qualche caratteristica, lo trove-
remo arguto, anzi proclive alla satira, non troppo ospitale
per cagione evidente del continuo rigurgito dei forestieri,
che non concederebbe né libertà, né riposo a chi volesse
far loro continuata accoglienza, e piuttosto sdegnoso di eser-
citare arti e mestieri di bassa qualità, quasi sempre me-
more della potenza che nei trascorsi tempi lo fece grandeg-
giare sopra tutte le altre popolazioni del mondo conosciuto.
Ma questo non è articolo etnologico da toccarsi fugacemente:
i Romani addivennero padroni e signori di tutto il mondo
allora noto, ebbero dunque un carattere nazionale di specia-
lissima tempra, e ciò richiede investigazioni più particola-
rizzate. Questo popolo infatti fiero, irrequieto, prode, invin-
cibile, quali costumanze avea adottate nel suo sistema di
vita domestica e sociale? Non saranno vane siffatte ricerche.
Gli uomini congregati in una società più o meno per-
1
296
fetta hanno da tempo immemorabile segnalato con certi
riti l'atto importantissimo della vita civile, da cui deriva
la conservazione sociale; e non esiste né ha mai esistito
alcun popolo, per quanto barbaro e rozzo, che non abbia
provveduto alla convenienza di autenticare con la pubblicità
di una formula la pertinenza degli individui alla propria
famiglia. Questa sembra essere la vera origine dei riti
nuziali che in diversi modi, ma quasi sempre solenni, ogni
nazione ha adottalo. I Romani che delle loro moltiplici ce-
rimonie erano studiosissimi, attorniarono il matrimonio di
forme tali, che mentre santificavano alla loro maniera la
unione legittima dei due sessi, indicavano per via di em-
blemi alla novella madre di famiglia lo stato a cui consa-
cravasi unitamente ai doveri di quello ; ad amendue i co-
niugi l'effetto civile del loro connubio che le leggi definirono
con bellissime parole : Conjunciio maris et feminae consof^-
tium omnis vitae, divini et humvni iuris comunicatio. A quel
periodo della vita succeder dovendo inevitabilmente l'altro
della morte, trovasi che 1' onore supremo reso dai Romani
alle spoglie mortali dei loro trapassati, era quello di arderle,
consegnarne al sepolcro le ceneri, ed ergere alla memoria
del defunto un cippo, ossia un marmo sul quale scolpivano
il nome di lui, e le azioni che meritassero di essere ram-
mentate, indicando altresì il nome di chi si era presa quella
cura pietosa. Il dar sepoltura a un cadavere prima di averlo
abbruciato, era privilegio di poche famiglie ; la Cornelia fu
una di queste.
Le romane costumanze fugacemente indicate riguardano
i tempi storici di quel popolo, del quale accreditatissimi
scrittori ci trasmessero notizie sicure. Non dispiaccia ora
che io aggiunga qualche cenno sulle presunte abitudini dei
Romani nelle diverse epoche storiche della loro metropoli.
Al tempo dei Re studiarono Roniolo e Numa di raddolcire
^97
i costumi di quel popolo originariamente barbaro, feroce e
quasi selvaggio, ma non ottennero che debolmente il loro
intento : le leggi infatti che si riferiscono a queir epoca,
specialmente quelle concernenti la patria potestà, non pote-
vano accomodarsi che ad un popolo assai rozzo e semibar-
baro. Il giudizio cui soggiacque Orazio uccisore della so-
rella ; il supplizio di Suffezio, e quello riserbato alle Vestali,
violatrici del loro voto, sono prove non dubbie della pri-
mitiva barbarie. Doveva dunque il popolo aver conservato
naturalmente una gran parte della originaria ferocia, in spe-
cial modo nelle guerre contro le genti limitrofe, nelle frequenti
correrie e nelle rappresaglie eseguite nei diversi territorj.
Ma quella ferocia medesima, la quale nella infanzia delle
nazioni riguardasi come germe di coraggio e di valore, con-
tribuì alla vittoriosa dominazione dei popoli circostanti ossia
air ingrandimento di Roma. Né la Religione opponevasi allo
sviluppo di così fatto carattere nei campi delle battaglie ;
perchè si legge non aver mai i soldati spiegato tanto ardore,
né mai esser corsi tanto alacremente alta pugna, quanto
dopo i voti solenni che alcun loro capo avesse fatto di eri-
gere un tempio, di introdurre pubbliche feste, o di creare
nuove istituzioni sacerdotali.
Abolita la dignità regia, i costumi generalmente rozzi
e feroci dei primi tempi della Repubblica si ingentilirono a
misura che progredì l' incivilimento del popolo, e crebbero
i mezzi di sussistenza insieme coi comodi della vita. Allora fu
che nacque un commèrcio durevole tra esso e gli altri
popoli d' Italia, quelli specialmente della Magna Grecia, che
già si trovavano istruiti dai loro filosofi intorno ai principj
della pubblica morale. Ma non perciò si potrebbe affermare
che in Roma venisse mai stabilito il sistema della morale
dello Stato, o vi fosse insegnata e praticata la scienza dei
costumi per mezzo di costanti principj, né che la moralità
L
298
avesse poste in Roma e nel suo popolo radici profoode:
diremo piuttosto che la morale era abitudine popolare, ivi
esistendo una norma di costumi seguita dagli individui pri-
vati, senza che se ne dasse cura il regime governativo,
esistendo una relazione manifesta fra la religione e la mo-
rale, per cui le opinioni religiose aggiungevano forza ai
precetti morali. Vuoisi però osservare che insieme col gra-
duale miglioramento dei costumi della plebe, quasi di egual
passo andavano corrompendosi i costumi dei patrizj e dei
più ragguardevoli ordini dello Stato. È però da osservarsi
come caratteristica della morale repubblicana di Roma, che
essa produsse in tutto il corso di quel periodo una straor-
dinaria mistura di grandi vizj e di grandi virtù. Singoiar
cosa quindi e forse distintiva di questo popolo, è il trovare
in esso uniti coraggio e debolezza, libertà e rapina, fran-
chezza repubblicana e lusso orientale, magnanimità in mezzo
alla corruzione e all'avvilimento. Mario e Siila, flagelli di
Roma e sentina di vizj, fecero spiccare in alcuni momenti
la grandezza dell' animo, la giustizia, la liberalità, la bene-
ficenza, la gratitudine ; e mentre opprimevano la loro patria
davano talora segni manifesti della più dignitosa fermezza.
Più tardi Cesare, Pompeo, Antonio, Ottaviano, nel fervore
delle più gagliarde passioni mostrarono talvolta un carat-
tere di cui si sarebbero pregiati i più decisi repubblicani
di Grecia. Non vi è dubbio che da quella strana complica-
zione di grandi vizj e di grandi virtù procedettero lo straordi-
nario ingrandimento, il potere, la gloria, lo splendore della Re-
pubblica: e forse non male giudicherebbe chi attribuisse la ca-
duta di quel sistema governativo al morale disequilibrio che nel-
r ultimo periodo della democrazia fece preponderare i vizj
dei grandi in confronto delle virtù raccoltesi nella plebe,
quantunque degenerata essa pure.
Siamo all' Impero. Passarono i tempi nei quali si ve-
299
devano i primarj magistrati tornare dal campo di gloria ai-
V aratro; la modestia di Cincinnato; la parsimonia frugale
di Attilio Regolo ; la mensa di Decio imbandita a radici,
sono fatti resi notissimi dalla storia.
I vasi d'oro, i monili, le corone e le altre ricchezze
provenienti da conquiste, non si deponevano più nei sacri
templi in offerta agli Dei : tutto assorbiva il gusto per la
mollezza, per la crapula, per il lusso: il sesso femminile
restò ben presto affascinalo dai prestigj della pompa e del
fasto, e diede bando al pudore. Questo rapido passaggio dalla
povertà all'opulenza, dalla semplicità al fasto, dalla frugalità e
dalla parsimonia al lusso smodato, fece enormi progressi sotto gli
imperatori, tantoché, corrotti e depravati affatto i costumi, non
vi ebbe più morale pubblica: alla quale condizione funestissima
contribuiva principalmente l'esempio dei Magistrati spesso assai
viziosi, dei favoriti rotti ad ogni libidine, dei cortigiani dis-
soluti, dei governatori rapaci, e quel che è peggio degli
stessi Imperatori. I quali per iniqua politica, o per effetto
di stupida storditezza non di altro curavansi che di can-
cellare in quel popolo V antico carattere, ammollirlo, incep-
parne la vivacità ed il coraggio, distruggerne l'energia; e
mentre lo avevano snervato con i continui spettacoli, con le
frequenti largizioni, col tollerare la licenza plebea, lo abi-
tuavano altresì all'ozio, alla lussuria, alle più viziose pra-
tiche, al totale abbandono delle massime e delle idee della
virtù e deir onore, rendendolo per tal modo, quale appunto
il volevano, una greggia di schiavi : ecco perchè furono
tollerati gli eccessi di barbarie, di infamia, di crudeltà di
Tiberio, di Nerone, di Commodo, di Caracalla, d'Eliogabalo,
e simili altri mostri che Y umanità disonorarono non meno
del trono ! Da ciò conseguiva che l'incivilimento dei Romani,
il quale avea tanto progredito nei bei tempi della Repub-
blica, fece passi retrogradi ben rovinosi: quel vastissimo
300
impero, il più grandioso di cui faccia menzione |a storia
delle nazioni, non poteva più sussistere, dopo essere
stati sovvertiti i principii della morale pubblica, e concul-
cate dagli imperanti e dai sudditi le massime immutabili
dell' onesto e del giusto ; alla quale rovina cooperò del pari
la immoralità delle armate composte di popolo depravato, e
divenute venali, rapaci, tumultuose fino ad usurparsi T au-
torità di creare a loro arbitrio i sovrani, e talvolta di ucci-
derli per eleggerne dei nuovi.
Cadde l'impero, ma vano sarebbe il credere che dopo
quella catastrofe i costumi del popolo Romano prendessero
un aspetto migliore sotto la tirannide dei Goti, dei Longo-
bardi, dei Franchi, degli Alemanni. Sotto il governo dei Goti
abondano nell' Editto di Teodorico ordinamenti diretti a fre-
nare la rapacità. T incontinenza, la sete del sangue, le ven-
dette private, e tutte le più violenti passioni. I Longobardi
ebbero peggiori costumi e gli comunicarono ai Romani; basti
il dire che in quella funesta età appena un'armata acco-
stavasi a Roma, i privati invadevano i beni altrui, non ec-
cettuando i posseduti dalle chiese. Vero è che fin d'allora
si resero frequenti le processioni di penitenza, la costruzione
di sacri edifizii, le moltiplicazioni del clero; ma le costu-
manze erano feroci, violenti le passioni, insaziabile la smania
delle vendette, cui frenare non bastavano né leggi, né re-
ligione, né sentimento naturale di umanità. Il secolo detto
comunemente di Carlo Magno, checché ne dicano gli storici
passionati, fu il vero secolo di ferro, il secolo della mag-
giore barbarie ed ignoranza degli Italiani : divennero quindi
frequenti i così detti Giudizii di Dio, più spesso gli atroci
delitti e la violazione della pubblica fede : in quel periodo
funestissimo si svolsero licenziose insieme cogli orrori della
feudalità le oppressioni^, le violenze, le ingistizie e gli atten-
tati contro la libertà politica e civile. Senza esaminare par-
304
titamente i successivi periodi di dominio degli imperatori
Alemanni può conchiudersi, che in generale i costumi erano
in Roma e per tutta Italia quali potevano trovarsi in una
regione lungamente dominata da barbari, i cui successori
non erano molto più inciviliti. Nei due secoli insomma che
succedettero dopo che Carlo Magno ebbe arricchita la Chiesa
Romana di sovranità temporale, è doloroso il vedere come
dallo smodato lusso dei prelati, dalla esuberante dovizia dei
monasteri procedettero le dissolutezze del clero, il rilascia-
mento della disciplina ecclesiastica, il peggioramento della
morale, e la maggior parte delle calamità che gravitarono
suir Italia. I due secoli XII e XIII educarono i Romani alle
armi, alle sedizioni, alle discordie, e ad un lusso il più ef-
frenato ; quindi nel secolo XIV le tendenze sfarzose, e i con-
secutivi morali disordini di usure, frodi, spogli, gravezze in-
debite, ed oppressioni.
Rammentar dovendo per ultimo quali fossero i costumi
roniani nel secolo XVIII, presentasi spontaneo il riflesso che
rimasta essendo V Italia divisa in varj principati e soggetta
a diversi governi ed anche a stranieri dominatori succedu-
tisi talvolta Tun V altro con molta rapidità, s' ingenerò nelle
diverse provincie tale difformità di costumi da non rica-
varsene tratti che possano dirsi caratteristici di quel secolo.
Basterà quindi osservare che, malgrado la lunga durata delle
guerre, malgrado il diuturno andirivieni di armate straniere,
favorevole piuttosto alla corruzione dei popoli anziché al
buon costume ; malgrado la rapidissima successione di do-
minio francese, tedesco e spagnolo; malgrado la diversità
delle massime politiche e amministrative di quei diversi
governi, i costumi dell'Italia generalmente considerati, e
perciò quelli ancora di Roma, piegarono sempre per tutto
il secolo XVIII a graduale incivilimento, per cui spogliatisi
della ferocia inerente ai secoli anteriori, altro non fecero
.302
che ingentilirsi, e forse non anderebbe errato chi affermasse
avere gli Italiani tutti tratto un profitto dalle guerre, dai
rivolgimenti, e dalle incursioni straniere, contraendo quelle
abitudini che potevano rammorbidire maggiormente i loro
già non più rozzi costumi, ed amalgamando in se stessi la
dignità spagnola, il coraggio marziale alemanno, e la leg-
giadria delle maniere francesi. Che se all'uopo diedero
saggio non dubbio d' intrepidezza, di valore e di senno, è
anche da sperarsi che il moderno popolo Romano, quando
giungerà il momento della sua emancipazione, non si mo-
strerà degenere dalla stirpe italica, cui appartiene.
Dialetto. — Singolarissimo è il caso avvenutomi in Roma
quando richiesi la traduzione del consueto Dialogo. Io mi
era rivolto a rispettabili personaggi di quella capitale, ma
tutti procurarono di esimersi dal compiacermi, dichiarando
che in Roma non si usa se non il puro linguaggio italiano!
Nella Coraarca trovai chi si offerse a tradurre la parte del
Servitore, ma non già quella del Padrone^ in forza della con-
sueta protesta che i proprietarj ivi non conoscono che V idio-
ma italico! Vinsi finalmente la ripugnanza di un eruditissimo
illustre soggetto, Preside di un cospicuo Istituto, il quale con-
formandosi alla perfine ai miei desiderj, volse in romano vol-
gare il Dialogo, adoperando bensì una parafrasi anziché una
letterale versione, e ciò, giovò grandemente allo scopo.
303
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
BD un SUO SERVITORE.
Padrone. Ebbene, Balista,
hai tu eseguile tulle le com-
missioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino ;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città , ma
poi è piovuto tanto!
Padr. Che al solito sei sta*
lo a fare il poltrone in un'oste-
ria, per aspettare che spioves-
se! E perchè non hai preso
r ombrello ?
Serv. Per non portar quel-
l'impiccio; epoi jeri sera quan-
do andai a letto non pioveva
TRADUZIONE
NEL DIALETTO
ROMANO.
Majorengo. Embè Titta-
rello ? Hai spicciato ? Te sei
scordato de gnente? N'hai fatto
delle tua?
Sette PANELLE.*(7e da dine
cene? A memoria so l'asso
commanna òhi deve, obbedisce
chi pone, alle sdte meno lo
squarto le cianche mie stavano
in moto, a sette e mezza m'ero
fatto la mila della strada, a
otto e tre quarti m*Hntrufolavo
rientrenno in cittane, ma fio
de Dio ! Se ropriveno le ca-
taratte !
Major. Ce semo: ce scom-
rifletterebbe, che te sei inchiodato
a n osteria a aspettane che
spioviccica^se. E che omo sei?
Te fai paura de quattro gocce !
Aù. E mannaggia li mortacd
tua mannaggia, non te potevi
pijà no strac-ciaccio d'ombrello.
Sette pan. Sete caro voi!
me fate ride me fate. Piutto-
sto che portane quelV impiccio
1 Selle panelle, nome che si dà ai servitori, non mai sazii per il solito dì
mangiare.
304
più, se pioveva, pioveva po-
chissimo: stamani quando mi
sono alzato era tutto sereno,
e solamente a levata di sole
si è rannuvolato. Più tardi si
è alzato un gran vento, ma
invece di spazzare le nuvole,
ha portato una grandine che
ha durato mezz' ora, e poi
acqua a ciel rotto.
Padr. Cos\ vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto qua-
si niente di ciò che ti avevo
ordinato; non è vero?
Serv. Anzi spero che Ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
me contento de pijamme un
reruma; e poi la volete sen-
tilla? fen a sera quanno da
bene e mejo me corcai a fané
la ninna, o nun pioveva o
sgocciolava fino fino: ali arba
al riup'ì delti vetri, nà sere-
niià de paradiso: al levane
der sole poi, ecchete un cappello
nero nero: più tardi se scatena
un certo vento che me faceva
sbatte lebrocchette,^epoiguarda
che vento ! Invece da spazzola
le nuvilehà portato, bonagrazia
sua, na grannina che pareva-
no confetti, e ha durato una
gnagnera * de mezz' ora, e poi
bona notte eh' è notte: acqua
a secchi, e la pianara curreva
come er fiume: ve piace?
Major. Cosi chene ce sema
annati lisci, e dell' ordini mia
nun hai fatto nientaccio,
Settepan. Ma che ve
dite ? v' insognate voi: antro
che io so quello eh' ho fatto in
du ora de giro: la sanno ste
povere stajole.^
Major. Sentimo ste ma-
ravije.
* Sbattere le brocchetfe, tremar dei denti con rumore.
* Gnagnera f una bagatella. — ' Slajole, intendono gamba.
305
Serv. Nel tempo che pio-
veva mi sono fermato in bot-
tega del sarto, ed ho visto
con questi miei occhi racco-
modato il suo soprabito con
bavero e fodere nuove ; la sua
giubba nuova, e i pantaloni
colle staffe erano finiti, e la
sottoveste stava tagliandola.
Padr, Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo, e il calzolajo, e
di questi non ne hai cercato?
Serv. S\ signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio, e non gli mancava
che orlare il nuovo. Il cal-
zolajo poi aveva terminati gli
stivali, le scarpe grosse da
caccia, e gli scarpini da ballo.
Padr. Ma in casa di mio
Sette pan. Stentateme a
sentì staleme. Mica so tanto!
In ner tempo che pisciavano
r angiuktd me so fermato in
bottega del sartore, è co ste
lenteme lio visto, che v' ari-
comodava le [arde del copri-
miserio, cor bavero novo, e
puro le scorze del dereto. Er
giubbone turchino, e colli pan-
teloni colle staffe javeva datò
la benedizione javeva, e stava
sforbicenno er giustacore. Me
pare, che poro garantomo se
porti bene se porti.
Major. Meno male ! Ma
se te rompevi le cianche a fa
d' uantri passi appizzavidar
cappellaro, e dar carzolaro; ma
tu tosto dar sartore a vedene.
Sette pan. Dite voi. Titta
mica e Pasquino; er cappellaro
strufina, che t* aristrufina fa-
ceva aridiventà novo quer cap-
pello vostro che fu fatto quanno
se frabicone er culiseo, e a
quello novo ce mancava l' in-
fitucdatura. Er zugna * aveva
finitoli tromboni, e li favoni* per
annane a caccia, e li scarpini
per er minu^etto.
Major. Ma a casa de tata
i Zugna, vuol dir calzolajo.
> Favoni, scarpo grosse a lingua di bue.
20
306
padre quando sei andato,
che questo era T essenziale?
Serv. Appena spiovuto, ma
non vi ho trovato né suo padre,
né sua noadre, né suo zio, per-
ché jeri l' altro andarono in
villa, e vi hanno pernottato.
PiDR. Mio fratello però, o
sua moglie almeno sarà stata
in casa ?
Sèrv. No signore, perchè
avevano fatta una trottata, ed
avevano condotto il bambino
e la bambina.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa ?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor pa-
dre, la cameriera e due servi-
tori erano con sua cognata, e
il cocchiere avendo avuto l'or-
dine di attaccare i cavalli per
muoverli, se ne era andato col-
la carrozza.
* Ciucheltt, ragazze.
mia guanno ce sei annato eh?
Questo me doleva de piti.
Sette pan. E mica er
m4)nno fu fatto de botto ! quanno
spioverle io bello pulito annai
dove avevo d' annà ma feci
bucia. Né tata né mamma, né
zio . . . spanzione de Vienna.
Jeri se n crono annali alla
villa, ce hanno fatto la ninna,
e chi vò li turchi se l'ammazzi.
Major. Ma mi fratello e
mi cugnata ereno morti?
Sette pan. Ereno iti a
trottane verso papa Giulia e
s* ereno portati er maschietto
che zinna, e quelle du ciu-
chette^ tanto carine.
Major. Ma li servitori puro
ereno iti a trottane.
Sette Pan. Mamma mia !
Me parete un sorfarolo ! E
nun variscardate ! Er coco
era ito in campagna con tata
vostro, la cameriera e li du
settepanelle ereno annali con
vostra cugnata; e Sartapic-
chio er cucchiere, quer mentre
f aveveno ordinato de smovene
li cavalli, aveva attaccato lo
sterco e se nera annato verso
307
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
Serv. Non vi ho trovato
che il garzone di stalla, ed a
lui ho consegnato tutte le let-
tere, perchè le portasse a chi
doveva averle.
Padr. Meno male. E la
provvista per domani?
Serv. L' ho fatta : per
minestra ho preso della pa-
$ta, e intanto ho comprato
del formaggio e del burro.
Per accrescere il lesso di vi-
tella, ho preso un pezzo di
castrato. Il fritto lo farò di
cervello, di fegato e di car-
ciofi. Per umido ho compra-
to del majale, ed un anatra
da farsi col cavolo. E sicco-
me non ho trovato né tordi,
né starne, né beccacce, ri-
medierò con un tacchino da
cuocersi in forno.
Grotta Pallotta se nera.
Majer. Dunque a casa ce
se poteva giucane de spadone?
Cera Peste hcanna?
Sette pan. Fateve conto
fateve. Non ho aritrovato, che
ergarzene della stalla .... con
rispetto parlenno, e je ho affib-
biate tutte lettere, eje ho ditto:
fatte ajutà da chi sa legge, e
dalle a chi vanno. Fa pulito.
Najor. Te arimetto un pò
d' onore, ma domani s ha da
magna; ce hai pensato.
Sette pan. Ma guarda che
dimanne? Pe minestra ho preso
li maccabei, poi er cacio cor
butirro .... sarenella ! come
cresce ! a 46 dohii ! V alesso
de vitella m' è parso magretto
e V ho ajutato con un tocco de
castrato, che è da dipigne, e
a vedello t' arifiata. Er fritto
lo farone de cervello^ fedico,
e carciofeti. Peir umido un bel
pezzo de porco sarvo
dove me tocco, e n anetra, che
con quattro lenticchie ar sugo
ha da favve lecane le labre;
la ritmna era pulita: tordi,
staile, becoaccie, manco per
sogno. Embè pe* V arrosto a-
rimedierò co na tocchina, che
1
308
Padr. e del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perchè costava po-
chissimo.Ho compralosogliole,
triglie, razza, nasello e aliuste.
Padr. Così va benissimo.
Ma il parrucchiere non lavrai
potuto vedere?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e cioccolata,
così ho parlato anche a lui.
Padr. E che nuove ti ha
date?
Serv. Mi ha detto che
r opera in musica ha fatto
furore, ma che il ballo è stato
fischialo; che quel giovine
signore suo amico perde V al-
la mannerone ar forno con
quattro patatacce pe contorno.
Me pare eh?
Major. Ar pesce hai fatto
Sette pan. Me fate ride
me fate. Anzi me ne so ac-
chiappata una sporta perchè
ce n era le sette peste, e a
sette chiodi la libra : ho avuto
linguattole, gammarelle, porpi,
merluzzi, trijacce, e cefoli der
Trajano.
Major. Me fai venine r ac-
qua in bocca me fai! Che
pozzi esse benedetto pozzi esse:
Edimme na cosa:erperucchiere
nun averai potuto vedello eh?
Sette pan. E nun sta
appiccicato de bottega ar dru-
ghiere? Ebbe quanno ho crom-
pato, er zucchero, er pepe, la
cannella, garofeli e cioccolata,
ho ditto du parolette puro a lui.
Major. Si eh? E dì un pò:
che t^ ha ditto ?
Sette pan. Ma ditto che
l'opera è annata alle stelle,
ma che der ballo nun ve cu-
rate de sapello : li fischi se
sentivano alla sepoltura* de
* Far passo, non fare una cosa, frase che si desume dal giuoco del terziglio.
* La detta sepoltura esiste 5 miglia distante da Roma.
r"
309
tra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire colla diligenza.
Mi ha detto pure che la si-
gnora Lucietta ha congedato
il promesso sposo, e ha fatto
giuramento di non volerlo più.
Padr. Gelosie.... questa si
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
Nerone; che quer gioviìiotlo
amico vostro j quer signore...
me capite ? V antra sera ar
gioco arimanene quasi in ca-
micia, e che mo ne ha fatto
fagotto, e vorrebbe arzane er
tacco, e sbignassela in diligen-
za verso le Marche.... E....
sine adesso che m* aricordo,
la sora Luciola ha dato er-
ben servito ar promesso spo-
sino, e ha giurato e arigiurato
de nun volello vedene piune.
Ve piace ?
.Major. Begazzacci! gelu-
sic! uh! se rappattumeno,
Titta, se rappattumeno : me
vie da ride me vie, ma pen-
sarne alti casacci nostii pen-
sarne !
Sette pan. Ve vorrebbia
dì, SOI' padrone mio, che me
batte la bainetta, * che me
vorria sgrana na panella e
asciuttamme na lampena, e in
du zompi so quine a ricevene
li commanni vostri .. si ve
pare, si no...
Major. Te dirò : ho presda,
e ho d' uscine da casa : senti
prima quer che hai da fané.
Battere la bajonetla, iutendono quando hanno appetito.
L
310
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Conoandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara lutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli migliori;
tra i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
manchino né scodelle, né vas-
soj. Accomoda la credenza con
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Serv. E quali posate met-
terò in tavola?
Padr. Prendi i cucchiai
d'argento, le forchette e i
coltelli col manico d' avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini siano
quelli di cristallo arrotato. Ac-
comoda poi intorno alla tavola
le seggiole migliori.
e poi strozzete * e ariposete
quanto te pare.
Sette pan. Bona grazia
vostra. Questa è vostra scor^
za,* commannate.
Major. Per er magnimini
che avemo da fané, apparec-
chia tutto ner salone più mejo,
pija le tovaje, le sarviette...
me capischi ? le più fine. Pe
li piatti da de piccia a quelli
de porcellana, e bada che nun
manchino le scudelle per la
zuppa, e li gabarè. Fatte ono-
re per la credenza : lì se vede
r omo, ce vò simitria ; pera,
mela, uà, caco, mannole, con-
fetti, mostaccioli de Subiaco,
nocata è poi bottije a casca
senio intesi semo!
Sette pan. Punto è vir-
gola; e le posate quale ce
metto ?
Major. Pe li cacchiari,
quelli d' argento , le forchette
puro accosì. Pe li curtelli poi
caccia quelli cor manico bianco:
ohi, Titta, me scordavo er
mejo : bocce, bicchieri, bic-
chierini nun te venisse in
capo de mettene quelli de ve-
* strozzete, usano questa parola, per dira mangia.
' Scorza, intendono livrea, o fodera di vestito.
341
Serv. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna.
Tu sai quanto è stucchevole
quella vecchia! Metti in ordi-
ne la camera buona, fa' riem-
pire il saccone e ribattere le
materasse. Accomoda il letto
con lenzuola e federe le più
fini, e cuoprilo col zanzariere.
Empi la brocca di acqua, e
sulla catinella distendi un
asciugamano ordinario ed uno
fine. Fa' tutto in regola, e la
mancia non mancherà.
Serv. Per verità ella mi
ba ordinato molte cose, ma
farò tutto.
tro, sai ? Pija quelli de cri-
stallo arrotato. Nun te dico
niente delle sedie, tigna capa
le mejo delle mejo.
Sette pan. Una parola
è poco, e dua so troppe.
Major. Sai che sta sera
vie nonna. Sai che quella be-
nedetta vecchia è scontenta la
parte sua e quella der com-
pagno; metti in ordine la cam-
mera buona; fa ribattene li
cuscini e ermatarazzo ; fa
scopa e spazzola, leva le
tele de ragno dal letto, met-
tece le lenzuola pulite, le co-
perte belle, e accommodece lo
scuffino de crivellotto per le
zampane, si nò quella vecchia
strilla come na sarapica, E
•bella e bona nonna, ma è un
gran vissigante. Empi la broc-
ca, e in su la cunculina spie-
ghece er su bravo sciugatore..,
anzi dua, uno aarosì e un an-
tro fino : sai come so io. La-
vora in regola, e ér priffete
nun ce mancherà.
Sette Pan. Per esse
in capo ce ho na babilonia;
me avete commannate un muc-
chionede cosc.basta vederemo:
Santa Pupa m'ajuterane.
312
ABITANTI DI PESARO E LORO DIALETTO.
La soppressa legazione di Pesaro è Y antico Ducato
d'Urbino; nel quale erano comprese le Contee di Monte-
feltro e di Gubbio, la Massa Trabaria. la Signoria di Pesaro,
la Prefettura di Senigallia e il Vicariato di Mondavio. Alle
prische popolazioni dell' Umbria aveano tolto quel territorio
i Galli Senoni, tra le galliche orde i più arditi e i più in-
trepidi. È noto il valore con cui quei barbari oltramontani
resisterono alle romane Legioni: nel 474 di Roma restò
fiaccata la loro possanza alla battaglia del Sentino, sebbene
colla morte di P. Decio : pochi anni dopo M. Curio gli
sbaragliò completamente, forzandoli a riparare nelle limi-
trofe terre occupate dai compatriotti Boii ; i quali come è
noto, pretesero vendicare gli espulsi, ma dovettero invece
piegare anch'essi il collo al giogo romano. Nelle guerre
Puniche strepitosa fu la vittoria riportata presso le foci del
Metauro sull'esercito Cartaginese comandato da Asdrubale.
Ai tempi dell'invasione Gotica, sofferse Totila sanguinosa
disfatta alle falde del Furio, •ove il Cantiano confluisce col
Metauro. Nelle guerre fra gli Esarchi e i Longobardi anche
le popolazioni di questa contrada aveano proclamata la loro
libertà; se non che ai tempi di Federico di Svevia inco-
minciano le Signorie dei tirannelli feudali. È noto come venne
a formarsi il Ducato Urbinate dei Della Rovere, e come
gli ingranditi Pontefici ambirono, indi ottennero di incorpo-
rare nel loro Stato ancor questo Ducato. Fu Papa Urbano
Vili che ne prese il possesso.
Qui debbesi aggiungere che la fecondissima pianura in-
terposta tra i colli Ardizii e l'Adriatico, in altri tempi ingom-
bra di stagni e di marazzi, venne ridotta dalla mano industre
dell' uomo, in ridenti campagne in mezzo alle quali siede la
313
bella città di Pesaro presso la destra riva della Foglia, non lungi
alla sua foce. Ai tempi della Romana Repubblica esisteva
Pisaurum traversato anche allora dalla via Flaminia. Vuoisi
che nel 566 di Roma fosse ivi dedotta la prima colonia :
certo è che venuto questo luogo in potere di Cesare, dopo
il passaggio del Rubicone, godè il nome di Colonia Giulia
Felice. Mantenne infatti durante l'impero la sua floridezza,
ma nelle successive incursioni dei Goti fu dato a Pesaro più
volte il guasto, e Re Vitige distrusse una gran parte dei
suoi edifizj. Sotto gli auspicj del vittorioso Belisario fu
provveduto al riparo di così grave disastro : successivamente
se ne contrastarono il dominio gli Esarchi e i Longobardi
come città della Pentapoli; ma nelle guerre contro gli Im-
peratori iconoclasti si die il popolo in accomandigìa ai Pon-
tefici ; i quali riguardarono Pesaro qual propugnacolo della
Chiesa. Se non che Papa Clemente IV andava più oltre, in-
feudandone Giovanni Lo Zoppo figlio di Malatesta da Ver-
rucchio : si suscitarono allora faziose discordie cittadinesche ;
le pareti del signorile palazzo servirono di sanguinoso teatro
alla morte della sventurata Francesca da Rimini. Galeotto
Malatesta cedeva i suoi diritti alla nipote Costanza Varano,
che gli portò in dote negli Sforza. Essi sostennero per qual-
ghe tempo gli ereditarj diritti ; ma nel 4512 il fuocoso Pon-
tefice Giulio II ne volle la cessione, incorporando bensì indi
a non molto il Pesarese nel Ducato di Urbino a favore dei
Della Rovere, dei quali doverono i Pesaresi seguire la
sorte. Questi sono ricordi storico-topografici di una pro-
vincia deir Italia centrale, dai quali rilevar potremo per
induzioni, quali esser potessero i costumi, Y indole, il carat-
tere delle sue popolazioni: del loro vernacolo formi saggio
il consueto Dialogo.
3U
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
BD UN SUO SERVITORE .
Padrone. Ebbene, Batista,
bai tu eseguite tutte le com-
missioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città j ma
poi è piovuto tanto!
Padr. Che al solito sei sta*
to a fare il poltrone in un oste-
ria, per aspettare che spioves-
se! E perchè non bai preso
r ombrello ?
Serv. Per non portar quel-
l'impiccio; epoijeri sera quan-
do andai a letto non pioveva
più, se pioveva, pioveva po-
chissimo: stamani quando mi
sono alzato era tutto sereno,
e solamente a levata di sole
si è rannuvolato. Più. tardi si
è alzato un gran vento, ma
invece di spazzare le nuvole,
ha portato una grandine che
TRADUZIONE
NEL DIALETTO
PESARESE.
Patron. Di un pò su
Butiista, t'ha fat Mi gl'in-
cumbenz ch'a t'ho dal?
Servitor. a j assicur,
strissm, eh' a so stet più 'pun-
tai eh* a fho potut. Sta mat-
tina a sei or e un quart ai
era già p la strada ; a seti' or
e mezza ai era a mezza
strada, e a sett or e tre qudrt
ai entrava in città ; ma pò
r ha piovut tànt !
Patr. Ch'ai tu solit t'se
stet a fé 7 poltron in t'un
ostaria pr'asptè eh' lasciàss'
andè d' piova. E per co n t'ha
pres l'umbrell?
Serv. Pr en porta qui' tm-
picc; e pò jer sera quand
a f andò a leti en pioveva
più, s el pioveva el dava 7
gocc; sta mattina quand am
so alzàd V era pulit, e quand
l'è alzàd el sol solament l'è
tornad arnuvlà. Più tàrd pò
s' è alzàd un vent quànd mài,
ma in hc^d' arpulì 7 temp,
r ha fat' nà grandin eh' la ja
J
315
ha durato mezz' ora, e poi
acqua a ciel rotto.
Padr. Così vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto qua-
si niente di ciò che ti avevo
ordinato; non è vero?
Serv. Anzi spero che Ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr. Sentiamo le tue prò*
dezze.
Serv .Nel tempo che pioveva
mi sono fermato in bottega del
sarto, ed ho visto con questi
miei occhi raccomodato il suo
soprabito con bavero e fodere
nuove; la sua giubba nuova e i
pantaloni collestaffe erano finiti
eia sottoveste stava tagliandola.
Padr. Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo e il calzolajo, e di
questi non ne hai cercato?
Serv. Sì signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio , e non gli mancava
che orlare il nuovo. Il calzolajo
poi aveva terminati gli stivali/
le scarpe grosse da caccia, e
gli scarpini da ballo.
Padr. Ma in. casa di mio
]re quando sei andato ,
duràd mezzora, e pò dopo
un acqua eh' el dversàva.
Patr. In sta maniei^a
t'm'vo dà d'intenda cKen fha
fai squasi gnent d' quel eh' a
f avev' ordinàt, l* è vera ?
Serv. Anzi a speraria
eh' la fossa eontent quand la
javrà intes tutt' el gir eKai
ho fat in eittà in du oi\
Patr. Sentim V tu bravur,
Serv. Finintant eh' el pio-
veva a m so fermàd f la bot-
tega del sartor, e ai ho visi
sa st'ioeh el su soprabit ac-
cotnodàt sai bavre e la fodra
nova; la su giubba turchina
e i pantalon sa l' staf i era
fomit, e Vpanzin e 7 stava
tajand.
Patr. Va ben; mo li da
v' cin i sta el caplàr e 7 cai-
zolàr, e tu già a scmet ch'en
ni si andàt.
Serv. Onora si; el ca-
plàr l' arpuliva el su cappel
vecchi e n 'i mancava eh' a
tomai a orlai El calzolar pò
r aveva fnit i stivai e i scar-
poncel gross da caccia e i sca-
pin da balla.
Patr. Mo quand t'si sted
a casa d'mi pedr, eh' t era
316
che questo era l'essenziale?
Serv. Appena spiovuto,
ma non vi ho trovato né suo
padre, né sua madre, né suo
zio, perchéjeri l'altro andarono
in villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno sarà stata
in casa?
Serv. No Signore, perchè
avevano fatta una trottata, ed
avevano condotto il bambino
e le bambine.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa ?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor
padre, la cameriera e due ser-
vitori erano con sua cognata, e
il cocchiere avendo avuto l'or-
dine di attaccare i cavalli per
muoverli, se ne era andato col-
la carrozza verso Runcaja.
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
Serv. Non vi ho trovato
che il garzone di stalla, ed
a lui ho consegnate tutte le
lettere, perché le portasse a
chi doveva averle.
Padr. Meno male. E la
provvista per domani?
quelch'mamportàvapiù d*iutff
Serv. Subii ch'Ica lasciàd
andà d' piova ; ma en n ho
trovàd né su pedr, né su medr,
né su zi, perca jer l'àltr j
andò in campagna e f è ar-
masi malasù la noU.
Patr. Mi [radei prò o
almanc su mx)j la sarà stad'
in casa,
Serv. Gìiora no, percò
aveva fai na scampagnàda vers
S. Venza, e i aveva portai sa
lori 7 su fiol e 7 su fioli.
Patr. Mo anca f àltr %
era tuli fora ?
Serv. 'L eoe V er andad
in campagna sa su pedr; la
camberiera e i du servitor i
era sa su cognàda ; e 7 eoe-
chier chi f aveva dei d*mov'i
cavai, r era andad vers Run-
caja,
Padr. Dune en e era in-
sciun in casa?
Serv. £' n ho trovàd eh 7
moz d stalla, e % ho dai ma
In tutt le letlr per ciò cK eli
le porta ma chi gli ha d'ave.
Patr. E n è poc. E la
provista per dman ?
'ò\7
Serv. L'ho fatta : per mi-
nestra ho preso della pasta, e
intanto ho comprato del for-
maggio e del burro. Per ac-
crescere il lesso di vitella,
ho preso un pezzo di castra-
to. Il fritto lo farò di cer-
vello, di fegato e di carciofi.
Per umido ho comprato del
majale, ed un' anatra da farsi
col cavolo. E siccome non
ho trovato né tordi, né starne,
né beccacce, rimedieròcon un
tacchino da cuocersi in forno.
Padr. e del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perché costava po-
chissimo. Ho comprato so-
gliole e triglie, razza, nasello
e ali uste.
Padr. Così va benissimo.
Ma il parrucchiere non avrai
potuta vederlo ?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e cioccolata,
così ho parlato anche a lui.
Padr. Echenuoveti badate?
Serv. Mi ha detto che
Serv. A l'ai ho fatta:
per la minestra ai ho pris
la pasta e pò ai ho compràd
el formagg e 7 buttir. Per
via eh' ariesca più V alless ai
ho pres un pez d' castred. A
farò 7 fritt sai cervel e i scar-
dofn. Per l' umid ai ho com-
pràd un pò d'porc e un ani-
tra, eh' a la farò sa i cauL
E già eh' en n'ho trovàd né
i tord né gnanca le slam o
na bcaccia, a vdrò d' armedià
sa un gallinacc, cK alman-
darem a coda in tei forn.
Padr. En t' ha pres gnànt
d'pesc ?
Serv. Uu, a n ho pres un
mond, percò eh costava squasi
gnent. Ai ho compràd Isfpj,
i roscioj, la raggia, del pesce
lup e di astic.
Padr. Va bnon. Ma en
f avrà potutd veda mal pir-
rucchier ?
Serv. Siccome l'ha la bot-
tega davant a quella delpzicarol
do ch'ai ho pres el succhr,
el pep i garofn, la canella e
la cioculàda; in sta maniera
ai ho parlàd anca ma lo.
Vaj>k. E ch'novel t'ha dàt?
Serv. E l m'ha det eh' l'opra
318
r opera in musica ha fatto
furore, ma che il ballo è
stato fischiato; che quel gio-
vine signore suo amico perde
r altra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire con la diligenza
per Firenze. Mi ha detto pure
che la signora Lucietta ha con-
gedato il promesso sposo, e ha
fatto giuramento di non voler-
lo più.
Padr. Gelosie.... questa sì
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara tutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli miglio-
ri; tra i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
manchino né scodelle, nò vas-
chi canta ha fati un gran fu-
ror, ma eh* i a fischiàd el hai,
che quel sgnor, quel giovin,
quel eh' e amig su, l* altra sera
Vha perdut al giog tutte le
schmess, e cK adess V aspetta
la diligenza prandà a Sni-
gaja. El mha raccontàd ancora
chela sora Lucetta Va ia lasciad
andà quel che V a j aveva da
prenda e cKVa la latiràd ungiu-
rament eh' la nel vo veda piti.
Padr. 'Lsolit gelosi,,, que-
sto prò' la i è bella e da rida;
ma è mej a pensò per noi altr,
Serv. S'ia seontenta^ama-
gnarò un mors d' pan, a bovrò
un V chier d' vin e pò a tom
subit ma che a sentì cosa eh' la
vo.
Padr. Già ch'ai ho presda
e i ho da scapa, sta prima a
sentì cosa eh' a voj, e pò t'ma-
gnarà e t'arposarà quant' t'vo.
SerV. Ch' el dica pur su
quel eh' el vo,
Padr. Pel pranz eh' a i
ho da fa, t' ha da mani gni
cosa ma là ( la cambra piti
bona. Chiappa la tovaja e
l' salviett più finte ; pr' i piatt
t' a da sceja quei de pordo-
luna, e sta attentcKenn amanca
319
soj. Accomoda la credenza con
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Srry. e quali posate met-
terò in tavola?
Padr. Prendi i cucchiai
d'argento, le forchette e i
coltelli col manico d'avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini sia-
no quelli di cristallo arrotato.
Accomoda poi intorno alla ta-
vola le seggiole migliori.
Sery. Ella sarà servita
puntualmente. '
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna. Tu
sai quanto è stucchevole quella
vecchia! Metti in ordine la ca-
mera buona, fa'riempire il sac-
cone e ribattere le materasse.
Accomoda il letto con lenzuola
e federe le più fini, e cuoprilo col
zanzariere. Empi la brocca di
acqua, e sulla catinella disten-
di un asciugamano ordinario
ed uno fine. Fa'tutto in rego-
la, e la mancia non mancherà.
Serv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
né /' scodell né % schifeit. T'ha
(T aggiustè la credenza sa *
frutt, luva, l* noce, V mandai,
% cmfett e V bocc,
Serv. Ch' posàd a i ho da
metta a tavola?
Padr. T'ha da to i cuc-
chiàr d' argent e V fardn e i
cortei sci manig d'avori, en
t' scorda, de fa eh V bocc e %
6' chier e i b'chierin % sia quei
d' cristal arotad, D'intornalla
taola f ha d'aggiusta le sedj
le più bon.
Serv. El sarà servii com'la
dice.
Padr. e en te scordassi
cKsta sera vien mi nonna ve.
Tel sa quant la i è seccanta
qulla vecchia! Tha d'agguistà
la cambra bmia; fa metta
l foj tei pajacc e fa arbatla
7 mataraz. Accomodaci kit sai
lenzoj e le fodrett più finte, e
f i ha da metta qu Ila cosa
per le zampan. T ha da empi
el brocchett e sei cattin t* ha
da mette un sciugaman gross
e un fin. Fa tutt com va, ve',
eh' i avrà la mancia,
Serv. A di la verità, l ha
m' ha dei d' fa un mònd d' cos,
ma a vdrò de fa ogni cosa.
320
DIALETTO DELLA REPUBBLICA DI SAN HABINO
CON ILLUSTRAZIONI ETNOLOGICHE.
La Repubblica di S. Marino, quasi impercettibile nella
bilancia politica, in cui formano peso Y estensione e la forza,
sottraevasi in ogni tempo, per la sua piccolezza appunto
alle violenze della usurpazione. Nata con umili ma santi
auspicii, addiveniva il palladio della libertà nazionale, cuo-
prendolo coli' egida di uno statuto democratico ; e ciò non-
dimeno era rispettata per quattordici secoli, mentre Roma
conquistatrice del mondo, periva dopo il corso di soli sei. Il tor-
rente devastatore delle rivoluzioni sociali risparmiò sempre le
rupi del Titano: caddero gli imperi e i reami; la Repubblica di
S. Marino restò intatta, entro gli angustissimi confini che
ora verranno additati.
Nella pendice orientale di quei gioghi del toscano ap-
pennino, che portano il nome di Alpe della Lunay scaturisce
la Marecchia che mette foce neirAdriatico al disotto df Ri-
mini ; e nei monti di Carpegna che fronteggiano il confine
toscano del Sasso di Simone, nasce la Conca fluente an-
ch'essa nel mare per un alveo quasi allaltro parallelo. Di mezzo
a quei due fiumi, e distaccato al tutto dai poggi che lo ricingono
in emiciclo, elevasi il Titaiw, quasi superbo del nome suo,
conservatore di un vetustissimo mito, nel quale si ascondono
preziose tracce del primitivo italico incivilimento.
Quel vertice montuoso, ed altri tre circonvicini meno
però elevati, formano colle loro pendici tutta la Repubblica
di S^ Marino; la quale resta in certa guisa racchiusa fra
le due Provincie di Forlì e di Pesaro, con una superficie
di 16 miglia geografiche. In un così piccolo Stato nasce la
curiosità di conoscere il numero dei suoi abitanti ; ma quel
Governo non volle mai istituire una regolare anagrafi, per
324
CUI quei parrochi tengono avvolti nel mistero i registri dei
nati e dei morti, sebbene il popolo sappia benissimo che la
cifra della -popolazione è tra i settemila e i seimila, e più
vicina al secondo che al primo termine. Si avverta di più
che in forza di quella necessità che costringe periodicamente
qualche centinaio di campagnoli a procacciarsi la sussistenza
nelle circonvicine campagne durante il verno, la popolazione
si mantiene stazionaria, sebbene sia notabilmente maggiore
il numero delle morti di quello delle nascite.
Più lieto e più utile argomento offre il carattere mo-
rale di questa avventurosa famiglia repubblicana Dai limi-
trofi non è giustamente apprezzata la sua pubblica felicità,
gli stranieri poi conoscono appena di nome S. Marino: certo
è però che se i suoi abitanti non godono i grandi piaceri
cittadineschi, nemmeno sono tormentati dalle tristissime con-
seguenze del fasto vanitoso, dell'ambizione e del lusso, e
godono di una quiete invidiabile. La moralità dei costumi
è perciò in questa Repubblica più che altrove rispettata:
rarissimi sono ivi i delitti ; quelle pacifiche famiglie non sono
disturbale dal sospetto di latrocinìi e di furti. Il gentil sesso
della classe agiata mostrasi all'uopo in addobbo elegante,
ma per tornare ben tosto ad usar vesti di somma semplicità.
La saggezza degli ordinamenti governativi rese i Sanma-
rinesi generalmente inclinevoli al bene oprare, ne addolcì
l'indole, gli rese cortesi, leali, sobrii, religiosi senza su-
perstizione, passionatamente ospitali. In mezzo a sì nobili
virtù trasparisce qualche volta la fierezza di animo repub-
blicano, nel risentimento provocato da un qualche forestiero
rifugiato, che conculchi i doveri dell'ospitalità facilmente
ottenuta ; tanto più che tra le passioni- ad ogni uomo co-
muni predomina la collera, la quale però quasi mai arma
la mano del Sanmarinese che voglia disfogare il suo sdegno:
quell'ira suol esser brevissima, rapidamente succedendole
21
322
la consueta calma. Vorrei coronare quest' articolo colla di-
mostrazione del prodigio che in questa Repubblica non al-
lignò giammai il mal germe della demagogia, ma questo
delicatissimo punto storico converrebbe dilucidarlo con lunghe
investigazioni estranee allo scopo. Del DialettOj molto con-
forme al Romagnolo, ma con preferenza più gutturale, darà
saggio il consueto seguente Dialogo.
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
ED UN SUO SERVITORE.
Padrone. Ebbene, Batista,
bai tu eseguite tutte le com-
missioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino ;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città j ma
poi è piovuto tanto!
Padr. Che al solito sei sta*
to a fare il poltrone in uci oste-
ria, per aspettare che spioves-
se! E perchè non hai preso
r ombrello ?
Serv. Per non portar quel-
l'impiccio; epoi jeri sera quan-
do andai a letto non pioveva
più, se pioveva, pioveva po-
chissimo : stamani quando mi
sono alzato era tutto sereno,
e solamente a levata di sole
si è rannuvolato. Più tardi si
è alzato un gran vento, ma
invece di spazzare le nuvole,
ha portato una grandine che
TRADUZIONE
NEL. DIALETTO
DI SAN MARINO.
Padrone. E csé Batesla et
fatt iutt quel e a tho delt.
Servidore. Sgnor, lus ac-
certa pu ca no lascied njent
indrì per quant a jo podud.
Sta matteria a sei or e un
quért a jera già per strada,
al seti e mezz a n aveva fatt
la mila, e agitoti e tre quért
aj entréva atla città, mapù e
piuveva tant fort !
Padr. Che sgond e solita
{ saré stéd a birbaccion a
tlostaria per sté d^ asptand
cun piuvess più. E perchè
Vnè tolt lumbréla?
Serv. Per no porte crin-
trigh; e più irsera quand
andid a lett un piuveva più,
se piuveva V era una cosa
d' gnint ; e sta maténa quand
am so alzed su l* era un beli
temp, ma a si' alzé de sol u
se arnuvléd. Dop Va did su
un gran vent, ma invec d'man-
de vi % nuvl, r è vnud una
gran tempesta e la ja duréd
324
ha durato mezz' ora, e poi
acqua a ciel rotto.
Padr. Così vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto qua-
si niente di ciò che ti avevo
ordinato; non è vero?
Serv. Anzi spero che Ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto peir città
in due ore.
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
SERv.Neltempoche pioveva
mi sono fermato in bottega del
sarto, ed -ho visto con questi
miei occhi raccomodato il suo
soprabito con bavero e fodere
nuove; la sua giubba nuova e i
pantalonicoUestaffe erano finiti
eia sottovestesta va tagliandola.
Padr. Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo e il calzolajo, e di
questi non ne hai cercato?
Serv. Sì signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio, e non gli mancava
che orlare il nuovo. Il calzolajo
poi aveva terminati gli stivali,
le scarpe grosse da eaccia, e
gli scarpini da ballo.
Padr. Ma in casa di mio
padre quando sei andato,
mezz ora, epu Va fati d'iac-
qua e' la vniva giù a sisecch\
Padr. In st' mod lem vò
de ad intenda eh' tnè fattgnint
d' quell ca t'aveva cmandéd;
une vera?
Serv. Enzi a jo fede da
sarà cuntent ; quand la co-
noscrà ch'in do or a jo giréd
tutt la città.
Padr. Sentimma /' tu hra-
vuri.
Serv. Quand' e' piuveva
am so tratnud da e sartor, e
ajò vdud acomdéd e su pachess
con la fodra e e bavr nov ;
la su giubba turchina, e i
calzon a sii staffi j era finid,
e e curpett ul tajéva alora.
Padr. Questa la va ben
Ma poc d' limién u jera ènea
e caplér, e e calzulér, e da
lor /' uni se andéd ?
Serv. Sì signoi* : E ca-
plér r arpuliva e su capcll
vecchj, e uni restava che d'fé
r urei a me capell nov, E
calzulér l' aveva fnid i stivil
i scarpon- da caccia, e i scar-
più da balle.
Padr. Ma at chésa de mi
bah, quand i set stéd, che
325
che qqesto era l'essenziale?
Serv. Appena spiovuto,
ma non vi ho trovato né suo
padre, né sua Quadre, né suo
zio, perchèjeri l'altro andarono
in villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua nìoglie almeno sarà stata
in casa?
Serv.. No Signore, perchè
avevano fatta una trottata, ed
avevano condotto il bambino
e le bambine.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa ?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor
padre, la cameriera e due ser-
vitori erano con sua cognata, e
il cocchiere avendo avuto l'or-
dine di attaccare i cavalli per
muoverli, se ne era andato col-
la carrozza verso Setravalle.
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
Serv. Non vi ho trovato
che il garzone di stalla, ed
a lui ho consegnate tutte le
lettere, perché le portasse a
chi doveva averle.
Padr. Meno male. E la
provvista per domani?
guest l'era e più ?
Serv. Qiiand l'a fnid
d* pkva Ma u njera né e su
bah, né la su marna, né e su
zìi, perchè pass jir f andò in
campagna, e i stid ènea a
dormì,
Padr. E' mi fradel pevò,
e la su dona i sarà stéd ai
chésa.
Serv. Non signor, perchè
f aveva fati una corrida a
cavali a Mongiardén ej aveva
mnéd dri e burdel sai burdeli.
Padr. Ma i servitùr fera
luti fora d' chésa ?
Serv. E cogh l'era andéd
fora in campagna a te su bab,
la serva e i du servitùr fera
a sia sii cognéda, e e cochiér
eh' r aveva avud ordin d'ta-
che i cavali per mnéj a spass,
V andéva a se legn vers Ser-
ravall.
Padr. Donca at chésa un
jera più nissun ?
Serv. An jo truved che
e stallir e am lu a jo con-
sgnéd iutt lì lettr perchè ul
dass am chi gì' aveva d'ave,
Padr. A csè un jé mèi
Ma la spesa per dmén ?
326
Serv. L'ho fatta : per mi-
nestra ho preso della pasta, e
intanto ho comprato del for-
màggio e del burro. Per ac-
crescere il lesso di vitella,
ho preso un pezzo di castra-
to. Il fritto lo farò di cer-
vello, di fegato e di carciofi.
Per umido ho comprato del
majale, ed un' anatra da farsi
col cavolo. E siccome non
ho trovato né tordi, né starne,
né beccacce, rimedierò con un
tacchino da cuocersi in forno.
Pa0R. e del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perchè costava po-
chissimo. Ho comprato so-
gliole e triglie, razza,. nasello
e ali uste.
Padr. Così va benissimo.
Ma il parrucchiere non avrai
potuto vederlo?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e cioccolata,
così ho parlato anche a lui.
Padr. Echenuoveti badate?
Serv. Mi ha detto che
Serv. A la jò fata. Per
la minestra a jò pres el pasti,
e intént a jò compréd de fur-
majy e de butir. "Per fé la
giunta am l'aless dia vitela
am so fatt de un pezz d' ca-
stréd. E frit al farò d^cei^el,
d* curadela, e d scarciofl. Per
e stuféd a jò compred de ba-
ghìn, e un endra da fas a si
chévl. E n avend potud truvé
né tord, né slérni, e né bec-
caci aj armidierò sa v.na ga-
linaccia, e ala cusgrò a te forn.
Padr. E e' pese te n tè
cumpréd?
Serv. Enzi a nho cum-
préd un bel póc, perché l' era
a bon merchéd : a j ho toh
l' sfoji r trij, la ragia, de
merluz, e di barbun.
Padr. A csé la va buon.
Ma e barbir ten Vavré vdud?
Serv. Enzi siccom V ha
la buttega tachéda am quella
dov US vend el spezj e dov
aj Ito cumpréd e zucre, e pe-
vre, la canela, e i garofne, e
la ciuvlada, e csé aj ho di-
scors anch sa lu.
PADR.CAe novi t' hai modéd?
Serv. U m'ha ditt,cK l'opra
327
Y Opera in musica ha fatto
furore , ma che il ballo è
stato fischiato; che quel gio-
vine signore suo amico perde
r altra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire con la diligenza
per Firenze. Mi ha detto pure
che la signora Lucietta ha con-
gedato il promesso sposo, e ha
fatto giuramento di non voler-
lo più.
Padr. Gelosie.... questa sì
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino^
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara tutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli miglio-
ri; tra i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
manchino né «codelle, né vas-
in musica la ja piasgiud molt
ben, ma che e bai i l* ha fi-
schiéd : che che giovnott su
amigh V ha perdud a e giogh
tuli* el scomessi, e che adess
V aspetéva la posta per un-
désne a Rimne, Urna diti
ancora eh' la sgnora Lucia la
ja ded licenza a mVinnamu-
red cu l aveva da spùsè, e
eh' la a giuréd d* no vlel più
a m li schérpi.
Padr. La sarà gelosa. . .
Ve una una cosa da rida !
ma discoremma de fati nost.
Serv. S*Ja s' cùnienia a
magn un pezz d* pén, e a
begh un bicchjìr d' vén e pu
a sarò subt da li.
Padr. Siccom a j ho.pre-
scia d' scapé da chésa, seni
prima quel eh' a voj, e dop
( magnare, e (dumiirè guani
t' vo.
Serv. La cmandapu.
Padr. Per e pranz ca em
da fé manissi gni cosa a tla
séla piii bela Tè da io la
Ivaja, e % fvajol più bon ; di
piati cappa quei drnajolga, e
fa cui sia l' soudeli, e i schi-
feti. Prepara a slq, credenza
328
soj. Accomoda la credenza con
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Skrv. e quali posate met-
terò in tavola ?
Padr. Prendi i cucchiai
d'argento, le forchette e i
coltelli col manico d' avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini sia-
no quelli di cristallo arrotato.
Accomoda poi intorno alla ta-
vola le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna. Tu
sai quanto è stucchevole quella
vecchia! Metti in ordine la ca-
mera buona, faViempire il sac-
cone e ribattere le materasse.
Accomoda il letto con lenzuola
efedere le più fini, e cuoprilpcol
zanzariere. Empi la brocca di
acqua, e sulla catinella disten-
di un asciugamano ordinario
ed uno fine. Fa'tutto in rego-
la, e la mancia non mancherà.
Serv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
i fruii f V uva, el nusgi, già-
mandaliy i cunfett, e i boci de
ven.
Serv. Che posadi oj da
filetta a sia tévla?
. Padr. To i cucchjer dar-
geni, e V furcèni^ e % eurtell a
se mandgh d' avarie, e ar-
coì*dt, che V boci, i bicchijry e
i bicchijren i sia d'cristall ar-
rodéd. Metfpu intond a la
tévla el sedi] più boni.
Serv. A farai tuli com l'ha
ma ditt.
Padr. Arcordt che stasera
e ven la mi mona. T sé qrnni
la jè nujosa da vechia, Ac-
comda ben la sténza bona.
Fa rimpì e'pajacc, e fa ar-
batta i matarasz, Mett a se
leti % lenzol, e V fudretti più
féni, e covrell a sii tendi. Mei-
t' l'acqua atlurdóla, e sovra
e cadèn stendie un sciugamén
ordinarie, e un di fèn. Fa
ben ben gnì cosa, e t' avrò la
méncia.
Serv. Per dila com, la sta,
la m'ha cmandéd dli gran
cosi. Ma al farò tutti.
III.
PRINCIPALI DIALETTI
DELL' ITALIA MERIDIONALE
CON
ILLUSTRAZIONI ETNOLOGICHE.
Col perlustrare le contrade dell' alta Italia e della cen-
trale, giunsi finalmente sulle rive del Garigliano ; di quel
fiume povero di acque, ma non di celebrità, •che nei tra-
scorai tèmpi col nome di Livi formò confine tra i popoli
del Lazip e i voluttuosi abitatori della Campania felice. Nella
quale non senza grande emozione io posi il piede ; riscosso
dapprima dai famigerati ricordi storici che si affollavano
alla mente ; compreso poi di meraviglia per la moltiplicità
dei maestosi avanzi della romana grandezza ; e dopo quelle
prime sorprese inebriato dalle delizie che natura prodigar
volle a quel suolo beato.
Nelle Provincie infatti che imprendo ad illustrare, la
natura dispiega tutta la potenza delle sue seduzioni e dei
suoi terrori; si che prodigioso- è da riguardarsi l'ardimento
degli abitanti di restare impavidi iti mezzo alle rume, per
mantenersi il possesso d' un suolo che sembra incantato. Ivi
intanto fu collocato W mitico palagio di Circe dalla fantasia
330
degli antichi poeti ; poscia gli Ausodii ed i Siculi, erranti
su quelle ripe, vennero a costituire con gli Esperidi r£notro-
Italico consorzio, che gli adescò a fermare il don)icilio in
mezzo a campi, resi ridenti dalla umana industria di messi
sative e di vigne. A quei remoti ietùpì sembra che risalga
la portentosa alternativa delle eruzioni vulcaniche e delle*
invasioni : gli Etruschi, i Sanniti, gli Elioni e i prepotenti
Romsrni ; indi barbari sciami di conquistatori Longobardi,
Normanni. Svevi, Provenzali, Spagnoli : tutte quelle orde
straniere scortate fino alle falde del Vesuvio dal solo diritto
del più forte, vennero a familiarizzarsi con le razze primi-
mitive, addivenute ormai nazionali, e per la benignità del
clima ospitaliere e pacifiche.
Ma quell'energica rotazione del mondo materiale e del
civile quanti germi non contiene di fisiche dottrine e di po-
litici assiomi ? A tutti non è dato di poter calcare con franco
pie la classica terra, che resero sacra gli albori dell* Italico
incivilimento; che dal genio di Pittagora ricevè i primi
dogmi filosofici ; che addivenuta più tardi la privilegiata
contrada delle grandi inspirazioni, presentò con singolare
fenonoeno la coesistenza degli assiomi numerici e della sot<
tigliezza scolastica, dello spiritualismo filosofico e della
Scuola di Salerno, del Diritto Romano e delle antiche leggi
feudali. Tuttociò avveniva per opra dei fervidi ingegni, i quali
neir Italia meridionale in ogni età ebbero la cuna ; prova
ne sia che nel decorso secolo ivi apparve il fondatore della
metafisica della storia Giovan Battista Vico, cui tenne dietro
l'eruditissimo Minervino ; i quali per aver tentato spezzare
i ceppi della servilità scolastica e levare il velo in che
tenevasi adombrata la verità storica, per. mostrare irradiata
di sì bella luce la loro Scienza Nuova, si suscitarono contro
la rabbia ferina del pedantismo ; tanto che fino ai dì nostri
i biografi meno avversi alla sana critica gli accusarono di
334
intemperanza nello abusare dell' ingegno, anziché .far plauso
ai loip sublimi concetti.
Abitanti. — ì pochi cenni storici di sopra registrati
dimostrano Y importanza delle seguenti investigazioni sul
carattere fìsico-moralQ degli abitanti di questi paesi nie-
ridionali di Italia. È noto per la storia, che questa estrema
parte della bella Penisola andò di buon ora soggetta a fre-
quenti invasioni, più volte rinnuovate da popolazioni di razze
diverse, di alcune delle quali restano tuttora, impronte ca-
ratteristiche. A ciò si aggiunga, che se il cielo delle napo-
litano Provincie è da per tutto ridente, variabilissimo però
ne è il clima, per influsso di fisiche specialità locali. E ove
è chi ignori la valida possanza delle condizioni atmosferiche
sul temperaménto fisico-morale dell* uomo? Certo è, che in
forza di naturali cagioni si incontrano fisionomie, inclinazioni,
abitudini svariatissime negli abitanti delle principali vallate,
poste a levante ed a ponente della catena dell'Appenino.
E incominciando dagli Abruzzi giovi il ricordare, che
neir Ulteriore o di Teramo abitarono nei prischi tempi Siculi
ed Osci, cacciati poi dagli Umbri; che Y Ulteriore o Chietino
fu occupato da' Sabini e-^Peligni, e che il Citerioi^e appar-
tenne a' Marrucini e Frentani di stirpe sannitica. É noto
che quelle popolazioni furono animate da spirito marziale,
chele rese formidabili, perchè le loro soldatesche erano formate
di uomini robustissimi , laboriósi, frugali, e non avversi ad
ordinata disciplina. Quel carattere originario non restò al
tutto estinto, comecché l'Abruzzo abbia dovuto subire in
diversi tempi i più gravi sconvolgimenti politici. Il clima e
le altre ragioni fisiche, non soggette al predominio della forza
umana, conservarono ai moderni Abruzzesi robustezza di
membra, statura elevata più che in ogni altra parte deHe
Provincie, venusta regolarità nei tratti del volto. Oltredichè
si perpetuò tra essi Y amore alla fatica, perseveranza nel
332
sopportarla, ingegno pronto e sagace. I montanari degli
Abruzzi, non diffidenti né dissimulati, accolgono lo straniero
con lieta cortesia. Se taluno lordasi di qualche misfatto, ciò
accade quasi costantemente in vicinanza delle provincie dello
stato pontifìcio, ed in passato per cause funestissime della
linea doganale, provocatrice in tutta Italia di continui delitti:
ora poi che formarono iniquissima lega l'usurpazione e la
tirannide, armando il brigantaggio, per tenere travagliate
dal disordine le abruzzesi provincie, è molto facile che re-
stino talvolta confusi con quei facinorosi i buoni e pacifici abi-
tanti di quei paesi. Aggiungerò intanto che le donne delle cam-
pagne abruzzesi, indurite alle fatiche come le antiche Sabine
dalle quali derivano,conservano pur nondimeno venuste forme,
e quel che è più, le abitudini di luoghi alpestri; sostengono
infatti con virile assennatezza le cure domestiche' nei mesi di
autunno e di inverno, duranti i quali i robusti mariti ed i
giovani scendono colle mandre nelle pianure della Puglia. ^
Nel territorio di Molise abitarono Frenlani e Sanniti,
eccellenti agricoltori e perciò molto ricchi ; audaci in guerra
più che coraggiosi; difenseri acerrimi della loro libertà, per
conservar la quale addivennero talvolta fraudolenti e furi-
bondi sino alla crudeltà nelle vendette contro i loro ne-
mici. La moderna popolazione di questa contrada è di
ordinario di media statura, ma non senza robustezza di corpo.
Le montanine e le campagnole alternano coi loro congiunti
le cure della pastorizia e le lavorazioni del terreno : se non
che merita speciale avvertenza una costumanza di vene-
randa giustizia conservata in quel Con(a(io, specialmente
lungo le pendici del Matese, ove le femmine partecipano
alle divisioni patrimoniali come i masòhi, sostenendo al
paro di essi il peso delle fatiche; e ciò in forza di
vetustissimo statuto manifestamente fondato sopra legge di
natura. La classe agiata è affabile e non incolta: il popolo
333
minutò delle terre primarie ama il vino soverchiamente, ma
prova vergogna se si trovi costretto a mendicare: gli arti-
giani delle campagne sono rozzi, ma di buona fede e di non
comune cordialità. L'immondezza rimproverata agli antichi
Sanniti più non trovasi che nella valle di Bojano, e nelle
sue adiacenze, tra Sepino ed Isernio: ivi è molta rozzezza
degli abitanti, condannati a cattivo nutrimento, resi luridi
da cenciose e sordide vesti ; basti il dire che i loro calzari
consistono in sacchetti di pelle di asino non concia, legati
sopra i malleoli con cordicelle.
La Puglia, già occupata da Dauni e Peucezii dalle adia-
cenze del Gargano fin presso Brindisi ; la Basilicata, che
diede ricovero ai Lucani derivanti dai Sanniti ; del pari che
la moderna Valabria bagnata dal Tirreno e che fu invasa
dai Bruzii pertinenti anch' essi a colonie Sannitiche, ebbero
in quegli invasori uomini prodi nell'armi, operosi in tempo
di pace, e arricchiti dall' industria, ma spesso travagliati
dalle corse ostili di avidi invasori. Quelle popolazioni poi
che si distesero lungo le spiagge del mare Ionio, come pro-
venienti dalla Grecia, seco apportarono i pregi di quella ce-
lebre nazione, ma ben anche i suoi vizj ; nei quali immer-
gendosi sozzamente alcune di quelle razze Elleniche, e in
special modo la Sibaritica, offersero materia al proverbiare
umiliante della tarda posterità! L'attuale popolazione della
Puglia, di Basilicata, delle Calabrie conserva più o meno il
carattere fisico-morale dei vetusti suoi progenitori. Hanno
i maschi media statura, robusta complessione, colorito oli-
vastro : il campagnolo è laborioso e temperante, non manca
d'ingegno e non si rifiuta all'ospitalità, ma è irascibile e
molto geloso : la bassa gente è rustica assai e sozza di
vesti come di costumi. Quella classe sventurata se resti op-
pressa soverchiamente dalla, miseria, oppure 'si abbandoni
ai trasporti della- rissa e della gelosia o agli abusi del vino,
334
cade facilmente nelle vie del delitto, mostrandosi poi ben
poco propensa ad abbandonarle. Nelle famiglie dei possidenti,
ancorché discretamente agiati sarebbero comuni i nobili in-
gegni, siccome ancora nrel popolo minuto ; ma la mancanza
d' istruzione rende spesso inutile quel prezioso dono di na-
tura : se sotto il benigno cielo di quelle fertili e ridenti con-
trade più non si trovano Sibariti rotti nelle libidini, molti
padri di famiglia però vegetano in oziosa ignavia senza
darsi la menoma cura delV educazione dei figli e nemmeno
del miglioramento di loro fortuna. In qualche parte si con-
servò l'odioso germe della a\ala fede greca apportatavi da-
gli invasori : altrove produce tuttora funesti frutti V altra non
meno pestifera semenza sparsavi dai conquistatori oltramon-
tani, di odii cioè mantenuti eterni tra le famiglie; perchè
trasfusi nei figli e nei nipoti.
Risalendo verso le due provincie del Principato, si ri-
trovano i successori degli antichi Sanniti, degli Irpini, dei Pi-
centini e dei Lucani, razze valorose, forti, rese irrequiete da
vigoria di temperamento. Gli abitatori della Valle del Sele
e di tutte quelle adiacenze componenti il Principato Citeriore,
hanno svelta statura e membra robuste. I tnodi di vivere
dei possidenti e delle persone civilmente educate sono assai
decenti e ingentiliti dair affabilità. Il contadino in qualche
sito è industrioso, e vince col lavoro la sterilità stessa del
terreno : altrove mostrasi avverso ali* agricoltura, solamente
intento a maneggiare la ronca ed a guidare gli armenti,
specialmente nelle pianure di Campagna e di Eboli ; ivi
perciò la classe dei campagnoli è rozza e meschina. In ge-
nerale gli abitanti di questa provincia sono sagaci di mente,
ospitali, sensibili alle^ cfffese di onore, soverchiamente pronti
air ira ; e ciò nel popolo minuto rende frei^uenti le risse,
le vendette, i misfatti. La salubrità del clima contribuisce
energicamente a mantenere robusta e vivace la razza degli
335
abitanti del Principato Ulteriore : ivi nella classe colta è inòlto
brio, aCTabìIità, propensione all' amicizia e sincera ospitalità.
II popolo si lascia trasportare dall' ira e dalle vendette,
specialmente ove l' ozio, 'il giuoco ed il vino lo distolgono
dal menare vita operosa. In generale questa popolazione è
assai più attiva, pia disposta a sostener, le fatiche ed al-
l' esercizio delle arti, che quelle della limitrofa Campania
.0 Terra di Lavoro.
Sulle pendici dalle quali discendono nel Tirreno il Ga-
rigliano e il Volturno, e nelle coste marittime chiuse Ira il
Lago di Fondi ed il Capo della Campanella, abitarono nei
prischi tempi quegli Ausònii ed Osci che produssero le più
valorose tra le tante razze italiche della Penisola. Ma in un
paese ove le beate delizie dei Campi Elisi facevano ardi*
tamente disprezzare le concitazioni devastatrici dei Campi
Flegrei, fermarono avidamente il domicilio varie orde d' in-
vasori, i quali promiscuando poi le razze una ne vennero
a produrre di caratteristiche ben distinte. L' aere purissimo
che respirasi* ovunque non insta^nano marazzi ; la dolce be-
nignità di un cielo oltremodo ridente, l'energica potenza
della natura nel ricuoprire di preziosi frutti un terreno ca»
lido e feracissimo ; la vista perpetua di poggi, pianure e
colline di breve tratto e tutte ridentissime ; gli stessi fuo-
chi vulcanici, sono altrettante cause di potentissima influenza
sull'indole fisico-morale degli abitatori àeW^ Campania Fe-
lice. Animati da briosa vivacità, forniti di ingegno svegliato
e fervidissimo, costituirebbero tal nobile e gloriosa fairiiglia,
da primeggiare sopra ogn' altra d' Italia, se l' istruzione resa
- .veramente pubblica e popolare, togliesse la minuta parte
degli abitanti delle città e delle terre più popolose dal-
l' oziare nelìa ignavia, se adescasse il contadino a maggiore
attività col frutto di metodi migliorati, se stimolasse l'ar-
tigiano ad utili raffinamenti con ben dirette applicazioni
336
seientifiche, se svegliasse insomma dal sonno* gli agiati pos-
sìden,ti di così ricca e deliziosa provincia !
Di speciale importanza riusciranno al certo le notizie
che ora darò sul carattere fisico-morale degli abitanti di
Nnpolii proponendomi di esporre la verità con tutto il can-
dore e senza occultarla sotto il velame di un soverchio
amor patrio. Molto si è scritto (Jagli storiografi, o a .dir
meglio dai viaggiatori stranieri, sull'indole del popolo napo-
litano; pochissimi si son mostrati disappassionati nel giudi-
carne, perchè con indiscreta leggerezza quasi tutti hanno ri-
petuto ciò che ne scrissero nel decorso secolo il Montesquieu,
Lalande e il Dupaty, senza tener conto dei cambiamenti
notabilissimi accaduti in forza delle concitazioni politiche di
questi ultimi tempi. È innegabile che la molta dolcezza del
clima, la prodigiosa feracità del suolo, i copiosi prodotti
trasportati su^le navi, quelli che il mare depone sulla stessa
spiaggia urbana, rendono il popolo della vasta capitale ne-
ghittosOj proclive all'ozio, indi poco costumato: L'aere più
caldo che tepido facea si che la plebaglia andasse in pas-
sato seminuda; e contenta di dormire all'aria aperta, si cer-
casse al più un asilo sotto logge o in qualche vestibolo nelle
notti. invernali : ed è altresì vero, che pon pensando mai al-
l' indomane, Idvorava il plebeo quanto bastar potesse a non
morire per fame, ma col volger degli anni le costumanze
cambiarono ; lo proveremo.
Gli umani' disordini hanno tutti una causa, e per legge
eterna della natura ognuno di essi ha un appropriato ri-
medio: lo apprestarlo opportunamente è sacr-o e principal
dovere dei dominanti. 1 vizj popolari sono piaghe sociali
prodotte da cattive leggi, da pravi ordinamenti governativi,
da superbia e perfidia di dispotismo : se chi si succede nel-
l'esercizio del supremo potere lascia quelle piaghe' senza
cura, si espone a obbrobriosa condanna umana e divina.
J
337
Ciò premesso, additeremo a qual classe di popolo diasi in
Napoli il nome di Lazzari o Laszarotii.
Fra le tante sciagure che oppressero 'il reame di Na-
poli nel dominio Spagnolo, primeggiò quella dei Viceré: nei
successivi cenni storici dimostrerò quanto danno arrecassero
alla civiltà Italiana di questa meridionale contrada, introdu*
CQndo quei Grandi, boria, alterezza, fasto rovinoso, prodiga-
lità sostenuta con ruberie fiscali, ed ignoranza profonda. In
quel regime funestissimo che oppresse il regno napolitano
dai tempi del fatale Carlo V fino alla prima metà del de-
corso secolo, la capitale si riempì di servitù domestica, di
oziosi venturieri, di gentaglia che vivea" con mezzi delit-
tuosi. Ben presto quella pessima lega^di basso popolo
cadde nell'estrema miseria ; e perchè vennero a mancare
anche i mezzi a quei meschini di ben cuoprire la nudità,
i fastosi dominatori stranieri ebbero la inverecondia di di-
leggiarli coi nomi di Lazzari o seminudi, detti poi anche
Lazzaróni per l'obesità non rara in chi cibasi quasi del
continuo di sola pasta bollita. Prendeva quindi il nome di
Lazzaro, chi per brama d'oziare davasi. a vita quasi di
bruto ; perdeva quel nome umiliante, toslochè si fosse de-
dicato all'esercizio di un qualche mestiere. In tal guisa venne
a formarsi una classe plebea tanto numerosa, che il Mon-
tesquieu fece ascenderla ai 60,000, ed il Lalande ai 40,000,
stando probabilmente alle relazioni ricevute, ma che non
fu al certo meno numerosa di 30,000 ; comecché il censo
non pervenisse mai a sommarla pel suo modo vagante di
vivere. Quei miserabili erano audaci, del continuo intenti
al rubacchiare, proclivi ai tumulti. I Viceré, per aumen-
tare le vergogne degli Italiani, davano ai Lazzari il deco-
roso nome di popolo, tolleravano che annualmente si eleg-
gessero un capo ad alte grida, davano accesso nella reggia
ai Deputati loro se apportavano lagnanze. Frattanto vale-
i.
338
vansi air uopo astutamente di quella plebaglia, per sostenere
r autorità del comando nei frequentissimi malcontenti della
classe superiore/ non senza esporsi a pagare aspramente il
fio di quella loro imprudenza, siccome accadde nella ribel-
lione del Capo-Lazzaro Aniello. Cessato il viceregno, non
ebbero i Borboni né il tempo, né la ferma volontà di pur-
gar Napoli da quella feccia, ricuperandone i componenti cpn
impiegarli in arti e in mestieri. Furono i due Re di fran-
cese dinastia che diedero V impulso a così utile riforma : il
Governo del Sovrano ora regnante coronerà in breve sì
bell'opra, continuando ad agire con validi mezzi per dimi-
nuire sempre più la turba dei Lazzari; sì che ne resti di-
menticato anche il nome. Nel 1828, quando il Valéry visitò
Napoli, ebbe a confessare che i Lazzaroni avean cambiato
sostanzialmente di costumanze : trovò attivi e affaccendati
quelli del Porto principalmente ; non più seminudi, ma con
camicia e calzoni di tela, e nell' inverno con giacchetta a
cappuccio; non più viventi all'aria aperta, ma locatarii e
parrocchiani.
Lady Morgan ad onta del suo eterno cinismo fu costretta
a prestar fede a chi si die il pensiero ài avvertirla : essere
assai malfondato il rimprovero di insuperabile pigrizia della
napolitana plebaglia ; avere essa invece la miglior disposi-
zione al lavoro, eseguendolo con pazienza ed industria ;
doversi riguardare più presto come calamità pubblica la
soverchia sproporzione tra la numerosissima plebe e i la-
vori in cui impiegarla. Nel 1844, anno in cui io raccoglieva
questi cenni, raramente incontrai per Napoli un qualche
Lazzaro, né più mi comparve esagerato 1' asserto del Ba-
rone Mengin-Fondragon, che sino dal 1830 considerò quella
classe come al tutto estinta. Ne occorse tìi tratto in tratto
di imbattermi nei meno frequentati luoghi urbani in cen-
ciosi questuanti, perchè in tutte le città popolose giammai
339
scarseggia il numero dei miserabili, ma restai altresì col
pilo dal modo dignitoso e non Insistente, con cui viene da
quei tapini sollecitata Taltrui carità, e della pronta e quasi
vergognosa rassegnazirfne ai rifiuti del passeggiero. Ciò mi
stimolava al confronto dei pezzenti per ozio nell'Italia cen-
trale, che con pretensione audacemente sostenuta eccitano
allo sdegno anziché alla commiserazione, e forniscono. giusto
argomento allo straniero di proverbiare sulle male costu-
manze del popolo Italiano. Di una delle quali mi spìace di
non poter purgare 1a plebaglia di Napoli per la sua scaltrezza
nei furti, ogniqualvolta le ne si porge l'occasione: spiace
ancor di più che il popolo artigianesco si soffermi ad os-
servare quei delittuosi colpi di mano e ne rida, quasi traen-
done diletto ; indizio non equivoco di poca costumatezza.
Ma se i Lazzari disparvero cesseranno ancora le male arti
dei ladroncelli, sempre che la vigilante fermezza governa-
tiva sia sollecita nel sorprenderli e punirli, tanto più che
in Napoli, in passato almeno, i furti violenti erano rari, ra-
rissimi gli assassinii. E questo derivava manifestamente dal
rispetto del popolo per le autorità : serva d' esempio la fa-
cilità con cui tenevasi in freno la stirpe da per tutto per-
versa dei vetturini, resa altrove intollerabile, mentre che
in Napoli ove affluiscono i forestieri, potevano questi farsi
render conto facilmente di qualunque frode, per la prontezza
della Polizia nel punire quella razza malnata, ai di cui cla-
mori non veniva quasi mai dato ascolto. Ma già raro era
il ca^, nel tempo da me di sopra indicato, di dover ricor-
rere a mezzi di riprensione legale, poiché se un vetturino
si fosse attentato ad ingannare nelle tariffe, e se nel dargli
la giusta ricompensa il forestiere lo avesse minacciato, ei
tosto ricorreva alle scuse umilianti, e lo disarmava colla
graziosa dichiarazione : perdono Accellenza, aggio pazzeato.
Ma dei Lazzari e della plebaglia fu detto abbastanza;
340
ne gode ora sommamente l'animo di poter sostenere con
validi fondamenti, che in tutte le classi agiate di Napoli
scorgesi una distanza immensa tra esse e il basso popolo
di cui parlammo. Vivacità e finezza di spirito, rapidità nelle
percezioni, pronta intelligenza, elevazione d'animo; sono ca-
ratteristiche quasi comuni delle persone colte d'ogni ceto,
non escluso quello degli ecclesiastici. Se in ogni angolo
d'Italia si trova un qualche bello ingegno, in Napoli sono
comunissimi. Si è proverbiato assai dagli stranieri sulla gran
turba dei Principi, Duchi, Marchesi, Conti, delle Eccellenze
insomma disseminate in tutta Napoli, ma si è occultato che
col fuco di quei vanitosi titoli, si tentò nel male augurato
e perfido periodo del Viceregno di offuscare la classe nobile
per meglio dispogliarla ; e si tacque che ad onta dei tanti
sconvolgimenti politici, dai quali fu travagliata queir antica
capitale dal principio del secolo corrente fino a pochi anni
addietro, l'educazione istruttiva della gioventù di classe no-
bile giammai fu trascurata, e che dai Grandi del pari che
dal comune delle famiglie agiate amasi passionata mente il
decoro nazionale Italiano.
Gli stranieri che nelle loro rapide corse per la Peni-
sola, vollero pubblicare gli appunti di taccuino dettati loro
dai così detti ciceroni e dai camerieri, ripeterono parole di
meraviglia sull* alto schiamazzare dei Napolitani e sulle loro
superstizioni religiose. È innegabile la costumanza quasi co-
mune di elevare la voce nel discorso, debbesi però attri-
buirla allo strepito prodotto in ogni via dal movimenta quasi
continuo delle innumerevoli vetture, poiché per superarlo
contrasse il popolo V abitudine di dialogizzare a voce alta
assai. Quanto alla superstizione religiosa rammenterò , che
da Carlo V fino al Pontefice Benedetto XIV, -giammai per-
mise il popolo lo stabilimento in Napoli della Inquisizione
o Santo Uffizio; che mentre i napolitani consiglieri ^di Go*
341
verno degli stessi Viceré si guardarono dal contrariare la
plebe in certe sue divote credenze, sostennero però e con
fermezza lunghe contese, perchè non restasse confusa la
Giurisdizione regia coir ecclesiastica ; che nelle chiese infine
è più da meravigliarsi delle distrazioni e delle maniere
agiate con cui si -assiste in Napoli ai sacri riti, che di
un raccoglimento indicante esaltazione in tante altre contrade
non rara.
Così potessi io purgare la Napolitana popolazione dalla
taccia, pur troppo meritata, del ridevole pregiudizio delle
jettaiure: quel solenne errore vestito di voce napolitana pro-
dusse r infausto frutto di stolte credenze sì nella capitale
come nelle próvincie. Le condizioni naturali e tutte poetiche
di un suolo incantato, siccome suggerirono agli antichi i
miti delle Sirene e di Circe, e come fecero ragionare di fa-
scino i pastori di Virgilio, riscaldarono più tardi le fantasie
popolari per dar corpo ad un'ombra, e quel che è peggio
aberrarono dietro quel fantasma anco alcuni uomini colti ed
istruiti. Si fantasticò sopra un'atmosfera di vapori vegeto-
animali di ogni macchina umana, che rinnuovasi del continuo
dal fervore della vita e che influisce sull'esistenza altrui;
se ne fecero varie applicazioni alle simpatie ed antipatie
morali ; si meditò sulla possibilità di impressioni fisiche
provenienti da una riunione di lieta gioventù, nella guisa,
stessa che da una infermeria di ammalati infetti da conta-
gio ; si finì per sostenere che in società si incontrano in-
dividui di tal costituzione fisica, da jetiare in tutti i corpi
viventi ai quali si avvicinano uno spirito sottilissimo, ve-
nefico, distruttore, capace di attaccare nelle piante la ve-
getazione, e nell'uomo i principii intellettuali e. vitali. Im-
bevuto il popolo di Napoli di queste e consimili idee fanta-
stiche, credè cosa vera la jettaiura, e per non confonderla
colle arti arcane del fascino e della magia, la suppose na-
342
turalissirao effetto di mala costituzione fisica. Alla quale
• principalmente debbesi attribuire, giusta quell' errore popo-
lare, Tessere taluno al tutto inetto a qualche azione che ri-
chieda forza d' animo o di mano ; e guai se coloro ti daranno
segni non voluti o non attesi di officiosa reverenza, ose
"fuor di tempo e fuor di luogo verranno a interrogarli sullo
stato della salute o della fortuna ; pèggio poi se per lievi
cause ti solleciteranno ad averti cura, e se con sorriso
uniforme e certi alti sforzati ti daranno consigli puerili, o
ti prodigheranno lodi sulT ingegno e sulle cose tue, o sivverò
ostenteranno pazienza indomita nel corteggiarti^ . . . guar-
dali, poiché quei mainali non fanno che esercitare involon-
tarie iettature ! Frattanto contro di esse le femmine e i più
idioti si muniscono di amuleti; i più accorti con gesti nuovi
e clamorosi e con repentino volger di spalle; i più rozzi
e ignoranti con atroci vendette : basti il ricordare che
nel 1803 in Barile di Basilicata, un tal Guadagno credutosi
infermo per iettatura dell' innocenljssimo Ruta suo vicino,
credè di non potere in altro modo ricuperare la perduta
salute/ che pugnalando il supposto «e^/a/ore mentre era im-
merso nel sonno. Di questa umiliante stoltezza dovei far
parola, per rispetto a quella verità disappassionala che mi
pregio di professare. Passarono però i tempi, dei quali un
celebre magistrato straniero ebbe a dire, che in Napoli il
Governo non era che un disordine di più. Cessò il maligno
influsso della borbonica napolitana dinastia : il governo del-
l'amatissimo Re nostro provvederà energicamente all'istru-
zione popolare, e il pregiudizio delle iettature, insieme con
varii altri, cesseranno dal far vaneggiare lo spiritoso e vi-
vacissimo popolo napolitano.
Ma la brama di porre in chiaro i caratteri morali fece
dimenticare le qualità fisiche ; non sarà malagevole il disbri-
garsene brevemente. È opinione universale, giusta in gran
343
parte, che il sesso maschile di Napoli abbia forme più av-
venenti e più regolai-i del femminile : difatti gli uomini
sono piuttosto grandi, svelti della persona, generalmente
con bei tratti nella fisononaia, a cui suol dare piacevole
aspetto civile la nera capellatura ; le donne invece, quelle
del popolo però, sono piccole, di colore olivastro perchè
camminando sempre a testa nuda, sono colpite da un sole
cocente, e presto infiacchiscono per disagi o per abusi.
Se nonché mi riconduce a parlare della plebe napolitàna
una singolarità popolare, che suol colpire fortemente ogni
forestiero di animo gentile. È vecchia costumanza che nelle
ore pomeridiane dei giorni sereni, e in special- modo dei
festivi, il basso popolo si raccolga in cerchio attorno ai
Cantastorie : chi brama assidersi sopra un pezzo di pietra
o di legno, dà in ricompensa una piccolissima moneta,
mentre l'osservatore attirato dalla sola curiosità resta in
piedi dietro i diversi crocchi di quei cenciosi plebei. La
mobilità delle loro fisonomie rendesi ancora più rimarchevole
neir attenzione passionata , che essi prestano ai declamati
racconti del Cantastorie; il quale tenendo alla mano un vo-
luminoso scartafaccio lurido e consunto, riproduce con libero
commentario le azioni eroiche celebrate dal Tasso, o altri
rinomati avvenimenti. Reca sorpresa l'ammirazione non
mai saziata di quei plebei sulle avventure di Goffredo e di
Rinaldo; i loro volti ovali a Zigomi prominenti, le labbra
semiaperte, lo scintillare degli occhi, l'alzarsi per emozione
senza accorgersene, i bravo sommessamente proferiti, sono
altrettanti segni dell'entusiasmo in essi eccitato, e che in-
sensibilmente comunicasi in chi gli osserva. Quelle acca-
demie declamatorie hanno la durata di un' ora circa : il
Cantastorie cede il luogo ad un altro ; altrettanto fanno gli
ascoltanti. Ora chi non ravviserà in un popolo di sì vivace fan-
tasia la più propizia attitudine all'incivilimento? Se questo
344
riflesso sarà tenuto in mira dal nuovo attuale Governo, nel
volgere di pochi anni cesserà ogni pretesto di proverbiare
sul modo di vivere del basso popolo napolitano, sentenziato
per brutale da quasi tutti gli stranieri.
DIALETTO NAPOLITANO.
Gli Osci, gli Appuli, i Calabri parlarono il latino, dopo
essere caduti sotto il giogo romano, ma non con i modi usati
a Roma : anche l' idioma del Lazio ebbe al certo i suoi dia-
letti. Posteriormente gli invasori barbari,, alterando notiii,
frasi e proferenze, diedero origine per quanto sembra a una
lingua franca, cx)me appunto molti secoli dopo accadde in
levante,' per opra dei Turchi. Ora se lo studio dei dia-
letti devesi riguardare come importantissimo, per far
meglio conoscere le origini dell' italica favella, è facile il
convincersi della speciale utilità di porre a confronto col
consueto adottato Dialogo i vernacoli principali delle napo-
litano Provincie, perchè abitate in origine da invasori di
tante razze diverse.
• Generalmente parlando il Dialetto Napolitano ha la
speciale proprietà di prestarsi alle lepidezze, alle satiriche
facezie, alla giocónda festività. Se vero è che la Greca co-
lonia partenopea usasse linguaggio e preferenza Dorica, non
sarà malagevole di ravvisarne una certa conservazione, spe-
cialmente nel modo di pronunziare molto aperte le vocali,
e di battere . assai le consonanti. Quelle caratteristiche di
pronunzia debbono riguardarsi come molto antiche, aven-
done dato cenno lo stesso Dante, che nell'opera del Vol-
gare Eloquio trattò anche del linguaggio j»Mflf /tese, molto con-
simile a quello usato entro Napoli. È da osservarsi che nei
Diurnali dello Spinelli, di Giovinazzo, vissuto nel XIII secolo,
e primo scrittore in quel volgare che parlavasi nella patria
345
sua, trovasi anologia sorprendente con quello che anche mo-
dernamente si parla nella capitale, sì che reca maraviglia
come nel corso di quasi ser secoli non abbia subUe Che
leggerissime modificazioni. Ciò fu conseguenza della unani-
mità dei Napolitani nel conservarlo ; ed a ciò prestarono
favore i principi stessi, singolarmente Alfonso di Aragona,
che ordinò la sostituzione del volgare pugliese all' idioma
latino già reso corrottissimo. Ferdinando il cattolico fu il primo
a bandire il mpoWidino aulico o cortigianesco dalla Cancelleria
regia, perchè pretese di fare adottare lo spagnolo; rilasciando
bensì la facoltà alle assemblee comunitative 'di esprimere
nel proprio dialetto le così dette grazie che dai sudditi si
domandavano al sovrano. Cessò poi anche un tale uso per
opera del Cardinale Seripando, ma la patria favella fu so-
stenuta da scrittori valentissimi, che ingegnosamente l' ado-
perarono in componimenti poetici e prosaici ; che anzi quei
laudevoli sforzi di amore patrio andarono tant' oltre, da far
sorpassare i limiti del buon senso, poiché, uno scrittore,
adombratosi sotto il nome di Partenio Tosco, pretese di di-
mostrare in buona fede l'eccellenza della lingua Napolitana
con la maggioranza alla Toscana, concludendo infelicemente
essere V idioma della patria sua il più degno, paragonato
colla favella nobile e generale d'Italia.
Senza prendere sul serio tali stranezze, debbesi render
giustizia a quei valentissimi ingegni, che oggidì coltivando
il patrio dialetto, ne fanno risaltare le grazie e certi modi
energicamente espressivi. Tra siffatti componimenti, quasi
tutti di lepido stile, primeggiano quei del Piccinni, del Duca
Morbillo, del Cav. Carfora, del March. Villarosa, del Capasse
e del Mormile, del Barone Zezza che travestì alla napoli-
tana alcuni drammi del Metastasjo, del Rucco, e dei due
distinlissim letterati De-Ritis ed ab. Genoino. All' ultimo
di essi mi dichiaro debitore dell' accuratissima tradazione
346
del consueto Dialogo nel dialetto di Napoli, come pure di
utilissime notizie che volle comunicarmi. Debbo bensì far
notare che sulle prime trovai in esso, come nei letterati di
Roma, pertinace ripugnanza a tradurre in volgare napolitano
uno scritto italiano : ma poiché per tradurre, il semplice
titolo Dialogo tra un padrone ed un suo servitoì^e dovette
scrivere Trascurzo ntre no Padroìie, e lo servetore, quel solo
saggio bastò per convincerlo della convenienza dì compia-
cermi; quindi ei fece ancor di più, compilando utili osser-
vazioni ed avvertenze che si trovano alla fine del Dialogo
347
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
ED UN SUO SERVITORE.
Padrone. Ebbene, Bati-
sta, hai tu eseguite tutte le
commissioni che ti ho date?
Sebvitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino ;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città, ma 1
poi è piovuto tanto !
Padr. Che al solito sei
stato a fare il poltrone in
un osteria, per aspettare che
spiovesse ! E perchè non hai
preso V ombrello?
Serv. Per non porta r quel-
l'impiccio; e poi jeri sera
quando andai a letto non pio-
veva più, se pioveva, pio-
veva pochissimo : stamani
quando mi sono alzato era lut-
to sereno, e solamente a leva-
ta di sole si è rannuvolato.
Più tardi si è alzato un gran
. TRADIZIONE
NEL DIALETTO
NAPOLITANO.
Padrone. Embè, Vaiti, (a)
aje fatte (ulte li servizie che
l'aggio ordenate?
Servitore. Signò, ve poz-
zo assicura d'esse (b) stato
pontmle chiù che aggio potuto.
Stammatina a le (e) sseié e no
quarto me songo pvosto incam-
mino (d) ; a le ssette e mmeza
m aveva agliotluta la mmilà
de la straia, a II' otto e tire
quarte (e) traseva dinio a la
cita; ma aveva chiuppeto tanto!
Padr. Secunno lo ssoleto
sarraje stato a ffà la maula
dinto a qua ttaverna, co la
scusa d' aspetta che schiovesse.
E ppecchè non t' aje pigliato
la mbrelb? . *
Serv. Pe no pportà chillo
'mpiccio; e ppo jersera quanno
me corcaje non chioveva chiù,
a mmalappena schizzichejava;
stammutina quanno me so
ssosuto 'melo mn cera na
macola, e a U asciuia de lo
sole sé quagliato de nuvole.
Chiù ttardo ha sciosciato no
348
vento, ma invece di spazzare
le nuvole, ha portato utia gran-
dine che ha durato nnezz' ora,
e poi acqua a ciel rotto.
Padr. Cosi vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto quasi
niente di ciò che ti avevo or-*
dinato ; non è vero?
Serv. Anzi spero che ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
Serv. Nel tempo che pio-
veva mi sono fermato in bot-
tega del sarto, ed ho .visto
con questi miei occhi racco-
modato il suo soprabito con
bavero e fodere nuove ; la sua
giubba nuova, e i pantaloni
colle staffe erano finiti, e la
sottoveste stava tagliandola.
Padr, Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo, e il calzolajo, e
di questi noff ne hai cercato?
Serv. Sì signore :_ il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
ventarielh f riddo, che *ncagno
de Ile dà lo scaccióne, ha
(fatto grannolejà. na bbona
mez'ora; e ppo II' acqua è
ccaduta a llangelle.
Padr. Accossi mme vuó
dà a rrentennere de n ave
fallo quase nient de chelh che
t'aveva ordenalo, né lo ve?
Serv. Gnernò ; spero che
sarnte contento, quanno v a-
vraggio ditto lo ggiro che ag-
gio fatto *ndqje ore pe la cita.
Padr. Sentimmo sse pro-
dezze, (f)
Serv. Mente chioveva me
songo fermato dinto a la potè-
ca de lo (g) cosetore ; e ag-
gio visto co cchiste cocchie ac-
conciato già lo soprabbeto
viiosto co lo bhavaro e Ila fo-
dera nova; la sciammeria
torchina, e lì (h) cauzabbra-
che co Ile staffe erano finite, e
sse steva taglianno la - cam-
mescla.
Padr. Chesso va bbuono:
ma distante poche passe nee-
rano purzì lo coppellare e lo
scarparo . . . spero che sì
gghiuto a ccercarle?
Serv. Gnoi^st; lo cappeU
laro polizzava lo cappielk
349
vecchio, e non gli mancava
che orlare il nuovo. Il cal-
zolajo poi aveva terminati gli
stivali, le scarpe grosse da
caccia, e gli scarpini dà ballo.
Padr. Ma in casa di mio
padre quando sei andato,
che questo era l'essenziale?
Serv. Appena spiovuto, ma
non vi ho trovato né suo padre,
né sua madre, né suo zio, per-
chè jeri r altro andarono in
villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno sarà stata
in casa?
Serv. No signore, perchè
avevano fatta una trottata ,
verso Posillipo ed avevano
condotto il bambino e la bam-
bina.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa ?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor pa-
dre, la cameriera e due servi-
tori erano con sua cognata, e
il cocchiere avendo avuto lor-
dine di attaccare i cavalli per
viecchio, e aveva schitto da
revetìà lo nuovo. Lo scarparo
pò aveva fatte li stivale, le
scarpe grosse pe ccaccia, e li
scarpine peli' abballo.
Padr. Ma 'ncasa de lo
gnore mio quanno pò noe si
gghiuto? chesto era l assen-
ziale !
Serv. Nce so stato nnin-
eh* è fenuto de chiovere ; ma
non ce aggio trovato né b
pale vmsto, né la gnora, né
lo zio, pecche W antro jere
jettero a lo casino, e nce so
rrestate la notte.
Padr, Fraterno mperrò, o
la mogliera ommanco sarrà
stata 'ncasa?
Serv. Gnernò ; erano a-
sciute a ffà (\) na trottata
mmiero (k) la rotta de Po-
silleco (*) nziime co lo nen-
nillo el e ppeccerelle.
Padr. E tutta la ggente
deservizio era asciuta purzt?
Serv. Lo cuo o era juto
ncampagna co lo Gnore vuosto;
la cammarera co dduje criate
stevano co la caino ta vosta, e
lo coicchiero, avenno avuto
W ordene de attacca li cavalle
* La Grotta di PosilHpo, luogo dei contorni di Napoli.
350
muoverli, se ne era andato col-
la carrozza verso Pascone.
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
Sery. Non vi ho trovato
che il garzone di stalla, ed a
lui ho consegnato tutte le let-
tere, perchè le portasse a chi
doveva averle.
Padr. Meno male. E la
provvista per domani?
Serv. L' ho fatta : per
minestra ho preso della pa-
sta, e intanto ho comprato
del formaggio e del burro.
Per accrescere il lesso di vi-
tella, ho preso un pezzo di
castrato. Il fritto lo farò di
cervello, di fegato e di car-
ciofi. Per umido ho compra-
to del majale, ed un* anatra
da farsi col cavolo. E sicco-
me non ho trovato né tordi,
né starne, né beccacce, ri-
medierò con un tacchino da
cuocersi in forno.
Padr. E del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perchè costava po-
chissimo. Ho comprato sogliole,
(♦} Il Pascane, luogo dei contorni di
pe (farle spassqa no poca, era
julo co Ila carrozza a lo Pa-
scone. (*)
Padr. Addonca la casa
era scena vacante ?
Serv. Ne era scMtto h
famiglio, e ad isso aggio con-
segnate le llettere, pecche Ile
portasse a echi jevano.
Padr. Manco male! E la
provisia pe ddimane ?
Serv. LI aggio folta: pe
mmenesta aggio pigliato pasta
bianca^ e purzt caso e bbu-
tirro, Pe ffà meglio brodó^ a
lo bbollito de vitella aggio
puosto pe ggfiionta no piezzo
de crastato. Lo fritto se fa-
ciarrà de cerevella, fecato e
ccarcioffok. Pe. lo stufato ag-
gio presa carne de puorco, e
n anatrella da farse co li ca-
vote. E ccomme n aggio tro-
vato né mmarvize, né prennice,
né arcere,arremmediar7*aggioco
no gallinaccio nfornato.
Padr E dde pesce non
n aje accattato no poco ?
Serv. Pe lo pesce ntanto, •
pecche jeva pe nniente, nn ag-
gio accattato assale; ireglie
Napoli.
351
triglie, razza, nasello è aliaste.
Padr. Cosi va benissimo.
Ma il parrucchiere non l'avrai
potuto vedere?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e cioccolata,
cosi ho parlato anche a lui.
Padr. E ch^ nuove ti ha
date ?
Skrv. Mi ha detto che
l'opera in musica ha fatto
furore, ma che il ballo è stato
fischiato ; che quel giovine
signore suo amico perde l'al-
tra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire colla diligenza.
Mi ha detto pure che la si-
gnora Lucietta ha congedato
il promesso sposo, e ha fatto
giuramento di non volerlo più.
Padr. Gelosie.... questa s\
che mi fa ridere; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
palaie, raja petrosa, fnerluzzo
e rragostelle.
Padr. Ebbiva! da sguaz-
*sone!.. E lo perucchiero na-
vraje potuto vederlo ?
Serv: Tanto bello l Gomme
isso sta de poteca rente a lo
speziale, addò mme so provi-
sto de zucchero, pepe, can-
nella, carofano, cioccolata, oc-
cossi aggio descurzo purzt co
isso.
Padr. Oh bbravo! e che
nnotizie f ha ddate?
Serv. Mha dditto che llO-
pera n museca ave fatto fu-
rove, ma cche W abballo era
stato siscato ; che cchillo si-
gnorino amico svjo IV aulasera
perdette tutte le scommesse a
lo juoco, e cche aspettava la
diligenza pe se la fuma. M'ha
pur zi con f edato, che la sig,
Luciella ha posta la cartella
sotto lo piatto a lo sposo ap-
paroleiato, e ha fatto jura-
miento de non guarlarlo cchiù
'nfaccia.
Padr. Gelosie, schizze a-
moruse ... che ffanno ridere . . ;
ma vattimmo addò tene, pen-
zammo a nnuje.
Serv. Signò, se non ve
352
mangio ìin poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
conaandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa^,
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv, Comandi pure.
Padr. Per il pranzò che
dobbiamo fare, prepara tutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli migliqri';
tra i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
manchino né scodelle, né vas-
soj. Accomoda la credenza con
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Serv. e quali posate met-
terò in tavola?
Padr. Prendi i cucchiai
d'argento, le forchette e i
coltelli col manico d'avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini siano
quelli di cristallo arrotato. Ac-
despiace^ me soppmto primma
lo slommdco co no poco de
pane e no bfncchierotto, e ppo
foimo subbeto pe rreccevere
W ordene vuoste.
Padr. Comih' aggio pressa,
e aggio da f fora de - casa,
siente primmo W ordene che te
dongo, e ppo potarraje man-
gia, e rreposarte quanto te
piace.
Serv. Gomme comman-
nate.
Padr. Pe b pranzo cKa-
vimmo da fa, prepara ogne
ncosa dinto a la meglio cam-
mara. Piglia lo mesate e li
sarviette chili ffine ,\ ntra li
piatte sciglie chille de porcel-
lamma, e abbade che non ce
mancheno né piatte de zuppa
ne gguantiere. Guarnisce pò
la credenza co ffrutte, uva,
nuce, ammende, confietté d' o-
gne sciorta e bbott^glie,
Serv. E qua posate aggio
da mete n tavola?
Padr. Piglia li cucchiare
d* argiento, e le fforchette e li
cortielle co lo maneco d* avo-
lio, e allicordete che le bboc-
ce, li bicchiere e li bicchie-
rielle hanno da esse chille de
353
comoda poi intorno alla tavola
le seggiole n^igliori.
Skrv. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. Ricordati chre que-
sta sera viene mia nonna.
Tu sai quanto è stucchevole
quella vecchia! Metti in ordi-
ne la camera buona, fa' riem-
pire il saccone e ribattere le
materasse. Accomoda il letto
con lenzuola e federe le più
fini, e cuoprito col, zanzariere.
Empi la brocca di acqua, e
sulla catinella, distendi un
asciugamano ordinario ed uno
fine. Fa' tutto in regola, e la
mancia non mancherà.
Serv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
cmtallo airolaio. Miette pò
le mmeglio seggie atluorno a
la (avola.
Serv. Sarrite seì^vuto a
bbarda e ssella. .
Padr. T aggio ditto che
sta sera vene Vavema, arri-
cordatello : tu saie quanto è
pittemosa chella vecchia. Ar-
resedia bona bbona lacammàra;
fall* agni lo saccone, e sbattere
li materazze ; acconciale lo
lietto cole llenzola, e le eoo-
scenere cchiù fpne, e còmmo-
glidlo co la tavamra. Igne lo
vocale d* acqua, e ncoppa lo
vacilo stiennece na tovaglia
fina, e nauta ordenaria. Fara-
me tutte sse ccose a rregola,
e non te mancarrà lo pez-
zetto.
Serv. Pe bberetà so ttante
le ccose che mm'avite ordenate
che nce perdo la capo, ma far-
raggio de tutto pe mme porta
la poglia.
23
354
OSSERVAZIONI ED AVVERTENZE
SULLA PROKUKZU ED IKDOLB DEL DIALETTO KAPOLITAKO.
(a) Al vocativo de* nomi si toglie l'ultima sillaba; si dice, e si
scrive Miche, Nicó, lìosi, Farmele in vece di Michele, Niccola; Ro-
sina, Parmetella; quindi Vaiti, per Batlista.
(b) Z)' esse. Nel dialetto Napoletano agi' infiniti de- verbi di ogni
conjugazione si suol togliere per vezzo l'ultima sillaba, p.' e. Voglio
mahgià (per mangiare); Jammo a bbedé (per vedere); Pozzo esse
(per essere); stammo a sscnti (per sentire).
(e) A le sspje. Dopo un monosillabo, accentato o no, suol rad-
doppiarsi la prima consonante della parola che segue; p. e. A le sseje
a //' otto^ no cchiù, nò cchesto ec. ec. e la consonante v suol can-
giarsi in 6. Abbini' ore, (per venti ore); stammo a bbedé (per ve-
dere), ma non è regola certa ; in certi casi deve supplire T orecchio.
(d) *iV camino.^ La vocale i suole sopprimersi -nel principio delle
^ferole, e contrassegnarsi con un apostrofo. In vece d'innocente, im-
prudente, impiccio, intenzione, va detto 'nnocente^ 'mprudente, impic-
cio *ntenzione ec. ec.
(e) Quarte, e non quarti, poiché il dialetto napoletano non ha
terminazione di nomi, e di verbi in t ma in e. Gli articoli servono
. a distinguere il mascolino dal femminino. Non si dice p. e. li ma-
scoli, le fftmmene, Vaddotte, le bbelle, ma lì mascole, li ffcmmene^
IC addotte, li bbeìle. E in quanto ai verbi, non mai tu mangi, tu
duorme ec. ec. Pare che il dialetto, che al dir del Capasso ha tanta
dorgezza dinto a li connutte, abbia dichiarata guerra alla vocale t
coùie di suono esile, e poco armonioso.
^f) Tue prodezze. Tutti gli aggettivi possessivi nel dialetto vanno
posti dopo il sostantivo — Tatamio, Mammà mia, sango mio, robba
mia ec. ec. E convien perdonare al Sitillo, se talvolta ha tradita la
regola, nella sua versione in ottave dell'Eneide, costretto dalla rima.
(g.) De lo cosetore. Tanto l'articolo determinalo /o, che l'inde-
terminato un si pronunzia diversamente da quello che va scritto. I
Napoletani dicono lu paté, lu zio, lu destino, nu poco, nu surzo, nu
355
tiempoy ma deve scriversi lo paté, lo sto, lo destinOy no poco ec.
Tanto meno u pate^ a mamma, u diavolo, che sebbene così tal-
volta pronunziato, sarebbe gravissimo errore di ammetterlo nella or-
tografia.
(h) Causa bbrache. La consonante / unita ad altra consonante,
facendo quasi intoppo alla facilità e prontezza della pronunzia, nei
dialetto suol cambiarsi in vocale: p. e. alto auto, scalzo scauzo,
celsa ceuza, calza cauza, ec. ec. Cadde il sospetto nelf animo del
eh. Genoino, che la musica in Napoli debba la sua primitiva bellezza
alla sonorità dì un dialetto mezzo greco e mezzo latino, e che la
musica buffa abbia per tal ragione fatta un giorno la sua delizia:
queir opinione è probabilissima).
(i) A ffa. Quando vien tolta dair infinito fare la sillaba, come
è detto nella nota (a), ci va posto sopra T accento, per distin-
guerlo dal presente fa- fa eeunte (presente) s* appreca a ffà ccwaie
(infinito).
(k) iftero vai verso.
356
DIALETTO ADRtlZZESE.
Il cortese signor De-Virgilii versalissimo in letteratura
patria, facendo plauso al mio divisamento di sottoporre
r idioma italiano al confronto dei principali dialetti, si die
cura non solo di tradurre il mio dialogo, ma volle di più
pubblicarlo in un giornale di Chieti. per invitare i concit-
tadini a dar giudizio della sua traduzione in Abruzzese, Gno
allora non mai scritto. Preferì a tal uopo il dialetto Chietino,
innestato a qualche frase usata nei dintorni e nelle Provin-
cie, riguardando il linguaggio degli abitanti di Chieti come
tipo, perchè non fu alterato da modi stranieri, siccome av-
venne nelle due contrade di Aquila e di Teramo, limitrofe
alle Provincie romane.
Ciò premesso giovi il rammentare, che l'alta Valle
della Pescara fu in antico abitata da Sabini, Vestini e Pe-
Ugni, e che nei dintorni del Lago Fucino tennero il domi-
cilio gli Equi ed i Marsù Nei bassi tempi quella contrada
era stata repartita dai Longobardi tra i due Ducati di Be-
nevento e di Spoleto, ma ignorasi la vera epoca in cui le
fu dato il nome di Api'uiium. Federigo II che divise il suo
regno per provincie, destinò a ciascuna di esse un Giusti-
ziere; e poiché Teramo chiamavasi in allora Abrulium, es-
sendo stato destinato a capo-luogo, die il suo nome a tutta
la nuova giurisdizione ; la quale sembrò troppo vasta a
Carlo I d'Angiò, il quale la divise in due provincie , Ci^
teriore a destra della Pescara, e Ulteriore a sinistra di quel
fiume: più lardi il Viceré March, del Carpio decretò nel 1684
r attuale repartizione nelle tre provincie di Chieti, di Aquila
e di Teramo.
Fu di sopra avvertito, che il dotto traduttore del dia-
logo preferì il vernacolo usato in Chicli, capoluogo del-
357
r Abruzzo Citeriore : qui si aggiunge che il paese di Chieti
già Teale, fu abitato dai Marrucini, limitrofi ai Frentani, e
che popolose e floride erano le loro città : e senza favo-
leggiare con chi volle attribuire la fondazione di Chieti ad
Achille e a Teti, mi limiterò col P. Allegranza a ricono-
scere come vetustissima la sua origine.
358
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
ED UN SUO SERVITORE.
Padrone. Ebbene, Batista,
hai tu eseguite tutte le com-
missioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città; ma
poi è piovuto tanto!
Padr. Che al solito sei sta-
to a fare il poltrone in un'oste-
ria, per aspettare che spioves-
se! E perchè non hai preso
r ombrello ?
Serv. Per non portar quel-
rimpiccio;epoi jeri sera quan-
do andai a letto non pioveva
più, se pioveva, pioveva po-
chissimo: stamani quando mi
sono alzato era tutto sereno,
e solamente ^levata di sole
si è rannuvolato. Più tardi si
è alzato un gran vento, ma
invece di spazzare le nuvole,
ha portato una grandine che
ha durato mezz* ora, e poi
TRADUZIONE
NEL DIALETTO
ABRUZZESE.
Padrone. Mbè, Batiì, sci
fati tui( quelV che te so dett ?
Servidore. Segnò, te poz-
z assecurà che so fati tutt\
Maduemane so scite a sì ore
e nu quart\ a seti' ore e mez-
z Steve a mezza vie ; a et-
t' ore e tre quarte so *ntrate a
la cetà: dapù, è venute l' ac-
qu a zeffunn !
Padr. Gnà sci solete, ti
sci mess a fa lu cane morte
a la tavem p aspetta eh' spiu-
vesse! E eh' si seti' affa senza
'mbreW ?
' Serv. Pe ne mburtà cium-
bicce , e pù sere, quann me
so ite a culecà, ave spiòvete^
ammal' appóne pluviccecheve :
maddemane, quann' me so ar-
rezzate, jeve tutf serene ; e a
la scite de lu sole s' è scurite
de nuvameni'. Dapìi à cumen-
zate nu ventelare, eh' 'mmece
d' allarga, à purtate na ràn-
nele e à durate mezz ore, e
pu à menate V acque neh
359
acqua a ciel rotto.
Papr. Cosi vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto qua-
si niente di ciò che ti avevo
ordinato; non è vero?
Serv. Anzi spero che Ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
SERv.Neltempoche pioveva
mi sono fermato in bottega del
sarto, ed ho visto con questi
miei occhi raccomodato il suo
soprabito con bavero e fodere
nuove; la sua giubba nuova e i
pantalonicoUe'staffe erano finiti
eia sottovestesta va tagliandola
Padr. Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo e il calzolajo, e di
questi non ne hai cercato?
Serv. Si signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio, e non gli mancava
che orlare il nuovo. Il calzolajo
poi aveva terminati gli stivali,
le scarpe grosse da caccia, e
gli scarpini da ballo.
Padr. Ma' in casa di mio
padre quando sei andato ,
che questo era l'essenziale?
Serv. Appena spiovuto.
(ine.
Padr. Vi ca f ajf capite,
ca ììin ci fate nxen( de tut-
t' quelt eh' f ave dell' ; nn è
lu vere?
Serv. Eppure te navis-
sda Iruvà cuntent', Segnò, de
lu camine eh' so fall' dreni d
du ore pe liuti' la cela.
Padr. Mòè, senlème sse
prudezz'ch' sci fall'.
Serv. 'Nlr ameni' ch'piuvè,
me so fermato a lu sartore, e
neh' si' ucchie so visi' accunciate
lu soprahbele nelu cullare e
ncle fodere nove : ave ' pure
prnile la giacchetta turchine, e
le càveze ncle staff, e sleve a
tajja lu sciambrichine.
Padr. Tanl' cchiù. Ma
pecche nin ci ite a lu cappel-
lare, e a lu scarpare eh' Steve
a. èli vicine ?
Serv. Scine ca cce so ile;
lu cappellare sleve a repuìi lu
càppèlt vècchie, e sleve a m^^l-
t' la fetlucc' a lu nove. Lu
scarpare ave fall' le slu/vak,
li scarpune e li papuzz più
ball'.
Padr. Ma queW eh' cchiù
me preme, a la case de pà-
trenie quann ci si stale ?
S^m.'Mbri càsplòvele; ma
360
ma non vi ho trovato né suo
padre, nò sua madre, né suo
zio, perchè jeril'altroandarono
in villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno sarà stata
in casa ?
Serv. No Signore, perchè
avevano fatta una trottata, ed-
avevano condotto il bambino
e le bambine.
Padr. Ma h servitù era
tutta fuori di casa ?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor
padre, la cameriera e due ser-
vitori erano con sua cognata, e
il cocchiere avendo avuto l'or-
dine di attaccare i cavalli per
muoverli, se ne era andato col-
la carrozza verso S Andrea.
Padr. Dunque la casa era
vuota?
Serv. Non vi ho trovato
che il garzone di stalla, ed
a lui ho consegnate tutte le
lettere, perché le portasse a
chi doveva averle.
Padr. Meno male. E la
provvista per domani?
Serv. L'ho fatta : per mi-
nestra ho preso della pasta, e
intanto ho comprato del for-
(*) Località dei dintorni di Chieti.
noe so truvate né lu gnore né la
gnor e, né lu zie de ssignirt, ca
V autru jere se ne so partite
più cosine, e ce ànn dvìmite.
Padr. Ma come! ncè re-
state a la case né fraterne né
la mojje?,
Serv. Gnarnò, pecche sa-
vève^ie fatf na scite a cavallpc
Vecchiàneche (*) nclu citele e
le bardasce,
Padr. Ma nen ce ave rema-
si' nisciune pe guarda la case?
Serv. Lu coche se n ave
ile 'ncampagne 'nzimbr chi
gnore : la cambrère e ddu ser-
veture se l' ave purtale la cti-
nate ; e lu cucchiere, secoìi-
n r òrdene, ave wjess* sott* e se
n ave ite ncla carrozz ver-
z S. Andreje. (*)
Padr. DuncK la case Steve
chius a chiave ?
Serv. / nen ce so truvate
cK lu mozz de stall\ e jje so
lassate le lettre pie purtà a
chi se duvè.
Padr. MancK male — E
pia spese de dumane?
Serv. Soli' fat^ : ajf pejjate
la pasC pe prime piati', e so
cumprate casce e butire. Come
361
maggio e del burro. Per ac-
crescere il lesso di vitella,
ho preso un pezzo di castra-
lo. 11 fritto lo farò di cer-
vello, di fegato e di carciofi.
Per umido ho compralo del
majale, ed un' anatra da farsi
col cavolo. E siccome non
ho trovato né tordi, né starne,
né beccacce, rimedierò con un
tacchino da cuocersi in forno.
Padr. e del pesce non ne
hai compralo?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perchè costava po-
chissimo. Ho comprato so-
gliole e .triglie, razza, nasello
e aliuste.
Padr. Così va benissimo.
Ma il parrucchiere non avrai
potuto vederlo?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e cioccolata,
così ho parlato anche a lui.
PADR.Echenuovetihadate?
Serv. Mi ha detto che
1' Òpera in musica ha fatto
aurore , ma che il ballo e
stato fischiato; che quel gio-
lu bultite de jenghjeve poche,
ce somess'nu ccune de crastate.
Vojf fa nu friif de cerveir, de
fèkche e carciofele. Pe rravù
me $0 fatt' dà da lu macellare
un bcll'toccde purcell\ e uà
mellard' p accunciarce li tur-
ziW, Nu gallenaccett' nfurnate
me par a me eli è bme pe
quinta piatanz, quann lu dia-
schece ne mm' à fati* fruvà né
turdj né slam, né arcere.
Padr. E pecche nin ci
accattate nu ccune de pesce ?
Serv. Ca anz ne so pejjate
nu monn, pecche sle nome
deve più muss\ So scèvete lu
mèjf eh' sape ; sfojj, rusciule ,
ragg',merluzz, e cèri' bèllrao-
st'cKve fa pròpete lecca logne.
Padr. Tu sci nu deja-
vele. Ma nin si vist' lu bar-
bxere ?
Serv. Mo ve diche : come
lu barbiere sta vicine a lu
speziale manuvale, addò so
accattate zuccliere, pepe, caro-
fene e na pojf de ciucculate,
accuscì so parlate pure neh' ess.
Padr. E ch'ta dell' de bone?
Serv. M'àdett'ca l'opere
'mmuseche à fatlfracass\ma
ca lu ball' V à nome pejjate a
feschiate — M'à dett'pure ca
36SI
vine signore suo amico perde
r altra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire con la diligenza
per Napoli. Mi ha detto pure
che la signora Lucielta ha con-
gedato il promesso sposo, e ha
fatto giuramento di non voler-
lo più.
Padr. Gelosie.... questa sì
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara tutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli miglio-
ri; tra i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
manchino né scodelle, né vas-
soj. Accomoda la credenza con
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
clu segnurine amiche so, à pèrz
r a vlru jere tutf la 'nguajf,
e ca mo stev a spetta la de-
legenz pe sseneta Naple. —
E. prime eh' me ne scord\m'à
dett* pure ca gnor a Lucieile
à date la cacce a lu *nnammu-
rate, e à fatt' le cruce de ne
lu vede cchiù,
Padr. Fi eh' te fa la gia-
lusie !.. oh queste sci eh' me
fa scumpescià più rise !. . ma
penzème a nu.
Serv. Qìmnne me magne
nu tozz de pane, e facce nu
becchèrCy e dapù vedéme gfwe/-
l cK s à da fa.
Padr. Sinteme prime, e
pu magne e durme quanne te
piace a te. Tengnu monn daf-
fare, e ajf da sci senza mene.
Serv. Sentami.
Padr. Pia tavele chiave-
me da rfà, accunce tutt'a la
cambra cchiù beli'. Vide de
pejjà lu montile e le salvietl'
cchiù suttile : li piati' ànn da
èss quieti', de purcellane, e bade
eh' nen f aviss da scorda dli
piati' cuppule e die zuppiate —
Fa nu bone repost'de frult;
duracciappl'duva bone, quat-
363
Skbv. e quali posate met-
terò in tavola ?
Padr. Prendi i cucchiai
d'argento, le forchette e i
coltelli col manico d' avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini sia-
no quelli di cristallo arrotato.
Acòomoda poi intorno alla ta-
vola le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna. Tu
sai quanto è stucchevole quella
vecchia ! Metti in ordine la ca-
mera buona, faViempire il sac-
cone e ribattere le materasse.
Accomoda il letto con lenzuola
e federe le più fini, e cuopr ilo col
zanzariere. Empi la brocca di
acqua, e sulla catinella disten-
di un asciugamano ordinario
ed uno fine. Fa'tutto in rego-
la, e la mancia non mancherà.
Serv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
ire nuce, du mannele, du cose
doce, e pe vvève.
Serv. E che pusate ajf da
mett ?
Padr. Li cucchiarine dar-
gènt, le furcine e li curHll'ncla
màneche d' avelie, e nte sair-
dà ca le bocce li bicchiri e li
bicchirine ànn da èss quiW de
eresiali* arrutate. A la iavele
mittece le segg cchiù nove.
Serv. Gnarsci.
Padr. Vide ca massere
nònneme ve ajech. Tu si qtian-
t' è fastediose da vecchie! An-
nurdene bone la stanz, fa
remeit' la pulì a lu saccone,
e vide de fa refà eli mata-
razz — Miti a lu leti' le
lenzole e le facce de cuscine
cchiù suttHe, e accunce lu pa-
dejjone pie ciambane, Miiila
broccK ncK V acqu, e sopr a
lu la : amane appinnece du iu-
vajf pulite, une urdenarie e
n'aveire fine Fa luti' mia
rèvele, ca i penz pe ite.
Serv. Ncusceiìz* ca è irop-
p segno ; ma nen dubetà, ca
te vojf servì come le chem-
mann' DD\,
^
364
OSSERVAZIONI SUL DIALETTO ABRUZZESE.
Essendo troppo angusti i limiti del Giornale io cui fu pubbli-
cato il nostro Dialogo, il sig. De Virgilii pose tutta ~V opera sua
per fare almeno gustare l'indole del Dialetto Abruzzese; quindi ap<
pose alla sua traduzione alcune osservazioni concernenti le lettere, le
sillabe e le parole, rimettendo al criterio del lettore il meditare sul
carattere della sintassi.
Lettere,
i. A — Ora è larga come nella voce pietà, ora è stretta sino
a poter ritrarre 1' ae dei latini — Ama, vardà, sana (amare, guar-
dare, sanare) — Chese, vese (casa, vaso).
2. B — Nel principio di molte, per non dire di tutte le parole,
ove dovrebbe stare questa lettera, si pone il v; come invece del v
spesso vede porsi il 6."
Bacio — Vascio. Bove — Vove. Che vuole? Che hhò?
Bacca — Vaco. Bava — Vava, Che va facendo? Che bba fa-
ccnne?
Bocca — Vocca. Baslagio — Vastascio,
Qualche volta si cangia in j nel mezzo delle parole, e in p sol
principio in mezzo di esse.
Rabbia — Rajja. Bozzima — Posma.
Robbia — Ruojja.
Gabbiola — Cajola.
3. C. — Si scambia per ordinario col ^f, coir se, coli* s, colla a.
Barca — Varg. Varce, Braciere. — Vr ascerà. Pan-
cia Panz.
Cacio — Casce. Cucire — Cuscì. Bilancia — Velane ,
Bracia — Vrascia. Oncia — Onz . Francese — Frames*.
4. D. — Nelle prime sillabe delle parole si tace, seguita dall* r
si muta in t; prende il suono d'unaltr'n in tutti i gerundi e in
ciaschedon vocabolo che termini in nd.
Diritto — rxtt\ Padre — Patr. Amando — Amann.
Mandorle — Munnele.
j
365
Dirizzato — Riszat\ Ladro — Latr. Vedendo — Ve-
dcnn. Spende — Spenn.
5. E. — Or si fa larga conae V e di cento, or si stringe come
1' e di mezZ'O^ or si fa tale da fìngere V i: per la quale ultima ra-
gione facilmente accoglie innanzi a sé questa vocale.
Uccello — dello. Aceto — Acit\
Vetro — Vitro. Vettura — Vittura.
6. F. — Come in italiano — Qualche volta si scambia col p —
confondere — cumponn.
7. G. — Si trasforma pur esso in e, j^ s, se, z.
Ago — Ach\ Ragia — Rascia, Giubbone — Jeppoiie.
Bugia — Buscia.
Lago — Lach\ Fagiucli — FasciuU.. Giusto — Just'.
Giustino — Jtistin.
8. H. — Come nell' italiano.
9. L — EJa vocale prediletta degli Abruzzesi, signoreggia in
quasi tutte quelle parole che sono destinale a significare piacere, riso,
bellezza, amore.
Bello biello — c«^t7o -^ cardili — picciril — (cittolo, cardel-
lino, piccolo).
Anello — NielU.
iO. L. — Sta sovente come nel latino in vece di t:
Piatto — Platt. Fiocco — F/occh. Fiamma. — Flamm\
i\. M. — È amicissima del b: laonde si veggono sovente spo-
sati in quelle voci ove or T uno or l'altra d'esse avrebbe un posto
legittimo ed esclusivo.
Insieme — *nsimbr.
Camera — Cambra,
Ciò però non toglie che l'uno sovente rappresenti T altra:
Strobilo — Strommelo. Palomba — Palomm*. Piombo
— Plomm\
1 §. N. — Confondesi coli* m quando precede /.
Confondere — Cumponn.
Infondere — *mponn.
13. 0. — Or si stringe, or s'allarga ; talvolta si accosta alf u,
con cui però non s' unisce troppo volentieri.
366
Uovo — (h). Cuoco — Coc/i*. Poverello — Puvirell.
Buono — Bon\ Suono — Son\ Pioviggina — Più-
viccicK,
4 4. P. — Come in italiano : nel mezzo delle parole qualche fiata
si scambia col 6, e coir f preceduto dairn.
15. R. — È vigorosissima lettera cotesla nella bocca dei bravi
montanari Abruzzesi, i quali chiamano ciavajf colui che non può
pronunziarla, per non aver ben mozzo lo scilinguagnolo o per essere
di lingua troppo grossa.
Si scambia spesse fiate coll't.
Pieno — Pren. Fianco — FrancU, Coppia — Coppi'.
Fiacco — Frarch, Fiadone — Fradone. Aja — Ar\
16. S. Numerose metamorfosi ha pure questa lettera nel verna-
celo abruzzese, giacché la vedi scambiata in se ; talvolta in z ; ora
fìnge il e, poco di poi viene mascherata in s.
Cassa — Cascia, Rosso — Rosee. Orsola — Or sii'
Biagio — Blasce,
Frisa — Friseia. Frissora — Firzora, Orso — Urs.
17. T., — Qualche volta si cambia col d: del rimanente è conno
in italiano.
18. U. — È la vocale quasi esclusiva de' vocaboli destinati a
significare mali augurii, tristezze, privazioni, dolori, tenebre ec.
19. V. — Scambia sue veci col 6. — Avvocato — Abbucat\
20. Z. — Il e, il g, r se si scambiano con questa lettera, il
cui suono or si assomiglia all'aspro di vezzo e seorza^ ora al dol-
cissimo di caha^ calzino.
Zoccolanti — Ciucculant'. Zoppo — Ciopp*. Orzala —
Urgiet.
Zana — Scianna. Buzzicare — Vuseieà.
Sillabe,
11 sig. De Virgili! trattò delle sillaee in brevissime parole, fa-
cendo osservare che le leggi colle quali sono esse regolate, nacquero
da quel tacito consenso che die origine all' indole delle lettere diffe-
renti dall'italiano nobile.
Regola. Allorché la lettera { si trova con una di queste lettere,
367
ò, e, rf, m, r, 5, /, «, chiama in suo soccorso la vocale e muta or
rimanendosene sola .con essa, or raddoppiandosi, ora trasforman-
dosi in t7.
Alb. — Alebe (Alba) — Palebalà (falbalà).
Ale. — Cavecione (cacione) — Sdvece (salcio).
Alm. — Calerne (calma) — Meme (alma) — Pàkme (palmo).
Als. — Savicìcce (salsiccia) — Savéze (salsa).
Alz. — A*vezé (alza) — Caveze (calze).
Eie. Fèvece (felce) — Sèvéce (selce).
Olt. — Tóvete (tolto) — Coveté (colto).
Oltr. — Pelleirone (poltrone) — CoUetre (coltre).
Parole.
1. Tutti gl'infiniti lasciano il re. Questa sillaba è aborrita anche
ne' verbi scrivere, leggere, ec. i quali fauno $criv\ legg\
2. Tutti i nomi e gli aggettivi passano dal singolare al plurale,
mutando in t Ta e Te su cui cade l'accento nelle parole piane;
io ti, la vocale o. — Le eccezioni sono pochissime.
L agnelV branch — /' agnill brine,
Lu can* furzent' (robusto) li chin' furzint*.
La jereva verd — li jireve vird,
Lu celi malizios* — li cilli malizius'..,
3. Tutte le parole finiscono come le tronche italiane, e senza
eccezione lasciano la vocale finale muta.
4. Tutte le licenze notate ne' trattati di versificazione, si trovano
nel Dialetto Abruzzese.
. 368
DIALETTO CALABRESE.
Non meno cortese del traduttore del Dialogo in Abruz-
zese, il signor Luigi Gallucei annuiva alla mia domanda
di una traduzione in Calabrese ; dichiarando che niuno
fin' allora erasi dedicato a un tale lavoro letterario: ma-
nifestava oltre di ciò il dispiacere di non poter corredare
il Dialogo di quelle moltiplici osservazioni, di cui avrebbe ab-
bisognato, limitandosi a dare un saggio colle seguenti perchè
di maggiore importanza.
Varii sono i dialetti usati nelle tre Calabrie, e cosi di-
versi tra loro, da non esser quasi possibile di ravvisarvi
una rassomiglianza. Di tutti il più puro sembrò al Gallucei
quello parlalo nei Casali di Cosenza ; egli ha regole gram-
maticali e maniere molto espressive, e sebbene goffa, na-
sale e stretta sia la sua pronunzia, non manca però di
qualche grazia ed armonia. Hanno buona copia di pa-
role anche altri vernacoli, acconci a significare i vari aspetti
che una cosa stessa può dimostrare, e valga per tutti il se-
guente esempio : a denotare il differente grado di maturità
nei fichi bisogna usare nel linguaggio italiano gli aggettivi
fico acerbo, fico maturo, nel dialetto Calabrese una sola
delle seguenti voci è bastante, schiaUillu (fico appena sbuc-
ciato), tuozza (fico alquanto cresciuto), ngrmffu (fico pros-
simo a RKiturazione), passtilune (fico maturissimo che sta
per seccarsi).
Ciò bastar poteva per dare un qualche saggio filologico
del volgare parlato in Calabria, ma sul cadere del decorso
anno 1863, nella Rivisla Coìitemporanea che si pubblica in
Torino, venne inserito un discorso utilissimo del Dott. Cesare
Lombroso col titolo Tre mesi in Calabria, che contiene re-
condite notizie degli usi, dei costumi, del linguaggio di quella
369
parte d' Italia, che con lieto animo aggiungo in compendio
alle superiori illustrazioni del signor Gallucci. E prima di
tutto giovi il ricordo, che quando conservar si voglia alla
fìgura geografica dell'Italia il paragone ad uno stivale, quasi
tutto il piede, al tempo dei Romani, chiamavasi Magna Grecia,
per le molte greche famiglie che vi avevano trasportato il
domicilio e perchè vi possedevano grandiose città. Seneca
scrisse Totum Italiae latus, quod infero mari [Ionio) alluitur,
major Graecia fuit. Quell'esteso e bel paese fu retto con una
specie di teocrazia esercitata dal consorzio sacerdotale dei
Pittagorici, e con esso vide fiorire non solamente le scienze
e le lettere, ma ben anche quella celebre scuola italica
composta in gran parte di uomini che governarono saggia-
mente, collegando la politica alla filosofia : ciò basti per ora;
si torni ai ricordi presi dell' egregio Dott. Lombroso.
La Calabria divisa nelle tre provinole, che hanno per
capiluoghi Cosenza, Reggio e Catanzaro, è un territorio in
cui la natura dispiega immense ricchezze, quasi a compenso
deir umana trascuraggine ; e questa fu cagionata e perfida*
mente fomentata dalla iniquità del governo Spagnolo, poi
del Borbonico ! Il modo di vivere al tutto anti-igienico e la
tendenza all' ozio, per cui le migliori e più produttive in-
dustrie sono lasciate ai Genovesi ed agli Inglesi, è un frutto
del mal seme sparso in Calabria dagli Spagnoli, ed è ben
anche spagnolo il ridicolo vezzo dei titoli, per cui il mer-
ciajolo abbandona la lucrosa sua industria per poter carpire
il Don ; basti il dire che nella proverbiale città di Tropea
vi si contano tanti cavalieri quanti abitanti I Ma il danno
peggiore fu apportato dai Borboni. Non contenti di isolare
i Calabresi coi passaporti e colle pessime pubbliche vie,
aizzavano il loro odio contro i vicini Siciliani ; spedivano in
mezzo ad essi nei tempi di rivoluzione i galeotti, ed in tempo
di pace i peggiori impiegati : nei quali promossero la ve-
24
370
nalità e fecero smarrire il senso della giustizia, sicché i
ricchi negavano la mercede ai cortigiani ed ai coloni, e
questi alla loro volta reputavano diritto il derubarli. Po-
chissime scuole e mal dirette, ed invece molte pompe e
pratiche religiose: queste e molte altre indegnità costitui-
vano il retaggio Borbonico.
Ma gli studi speciali del Doti. Lombroso lo sollecita-
vano a rivolgere le sue investigazioni sullo stato igienico di
quelle contrade, e gli si offersero scene le più dolorose.
Una decima parte dei terreni è paludosa ed incolta: nella
ricchissima Gioia Taria è così infetta, che tutti i ricchi emi-
grano per sei mesi dell'anno, e nel giorno non ci dimorano
che poche ore, rifugiandosi nella sera in Palme, mentre l'a-
sciugamento delle vicine paludi costerebbe ben poco, e pro-
durrebbe utili grandissimi. Le abitazioni dei ricchi sono ab-
bastanza comode, ma in molti paesi le case agglomerate in
piccolo spazio mancano d' aria e di luce. Da per tutto sono
luride quelle dei poveri e dei coloni ancora: il piano ter-
reno è la terra umida e nuda ; le scale a pinoli ; gli altri
piani sono impalcature di assi e di paglia dove a strati so-
prapposti stanno ammassate intiere famiglie ; e si noti di
più che le bestie di casa, il majale ed il pollo, vi occupano
sempre il posto migliore : spesso mancano anche quelle di-
visioni, ed un solo tetto raccoglie fanciulli, giovani, e sposi
dei due sessi, unitamente ai vecchi : ora si sappia che per
le leggi del paese le donne debbono restar rinchiuse in
quei tugurj come in sepolcri, quindi le prime ad esser col-
pite dalle malattie scrofolari, dall'oftalmie, dalle epidemie
e dai contagi. Né poco aumentata è la mortalità dal bar-
baro costume di dar marito alle fanciullette dai 9 ai 12 anni
senza riguardo all' imperfetto sviluppo di quelle sventurate,
che danno poi origine ad una prole atrofica, intristita, in-
capace di vigorosa e lunga esistenza : immoralissimo poi è
37<
r uso di prometterle fino dalle fasce in matrimonio, soffo-
cando per vedute di interessi domestici le voci della natura
e del cuore : ma ciò poco importa ove l' ozio viene eretto a
merito, l'odio a sistema, l'accattonaggio a mestiere.
Si trovano in Calabria colonie antiche di grande im-
portanza per r etnografo, perchè conservano le vestigia di
due popoli che ripeterono forse per uguali vicende le stesse
emigrazioni dei loro antenati, Greci ed Albanesi. I Greci mal
confusi coi secondi occupano 1' estremo punto , che direbbesi
ultima Tuie dell'Italia continentale : sono in numero di 9000
circa sparsi a Bovi, a Roccaforte, Roccudi, Cardetu, Pondofuri,
Caligo, Korio, Amenda. E se ne trovano pure nel distretto di
Cotrone ed in quello di Lecce, Gallatina, Purrano e Maje
frammischiati e vicini agli Albanesi. Questi Greci, spe-
cialmente i ricchi, conservano l'antico tipo dell'Attica;
sono fini, astutissimi, lascivi ; hanno grande mobilità d' idee,
somma facilità al canto ed all' armonia. Conservandosi se-
mibarbari nei loro poveri tugurj sebbene in ogni lato cinti
dal mare, rifuggono dalla pesca, e ciò sarebbe indizio che
non vennero dalle coste, ma dall' interno della Grecia : ed
infatti come gli antichi Elleni preferiscono T agricoltura, la
pastura delle capre, la caccia delle volpi ; oppure emigrano
e coir antica loro finezza, eccitata da povertà, addivengono
ricchi ed avarissimi. Essi hanno quattro chiesette ed un
meschino ospedale : osservano, benché molti abbiano asse-
rito il contrario, tutti i riti e la liturgia della religione cat-
tolica, mescendovi bensì alcuni avanzi di pratiche pagane,
come pure fàcevasi in passalo dai Calabresi.
Gli Albanesi tutti emigrati in un'epoca medesima,
quando i Turchi cioè occuparono 1' Epiro, conservarono più
gelosamente le avite tradizioni. Oltrepassano essi il numero
di 50,000 e popolano Spezzano, Celso, Piataci, Bocca,
San Niccola, Calpizzato, Longobuco, Frassineto, Porcile,
372
San Mauro, Civita, San Giorgio, Maida, Garafifa, San Martino,
Macchi, Fermo, Lungro, Santa Sofia, San Benedetto e
San Dimitri, ove trovasi la sede del collegio Italo-Greco,
la di cui grande e giusta fama contribuì non poco alla
confusione che molti fanno delle popolazioni greche colle
albanesi. La fisionomia di quelli stranieri arieggia molto la
Slava , anzi la Serba : statura elevata ; contorno della
testa più alto che largo ; temperamento linfatico-muscolare.
Abilissimi nella corsa ed alla caccia, hanno animo fiero,
anzi feroce ; tengono la vendetta dovere, non illecito Tomi-
cidio ed il furto domestico delle capre : poi per efifetto
di strana contradizione sentono con somma delicatezza le
offese dell' onore e sono incorruttibili per denaro : taciturni,
pazienti, ostinati, sono nell' istesso tempo fantastici ed
immaginosi, soprattutto insofferenti di ogni dominio domesti-
co e di ogni politica tirannide. Il Borbone, che bene ciò
sapeva, teneva sotto speciale sorveglianza e sequestro interi
villaggi albanesi , come San Benedetto paese natale di Agesi-
lao Milano. Conservando affetto all'antica terra patria, i po-
veri e le donne vestono tuttora alla foggia dell'Epiro, ed i
loro villaggi guardano tutti verso il mare Ionio. Ma le loro
donne non escono dalla schiavitù paterna che per raddop-
piare i loro duri ceppi sotto il marito, per cui debbono
lavorare e sudare nei campi, non ricevendone spesso in
compenso che battiture ed oltraggi. La loro religione è in
apparenza ortodossa, per la paura non ancora estinta, della
Borbonica intolleranza ; in fondo però è greca, e lo dicono
in segreto i loro capi, come greca è la loro liturgia : frat-
tanto i loro sacerdoti, che si maritano, sono onestissimi e
molto dotti.
Ma per indagare le origini di queste colonie greche e
albanesi è pur necessario un qualche esame del loro dia-
letto. Quasi tutte le forme grammaticali sono greche antiche
373
ed alcuni vocaboli di conio greco-arcaico , come dm-
dron per quercia; come i nomi dei giorni curiaci, deuteri,
triti, per domenica, ecc., come xilo per barca; rema per
mare ; opsia per monte ; calidi pagliai ; muscari {moscos)
vitello ; dure {cirios) per padre ; vrastà per febbre ; ma essi
ne hanno anche di pura fonte latina, come curatora per
massaio; e ru<:anica per la salciccia, T antica gloria della
Lucania ; pulii per uccello; spiti per casa [hospitium); signali
per isternuto; magna per bella; prandia per nozze; butulia
per vacca ; tessera per canzone, quasi a dire un memmiale
a voce; e si noti che nessuno di questi latinismi è usato
dagli altri Calabresi che pure ne hanno tanti nel loro ver-
nacolo. Usano altresì alcune parole provenienti dal turco, o
arabo e greco moderno, come crasi, vino; curcudia grano tur-
co; gidi capretto ;f>arà denaro; nero acqua; turchi fico d'India.
Sono altresì da rimarcarsi alcune singolari differenze tra
Tuno e l'altro di quei vicini paesetti greci: per esempio il
porco è detto etri a Roccaforte e cunì a Bovi; il burro là
è detto hisca, qua gadetu; il padre dure a Roccaforte, al-
trove patre e messere; il pane si chiama ora psomi ora spomi;
la caldaja vrastaia, in qualche luogo stannata ; il presciutto
perscutto, in qualche luogo affeddu; la salciccia o sattizza
dei Calabresi è detta da alcuni morguni, da altri rucanica.
Passando a parlare più specialmente dei Calabresi è da
notarsi che il maggior sollazzo così dei ricchi come dei po-
veri è quello di raccogliersi per ascoltare le tragude o can-
zoni, accompagnate dalla zampogna o dal tamburello. Al-
cuni di questi trovatori si succedono di padre in figlio, ere-
ditando le raccolte dei canti, da cui traggono un piccolo
lucro : quei versi sono in calabrese, o in italiano corrotto,
quasi mai in greco : ecco un saggio di quei canti :
» Itala naho dodeca tumana sitari,
9 itala naho mia
374
» Kapseda magna fiogari
)) Naho mithoy spera, ce vradia.
Traduzione»
Vorrei avere dodici tumoli di grano,
Vorrei avere una
Ragazza beila come la luna.
Per dormire seco giorno e notte.
» Oli mi legai : tragada, traguda ;
); E me nu mi veni a se cardia;
» Na tragudia ta cala garzuna :
)) Cina peogapemena me cardia,
» 1 hambando abaro fortuna
Cina psimno genimeni sti fascia.
Traduzione
Molti mi dicono: canta, canta;
Ma a me non viene ispirazione al core;
Perchè cantano le belle zitelle:
Quelli che sono amati con cuore
Hanno sempre mala fortuna
Fino da quando nacquero, sotto le fasce.
Ma per meglio far conoscere il carattere poetico del
dialetto calabrese, trascriverò una canzone che riassume
la storia ed i pregi del vernacolo.
È la lingua calabrese che parla all'italiana nel 1830.
Mali di tia non dissi
À mia dassami stari;
Non mi stari a frusciari
Ch'jja accuntu.
Eu sempre T accettai
Ca sii megghi di mia;
Non tanta prolaria
Nu mi sbrigogni.
Male non dissi di te ;
A me lasciami stare ;
Non starami a noiare
Che io stia in sussiego-
Io sempre Y ammisi
Che tu sei migliore di me;
Non tanta albagia
Che non mi umilii.
375
Di tia n' du fazza stima
Manda li mia cotrari
D'Itcìlia p' impararì
Lu linguaggiu.
Non mi negai pe goffa
Lingua zza scancarata
Squajata, scafozzata
E puru ppja.
Dissi ch*eu su la razzn
£ tu SI Io sotizza
Ca tu si io pastizzu
Ed eo cipuia.
Dissi ca cui s' arra mbula
Sempre intra grassezza
Disia pe* vurdizza
Erbe scunduti.
Tu sai di cui parrava ;
La grassa ero di tia
E sulu era di mia
Lu scundimentu.
Sai picchi piaccia a tutti ?
/ Si siccano di tia
E cui si vota a mia
Pigghia rispiru.
Tu scardi l' eleganza ;
Ti voi raettiri 1' ali ;
Eu parru naturali
E da nu gustu ecc.
Tutti questi palori
Gh'avimo nu su novi
La radica si trovi
À tanti liogui.
Nu simu ntra T Italia
E fummo Greci puru :
E quanti ncindi furu
Di genti strani !
E quanti antri naziuni
Nu vinnaru d' intornu
Di oriente a mezzojornu
E tramuntana.
Nei fura Saracini,
Nei furu li Normanni,
E pi tanti e tant' anni
Li Spagnoli.
Di te io faccio stima
E mando i miei ragazzi
Per imparare d' Italia
Il linguaggio.
Non mi negai per goffa
Lingua sgangherata,
Sguaiata, acciabattata
E pure per peggio.
Dissi che io sono il ra fanello,
E tu la salciccia,
Che tu sei il pasticcio,
Io la cipolla.
Dissi che chi s' indraga
Sempre fra la grascia
Desidera per leccornia
Erbe salvatiche.
E tu sai di chi io parlava ;
La grascia era per te
E solo era mia
La selvatichezza.
Sai perchè piaccio a tutti?
Si annoiano di te;
E chi a me si afiida
Prende respiro.
Tu aspiri all' eleganza ;
Tu vuoi mettere V ali ;
Io parlo naturale
E do piacere ecc.
Tutte queste parole
Che abbiamo non son nuove
La radice la trovi
In tante lingue.
Noi siamo in Italia,
E fummo paese greco :
E quante ce ne furono
Genti straniere I
E quante altre nazioni
Ci vennero d* attorno
Da oriente a mezzo à\
E da tramontana.
Ci furono i Saracini,
Ci furono i Normanni,
E per tanti e tant' anni
Gli Spagnuoli.
376
Nei foru li Tedeschi
Nei funi li Romani
Che Doa Gcioru pani
A chistu cielu.
À r urti mata, poi
Vinuaru li Francisi;
Nei vinnaru l'Ingrisi,
E tanti truppi.
Prussiani e Musco vi ti,
Vittimu li Polacehi ;
£ puru li Gosaechi
Nei indi furu.
Di tutti ehisti lingui
Mundi piechiau na picea;
Viti quantu su ricca
Di palori.
Ma tantu ti dispiaci
Lu pemmu o pocu e mw,
Ma dimmi, puru i tu
Nu fai iu stessu ecc.
Ci furono i Tedeschi,
Ci furono i Romani
Che non fecero pane
A questo cielo.
Air ultimo poi
Vennero i Francesi,
Vennero gì' Inglesi,
E tante truppe.
Prussiani e Moscoviti,
Vidimo Polacchi ;
E persino i Cosacchi
Qui ci furono.
Di tutte queste lingue
Ce ne pigliammo un poco ,
Vedi quanto son ricca
Di parole.
Ma tanto ti dispiace
II mio pemmuy pocu e mu,
Ma dimmi, eppure tu
Non fai lo stesso, ecc.
Dopo questo saggio importante delle poesie Calabresi,
cui potevansi aggiungere alcune ottave del Tasso tradotto
in Cosentino, offrirò il consueto Dialogo volto anch'esso
dal Gallucci nel vernacolo di Cosenza.
377
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
ED UK Sto SERVITORE.
Padrone. Ebbene, Bali-
sta, hai tu eseguite tutte le
commissioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino ;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città, ma
poi è piovuto tanto !
Padr. Che al solito sei
stato a fare il poltrone in
un' osteria, per aspettare che
spiovesse 1 E perchè non hai
preso l'ombrello?
Serv. Per non portarquel-
r impiccio; e poi jeri sera
quando andai a letto non pio-
veva più, se pioveva, pio-
veva pochissimo : stamani
quando mi sono alzato era tut-
to sereno, e solamente a leva-
ta di sole si è rannuvolato.
TRADUZIONE
NEL DIALETTO
CALABRE SE.
Patrune. Va diciennu,
Batti, facisti tutte chille cose
chi te dissi?
Serviture. Signuorsì, e te
puozzu assicurare ca signu
statu puntuale ppe quantu aju
puttUu. Stamatina a dudici
ure e nu quartu me misi nca-
minu; a tridici ure e mensa
eradi alla metate de la via;
ed a quinnid ure menu nu
quartu pigliava Cusenze (a) :
ma echi ne sacdu si pue nne
jettavadi acqua !
Patr. Basta chi allu so-
litu tue nun (b) te fosse misu
a fare lu fingunaru a quarchi
taverna, aspettannu chi scam-
passi. E pperchì un te pi-
gliasti lumbrella?
Serv. (c) Ppe nun ragare
stu mpacciu. E pue jeri sira
quannu me jivi a curcare era
scampalu, o si chiuviadi quantu
appena squicduliavodi. Stama-
tina, quannu me signu levatu,
all' ariu nun c&era na rosea,
e se ntruvulaudi sulamente ad
378
Più tardi si è alzato un gran
vento, ma invece di spazzare
le nuvole, ha portato una gran-
dine che ha durato mezz' ora,
e poi acqua a ciel rotto.
Padr. Cosi vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto quasi
niente di ciò che ti avevo or-
dinato ; non è vero ?
Serv. Anzi spero che ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
Serv. Nel tempo che pio-
veva mi sono fermato in bot-
tega del sarto, ed ho visto
con questi miei occhi racco-
modato il suo soprabito con
bavero e fodere nuove ; la sua
giubba nuova, e i pantaloni
colle staffe erano finiti, e la
sottoveste stava tagliandola.
Padr, Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo, e il calzolajo, e
di questi non ne hai cercato?
Serv. Sì signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio, e non gli mancava
esciuta de sale. Cchiù tardu
se smosse nu vientulizzu, e
nvece de spannizzare le nuvi,
le sciozedi a na forte granni-
niata, chi durau menz ura, e
pue ad acqua a tieni ca-tiegnu.
Patr. Deccussx me vue
fare capire ca nun ne facisti
nente de chillu chi ( aviadi
ditiu Ud é lu vieru?
Serv. Ansica me Ittsingu
de restare cuntientu quannu le
dicu e sienti lu giru chi fici,
tra due ure, ppe Cusenze.
Patr. Sentimu ste (d) gap-
parie tue.
Serv. Altramente chiù-
viadi, m' appuntai alla putiga
de lu custulieri, e vidietti ccu
st' nocchi lu suprabitu vuostru
cunsatu ccu lu cullaru, e la
fodera nova : la velata tur-
china, e li cauzunì luongU
ccu le staffe eranu frunuti, e
lu giammerghinu chi vi lu
stava tagliannu.
Patr. Tantu miegliu. Ma
te truvave vicinu allu cap-
pellaru e allu scarparu ; ndu-
vina si cce jisti ?
Serv. Ma cuomu! Lucap-
pellaru ve stava pulizzannu
lu cappiellu viecchiu, ed allu
379
che orlare il nuovo. Il cai-
zolajo poi aveva terminati gli
stivali, le scarpe grosse da
caccia, e gli scarpini da ballo.
Padr. Ma in casa di mio
padre quando sei andato,
che questo era T essenziale?
Serv. Appena spiovuto, ma
non vi ho trovato né suo padre,
né sua madre, né suo zio, per-
chè jeri r altro andarono in
villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno sarà stata
in casa ?
Serv. No signore, perchè
avevano fatta una trottata ,
verso il Carmine ed avevano
condotto il bambino e la bam-
bina.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa ?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor pa-
dre, la cameriera e due servi-
tori erano con sua cognata, e
il cocchiere avendo avuto l'or-
dine di attaccare i cavalli per
muoverli, se ne era andato col-
la carrozza verso Portachiana.
nuovu ce avia de uruliare la
zagarella, Lu scarparu pue
V aviadi spicciatu li stivali,
li scarpuni de caccia e lu
scarpinu d' addanza.
Patr. Ma ncasa de pa-
tremma cce jisti, ca chistu è
l* esseziale !
Serv. Ajypena scampaudi;
ma nun ce eradi nne patr et ta,
nne mammata, nne ziuta, ca
nìAStierzi (e) jiei^ neampagna,
e cce durmierudi.
Patr. Fratemma, arme-
nu (f) ecu la mugliere era nu
alla casa?
Serv. Signarnò^ pperchì
eranu juti a se fare na ca-
minata viersu lu Carminu, *
e s avianu pvrtatu lu qua-
trariellu e le quatrarelle.
Patr E li servituri puru
eranu esciuti tutti?
Serv. Lu cuocu ero juto
ccu patretta : la camnwrera,
e dui servituri ccu chenatata,
e lu cu^chieri, chi aviadi avutu
r ordine de miniere sulla la
carrozza, era jutu a sfugare
li cavalli viersu Portachia-
na. *
t Località prossime a Cosenza.
380
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
Serv. Non vi ho trovato
che il garzone di stalla» ed a
lui ho consegnato tutte le let-
tere, perchè le portasse a chi
doveva averle.
Padr. Meno male. E la
provvista per domani?
Serv. L' ho fatta : per
minestra ho preso della pa-
sta, e intanto ho comprato
del formaggio e del burro.
Per accrescere il lesso di vi-
tella, ho preso un pezzo di
castrato. Il fritto lo farò di
cervello, di fegato e di car-
ciofi. Per umido ho compra-
to del majale, ed un' anatra
da farsi col cavolo. E sicco-
me non ho trovato né tordi,
né starne, né beccacce, ri-
medierò con un tacchino da
cuocersi in forno.
Padr. E del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perché costava po-
chissimo Ho comprato sogliole,
triglie, razza, nasello e aliuste.
Padr. Così va benissimo.
Ma il parrucchiere non lavrai
Patr. Addunca la casa
la putie sacchiare ?
Serv. Cee truvai surtantu
lu muzzu de stalla, e ad illu
cunsignai tutte le littere ppe
le purtare a chine jianu.
Patr. Mancu male. E la
pruvvista ppe demane ?
Serv. L aju fatta. Aju
pigliata pasta ppe na minestra
janca, ed aju tratantu accat^
tatù lu casu e lu grassu.
Pped' accriscere lu bullitu de
vitella, ccajujuntu nu muorsu
degrastatu. Lu frittu lu fazzu
de medulla, de ficatu, e de
cardwffuli. Aju cumpratu car-
ne de puorcu ppe la stufare,
e na paparella d'acqua ppe
la fare cunnuta ccu lu cavulu.
E cuomu nun cceranu nne
marvizzi. nne stame, nne ar-
cere, ammazzu na gallotta e
la mannu a cocete allu fumu,
Patr. E pisci un accat-
tasti ?
Serv. Ansi assai, pperehì
jianu vili. Aju accattatu pa-
laje, triglie, raje, merluzzu, e
na (g) ragosla.
Patr. Ccussì jamu buoni.
Ma lu pirucchieri un lu pu-
/^
384
potuto vedere?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e cioccolata,
così ho parlato anche a lui.
Padr. e che nuove ti ha
date?
Serv. Mi ha detto che
r opera in musica ha fatto
furore, ma che il ballo è stato
fischiato ; che quel giovine
signore suo amico perde Y al-
tra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire colla diligenza
per Napoli. Mi ha detto pure
che la signora Lucietta ha
congedato il promesso sposo,
e ha fatto giuramento di non
volerlo più.
Padr. Gelosie.... questa si
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
listi vtdere?
Serv. Ansica cuonm la
putifja sua ^ eradi muru-a-
mtiru ccu chilla de lu dm-
ghieri, duve me fici la pu-
vista de zuccani, pipe, garo-
faluy cannella e cicculaiayccusst
parrai punì ad illu.
Patr. e echi nove te de-
zedi ?
Serv. Me 'disse ca lu
spartitu evia fattu nu furure,
e ca lu ballu l'avianu fischiatu:
ca chillu signurinu, amicu vuo-
stru, avia perduto allu juocu^
V autra sira, tutte le scum-
misse, e ca muoni sta aspetta-
nu la diligenza ppe sinne jire
a Napoli. Me disse puru, ca
donna Lucietta ha licenziato
lu zitu (h), ed ha fattu lu
juriamentu de nun lu vulire
videre cchiù.
Patr. Gelusia... e va te-
nete a nun ridere... ; ma pen-
samu a nue.
Serv. Si ve cuntentaH me
manciù pìima na zichina de
pane, e me vivu nu becchieri
de vinu, e pue tuornu subitu
all' uordini vuostri.
Patr Ma vica (i) vaju
mpressa, ppercht divu jire
383
ascolta prima cosa li ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara lutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli migliori;
tra i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
manchino né scodelle, né vas-
soj. Accomoda la credenza con
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Serv. E quali posate met-
terò in tavola ?
Padr. Prendi i cucchiai
d'argento, le forchette e i
coltelli col manico d' avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini siano
quelli di cristallo arrotato. Ac-
comoda poi intorno alla tavola
le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna.
Tu sai quanto è stucchevole
quella vecchia! Metti in ordi-
ne la camera buona, fa' riem-
/bre de casa : sente prìmu
chillu chi te uordinu, e pue
mancia e vive quantu te piace.
Serv. Poca Vussurìa me
cummanna.
Patr. Ppe lu pranzu chi
se dive fare, pripara tuttu
allu cammerinu migliure. Pi-
glia lu misale e li servietfic-
chiù fini. De li piatti assil-
lije chilli de pur*Mana, e [ani
chi un cce manchinu piatti
cupputi. Aggiustate lu ripuostu
ccu frutti, uva, nud, mien-
nule, cunfietti e buttiglie.
Serv. E quali pusate cce
cacciu alla tavula?
Patr. Mintecce le cucchiara
d' argientu, e le furcine e le
curtella ccu lu manicu d' avo-
liu ; e ricordate chi le bottiglie
d' acqua, e li becchieri gratmi
e picciuli sianu de chilli am-
mulati. Accomoda ntuornu-
ntuornu alla tavula le miegliu
segge.
Serv. Circu a te servere
ccu pruntualità.
Patr. Ricordate ca sta-
sira vene Nannama. Tu sai
quantu è stridusa chilla vec-
chia! Arrigistra la cammera
bona : accomoda lu lieitu ccu
383
pire il saccone e ribattere le
materasse. Accomoda il letto
con lenzuola e federe le più
fini, e cuoprilo col zanzariere.
Empi la brocca di acqua, e
sulla catinella distendi un
asciugamano ordinario ed uno
fine. Fa' tutto in regola, e la
mancia non mancherà.
Serv. Per verità ella mi
ba ordinato molte cose, ma
farò tutto.
lenzula e le cere de cuscina
li cchiù fini, e coprelu ccu la
lavanera. Inchie lu cucumiellu
d'acqua, ed apparicchia lu
vacile ccu due tuvaglie })pe
se lavare, una ordinaria e
n autra fina. Fa lutiu a rie-
gula, ca te rigalu.
Serv. Minne aviti dittu
assai, ma spieru de seguire
tuttU'
384
NOTE SUL DIALETTO CALABRESE
DEL SIONOR OALLUGCI.
(a) Nella Calabria Cosentina il modo di contare le ore alla
francese conoscesi da pochi, e tutti gli orologi de' Comuni suonano
air italiana.
(6) Nun equivalente a non scrivevi talvolta un, ed altre volte
ud secondo T eufonia.
(e) Ppe vale per^ e scrivesi con doppia ^consonante per
l'asprezza della pronunzia, la qual cosa vedesi accadere in moltis^
si me voci.
(d) Stu e Sta vale questo e questa,
(e) Nustierziy quasi nudius tertius^ T altro giorno.
(f) Armenu vale almeno: notisi che ordinariamente in questo
dialetto alla lettera / si sostituisce la r.
(g) Nu na, uno una.
[h] Vica, vedi che.
(t) Zxtu^ promesso sposo.
385
DIALETTO DI FOGGIA.
Ai tempi del Romano impero i dominii napolitani di
qua dal Faro vennero divisi in quattro compartimenti: uno
di essi comprendeva la Calabria e la Puglia, la seconda
delle quali contrade estendevasi dal Gargano fino al Capo
di Leuce. Conseguentemente le tre attuali provincie di Ca-
pitanata, Terra di Bari e Terra d' Otranto allora riunite, for-
mavano la Puglia, ossia quasi tutta la parte orientale del
Reame: quindi avvenne che gli invasori normanni, che com-
parvero nel secolo XI si contentarono del titolo di Conti di
Puglia, e poi anche il fondatore della monarchia Ruggero
amò chiamarsi Re di Sicilia e di Puglia. Nella istituzione dei
Giustizieri, promossa dal secondo Federigo, incominciasi a
trovare la triplice divisione della Puglia tuttora conservata.
Ma quando V Imperatore Greco portò in Bari la sede
principale del suo governo, mantenne colà le sue conquiste
che di tratto in tratto andava facendo con infrenare gli
abitanti della Puglia, pensò di sostituire al suo Delegato detto
Stratico Capitano di armi un Catapano o Governatore in-
vestito di supremo potere; uno di questi Basilio Bugiano
nel 1018 distaccò questa parte di Puglia, vi fondò terre e
castella, e ne formò una separata Provincia che incominciò a
chiamarsi Catapanata poi Capitanata,
La vetusta città della Daunia Arpi e con greca voce
Argirippa, cui dai fastosi storiografi greci volle darsi per
fondatore Diomede, sorgeva un tempo ove trovasi la mo-
derna Foggia, ora capoluogo di Capitanata come in età remota
fu capitale dei Danni. Strabene aggiunse che fu Arpi tra le
primarie città italiche : Virgilio, Orazio, Ovidio ne tesserono
poetici elogi : Polibio, Tolomeo, Stefano Bizantino ne fecero
onorevole menzione. Dei travagli sostenuti dai suoi abitanti
26
386
nelle guerre Sannitiche e nella Punica prese ricordo Livio :
Plinio poi ne avvertì che i Romani vi dedussero una colo-
nia. Nella barbarie del VI secolo incominciò lo spopolamento
di Arpi; verso il 1000 quella vetusta città divenne un muc-
chio di rovine. Se non che gli abitanti avevano già inco-
minciato a ricostruirsi una borgata alla distanza di poche
miglia in luogo basso però e paludoso: e poiché nel bar-
baro linguaggio di quei tempi Fcyya e Fogice erano chiamati
i marazzi, fu perciò detta Fogia la novella città. Dopo Ro-
berto Guiscardo , ai tempi di Ruggiero Duca di Puglia ,
Foggia aveva prosperato in modo da esser considerata la
soconda città del regno : anzi Federigo vi fermò la residènza,
decretando nel 1223 che fosse considerata inclita sede im-
periale e reale. Al tempo degl'Angioini molto soffersero gli
abitanti; ma il primo dei sovrani Arragonesi Alfonso lar-
gheggiò in privilegi per Foggia, e la dotò di una regia do-
gana per la celebre istituzione del Tavoliere di Puglia. Nei
primi anni del secolo XVI Ferdinando il Cattolico venne
accolto in Foggia splendidamente, e in ricompensa le fu
generoso di molti favori. Foggia insomma può tuttora con-
siderarsi come una delle primarie tra le città provinciali,
e per tal cagione appunto volli procacciarmi un saggio del
vernacolo in quella città usato e potei ottenerlo dalla cor-
tesia di valentissimo giovine artista, il quale confessò bensì
essergli costato molto imbarazzo il trasportare Tidioma ita-
liano nel gergo del suo paese.
387
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
ED UN SEAVITORB.
Padrone. Ebbene, Balista,
hai tu eseguite tutte le com-
missioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città ; ma
poi è piovuto tanto!
Padr. Che al solito sei sta-
to a fare il poltrone in un oste-
ria, per aspettare che spioves-
se! E perchè non hai preso
r ombrello ?
Serv. Per non portar quel-
l'impiccio; epoijeri sera quan-
do andai a letto non pioveva
più, se pioveva, pioveva po-
chissimo: stamani quando mi
sono alzato era tutto sereno,
e solamente a levata di sole
si è rannuvolalo. Più tardi si
è alzato un gran vento, ma
invece di spazzare le nuvole,
ha portato una grandine che
TRADUZIONE
NEL. DIALETTO
DI FOGGIA.
Padrone. Ei Battisi euje
fat tut la commens che tacghio
deut?
Servitore. Signore ti poz
assicura ca so steut puntueul
chiù caggh pututo. Sta matina
a tridici ora e nu quarto già
cammineur, e mezzora prima
der l'ufficio Steve a mezza slreu-
de; e tre quart d' oreu dopo
r ufficio era in miezza allia
chiazz : ma dop à fai tantacqua !
Padr. A lu solito si steut a
fa lu pultron dint a na taverna
paspettà ca schiuves! E pecche
nni hai piglieut l' umbrel ?
Serv. Pi nimpurtà quii-
r umpic ; e poi jier sera jéi a
lu liet nin chiuveva chiù, o se
chiuveva, chiuveva assai poco ;
stamatina quan mi sont avizato
era tutto sireno, e solamente a
sciufo di sole si è nuvuleut.
Chiù iard si avizeuf nu grus
vieni, ma mece di aliai gà leu
nuvole ha purteul na granila
cheu aveu dureut mezzor, e
388
ha durato mezz' ora, e poi
acqua a ciel rotto.
Padr. Così vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto qua-
si niente di ciò che ti avevo
ordinalo; non è vero?
Serv. Anzi spero che Ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
Serv.NcI tempo che pioveva
mi sono fermato in bottega del
sarto, ed ho visto con questi
miei occhi raccomodato il suo
soprabito con bavero e fodere
nuove; la sua giubba nuova e i
pantaloni colie staffe erano fi-
niti e la sottoveste stava ta-
gliandola.
Padr. Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo e il calzolajo, e di
questi non ne hai cercato?
Skrv. Sì signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio, e non gli mancava
che orlare il nuovo. Il calzolajo
poi aveva terminati gli stivali,
le scarpe grosse da caccia, e
gli scarpini da ballo.
Padr. Uà in casa di mio
apprie acqua a rot di del.
Padr. Accossi mi vuoi fa
capi va né eui fai quesi nient
di quant t* avcvu eurdineuf ; e
lu vero ?
Serv. Anz aggheu speranz
cheù signiria steuce contenf,
quan saprà lu gir che agghieu
fat peu lu pajese inta doje ore.
Vadu. Sintimi li tvjeupru-
dezze.
Serv. Menir chiuveva mi
so firmeut alla putega de lu
cusitore, e agghio vist cheu
luocchi mii aggiustet lu supra-
bito de signiria cu lu bavaro e
fodera nova: la giacchetta de si-
gniria nova e li cauzuni chi li
staff erineu finuti, e lasottave-
ste la'steuveu faglian.
Padr. Tant megleu. Ma ti-
niv pure pocheu lunteun lu
cappeulleur e lu scarpeur, e
quiest né V heui cercheut?
Serv. Sissignoreu: lu cap-
peulleur polizzauve lu cappiel
de signiria vecchioy e non man-
ceuv che de triniftà lu suo
nuov. Lu scarpeur avev finii
li stiveul, le scarp gros deu
cacc, e li scarpin deu ball
Padr. In cheus di tata' mij
a89
padre quando sei andato ,
che questo era l'essenziale?
Serv. Appena spiovuto,
ma non vi ho trovato né suo
padre, né sua madre, né suo
zio, perchèjerilaltro andarono
in villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno sarà stata
in casa?
Serv. No Signore, perchè
avevano fatta una trottata, ed
avevano condotto il bambino
e le bambine.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa ?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor
padre, la cameriera e due ser-
vitori erano con 3ua cognata, e
il cocchiere avendo avuto lor-
dine di attaccare i cavalli per
muoverli, se ne era andato col-
la carrozza fuori di città.
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
Serv. Non vi ho trovato
che il garzone di stalla, ed
a lui ho consegnate tutte le
lettere, perché le portasse a
chi doveva averle.
Padr. Meno male. E la
provvista per domani?
quan a si sfeut, ca quiest er
kussenzieul ?
Serv. Appen schiuvut : ma
ne acghio truveut né lu tata
de signirìa ne la mam, né lu
ziano suo, pecche lautrieri jire-
no alla vign e là son steu la net.
Padr. Lu freut mij però o
la mugliera a lumano sarrann
steut alla cheus?
Serv. Nonzignore pecche
aveveurieu fat na truttata, e
avevano porteuteu lu creature
e le creature.
Padr. Ma la servitura era
tutta fori de la cheuseu?
Serv. Lu cuocheu erajuto
incam pagna cheu lu padre suo ;
la camarera e dvje strviteur
stavano che la cvgneut, e lu
cucchier aven avuto lordine
d'attacca li cavalli pé poiiarli,
se ne era juto colla carrozza
fori de la città.
Padr. Dunch la cheuseu
steveu vacant?
Serv. Ne agghiu truveut
che lu garzon de la stalla, e a
isso agghio cunsegneut tutte le
lettere, perchè li purtasse, a
chi eraneu dirette,
Padr. Mane male. Eja la
pruvista pe dumeune ?
390
Serv. L'ho fatta : per mi-
nestra ho preso della pasta, e
intanto ho comprato del for-
maggio e del burro. Per ac-
crescere il lesso di vitella,
ho preso un pezzo di castra-
to. Il fritto lo farò di cer-
vello, di fegato e di carciofi.
Per umido ho comprato del
majale, ed un' anatra da farsi
col cavolo. E siccome non
ho trovato né tordi, né starne,
né beccacce^ rimedierò con un
tacchino da cuocersi in forno.
Padr. e del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perché costava po-
chissimo. Ho comprato sogliole
etriglie, razza, naselloealiuste.
Padr. Così va benissimo.
Ma il parrucchiere non avrai
potuto vederlo?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e cioccolata,
così ho parlato anche a lui.
PADR.Echenuovetihadate?
Serv. Mi ha detto che
Serv. L agghi fat : pe mi-
nestr agghiu pigghieut de la
past, intani agghiu accatteut
lu cheuseu e de lu butir. Pec-
cresce lu bullito de vitel agghiu
pigghieut nupiezzedecastreu-
(cu. Lu frit lu farragghio de
cirvel, de fegato e de cardoff.
Pe lu ragù agghiu accatteut lu
puorcheu e na natrella pé fars
cu lu cavulo, E siccome ne
agghiu truveut ne tara^gnokj
ne mane starn, ne biccacc,
arrimedio cu nu gallinaccio
da fars a lu furn,
Padr. E de lu pesce né
V heju accatteut ?
Serv. Anz nagghio peglieut
asseuje, pecche custeuv pochis-
simo. Agghio accatteut sugliole,
treglie, razza, nasello e aliuste.
Padr. Accussl veuce bumeu
asseujeu. Ma lu pirrucchiere
ne r avreieu pututo vede?
Serv. Anz pecche tene la
putea vicin a lu drughier addò
agghiu accatteut e fat la pru-
vista de zucchereu, pepe, caro-
fali, cannell e citwcheuleut, ac-
cussi agghiu parkut pure a iss.
Padr. E che nutizia te
aveu deut?
Serv. itfaveu diti cheVOpreu
391
r opera ìq musica ha fatto
furore , ma che il ballo è
stato fischiato; che quel gio-
vine signore suo amico perde
r altra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire con la diligenza
per Livorno. Mi ha detto pure
che la signora Lùcietta ha con-
gedato il promesso sposo, e ha
fatto giuramento di non. voler-
lo più.
Padr. Gelosie,... questa sì
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara tutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli miglio-
ri; tra i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
manchino né scodelle, né vas-
in musicheu aveu fat furore, ma
che lu bai è steut fischieut, che
quel signor amiche suo pirdije
a V aia sera a lu juoco tutt le
scommesse, e che mo aspetteuv
di partì colla dilicenz pi Li-
vorn. Maveu dit pureu cheu la
signora Luciet aveu licenzieut
lu sposo promes e aveu giù-
reui di nu lu vulè chiù,.
Padr. Gilusie, . . . qu^st
meu feucé rire; ma penseum
mo a nuji.
Serv. Se signiria se cun-
tenta magno nu poco de peun
e vevo nu bicchier de vin, e
ritorn subito a piglia li cu-
mand'
Padr. Siccom teng fret e
agghio da ji foreu deu la cheu-
seu, sient prim cheu ti ordino
e dop magnarrai e ti ripusar-
rai quant ti piccieurà.
SEhY.Cummannateme pure.
PADR.Pé lupranz ca avimm
da fa, prepeur tutt dint a lu
salot buoneu. Piggh la tuva-
glia e li salviet miglior che
stani tra li piai cheup quill
de puree lleum, e prucur che
né mancheneu, li scudell, né
392
soj. Accomoda la credenza con
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Skrv. e quali posate met-
terò in tavola?
Padr. Prendi i cucchiai
d'argentò, le forchette ei
coltelli col manico d' avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini sia-
no quelli di cristallo arrotato.
Accomoda poi intorno alla ta-
vola le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna. Tu
sai quanto è stucchevole quella
vecchia! Metti in ordine la ca-
mera buona, fa'rìempire il sac-
cone e ribattere le materasse.
Accomoda il letto con lenzuola
e federe le più fini, e cuopr ilo col
zanzariere. Empi la brocca di
acqua, e sulla catinella disten-
di un asciugamano ordinario
ed uno fine. Fa'tutto in rego-
la, e la mancia non mancherà.
Serv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
li veus. Agginst la credenz cu
li frutty uva, nmi, amennele,
dolceu, cunfiett e buUiglieu.
Serv. E quale puseut ag-
ghia da mei in tavola?
Padr. Pigh li cucchieur
d* argini e li vrocche e li cur-
iiell cu lu manicheu di bussolo,
e ricuordeuteu cheu le buitig-
ghie, e bicchieri e li bicchirini
ànn da essere di vrito arruteui.
Accunc pò attuorn la tavola le
megl che teng,
Serv. Fazzeu tutto pun-
teeulmente.
Padr. Arricmyrdete cha sta
sera vene mammarossa. Tu
seujeu guani eja stucchevole
quella vecchia ! Miti in ardi-
neu la camera bona, fa anchj
lu saccone e sbatt leu matarazs.
Accuncia lu lieti cheu, le Un-
Zola e li facciou deu cuscineu
li chiù fine e cummuglieleu
cu la zampaneureu. Ingh la
quarteur de acqua, e sopa la
catinel stin n'asciutta meun
ordinarieu e un fino. Fa tutto
a la regola, e la regalia non
ti mancharà,
Serv. Pe la virila signi-
ria meuveu^urdineut trop co-
seu, ma faracchio tutto.
IV.
DIALETTI DELL' ISOLE ITALIANE
CON
ILLUSTRAZIONI ETNOLOGICHE.
Attorno, alla deliziosa e classica Italiana Penisola, ove
essa è bagnata dal Tirreno e dall'Adriatico, sorgono non
poche Isole, di più o meno vasta estensione. Dovendo ora
perlustrarle, non potei attenermi al semplice ordine naturale»
dividendole cioè in grandi e minori, poiché non i soli po-
tentati italiani se le erano repartite, ma quegli stranieri al-
tresì che di poderose forze navali sono al possesso (gli In-
glesi cioè ed i Francesi) vollero alcune dominarne, invadendo
quésti la Corsica, e facendosi gli altri padroni del gruppo
di Malta.
Vero è che cessò ormai il bisogno di repartire le Isole
di stati Italiani in tre gruppi, secondochè al Granducato di
Toscana, al Regno Sardo, o a quello delle due Sicilie ap-
partenevano, poiché grazie al prodigio della ricuperata nazio-
nale indipendenza, che io riguardai sempre come un atto
di giustizia divina, quelle Isole tutte ora fanno parte del
Regno d' Italia ; qumdi esse si possono repartire sem-
plicemente in grandi e minori, ma sarà sempre necessaria
distaccare da esse la Corsica divenuta francese, ed in ultimo
il gruppo delle Isole di Malta, dagli Inglesi signoreggiato
394
DIALETTI DI SICILIA
COM ILLUSTRAZIONI ETNOLOGICHE.
La Sicilia è la più grande di tutte le isole del Medi-
terraneo. Se il Faro o Stretto di Messina non la disgiungesse
dalle coste della Calabria, essa verrebbe a formare la
vera estremità dell' italica Penisola. La sua circonferenza o
il perimetro ha la forma di un triangolo scaleno, ossÌY,vero
della greca lettera del delta. La piccolissima larghezza
dello stretto di Messina e V analogia rimarchevole tra le
rocce dell' Appennino calabrese e dqlla Sicilia presso le rive
di quel Faro, sembrarono più che sufficienti a dimostrare,
che in forza di un cataclisma la Sicilia fu distaccata dal
continente, addivenendo così un' Isola : non mancò chi si
oppose a queir opinione, ma ciò poco importa. Vuoisi bensì
ricordare che in un punto quasi centrale sorge il tanto co-
nosciuto vulcano dell' Etna, di cui si contarono 75 eruzioni
fino al 18i2, dalla prima, che è tradizionale, perchè risale
ai tempi degli antichi Sicani.
Ma l'origine di quei popoli rimonta ad epoche favolose,
inaccessibili alle umane investigazioni; sulla storia poi dei Sicu-
li, i poeti e gli storici dei secoli vetusti sembra che abbiano
gareggiato nella speciosità delle menzogne onde l'hanno cosper-
sa. Alcuni portati al maraviglioso diedero vita ai giganti; altri gli
confusero coi ciclopi. Tucidide, Giustino e Plinio fecero men-
zione della classe ciclopica; Omero, Virgilio, Ovidio caldi di
poesia ne divinizzarono i progenitori, facendoli servire nelle
cavernose fucine del Mongibello alle vendette dei numi sdegna-
ti. Altri scrittori sceverando il mito dalla storica severità, uni-
rono ai Ciclopi i Lestrigoni, i Fèaci, i Lotofagi. Gli storici meno
remoti posero per primi a popolare la Sicilia gli Iberi asia-
tici, venuti dal Ponto. E perchè in tanta farraggine di ppi-
395
nioDÌ una non ne mancasse di tipo biblico, vuoisi ricordare
che il P. Aprile nel primo libro della sua Cronologia fece
discéndere da Javan, quarto genito d' lafet figlio di Noè, un
greco di nome Eliso primo a fermare il domicilio in Sicilia!
Si consulti ora il regio storiografo Evangelista di Blasi e
troveremo che per conciliare le tanto disparate opinioni ei
suppose, che i primitivi abitanti menassero nelle boscaglie
vita errante e da cacciatori, e fossero per ciò detti Ciclopi;
i quali scendendo più tardi al piano e dandosi air agricoltura
fossero poi chiamati ora Lestrigoni ora Feaci; ma queste
opinioni ancora sono puramente ipotetiche.
Le prime tracce isteriche risalgono al 736 prima del-
l'era volgare, quando comparvero cioè in Sicilia le prime
colonie greche, ed erano di Calcidesi, che ivi approdarono
dairEubea, seguiti indi a non molto da quei di Megara e
di Corinto. Col volger degli anni trovasi che mentre
Cerone era inteso alla prosperità di Siracusa, e allorquando
rendevasi immortale Archimede, i Romani ridussero l'isola
a loro provincia e vi mandarono a governarla un Pretore.
Seguì la Sicilia la sorte di Roma ; quindi all' infranto
colosso imperiale sottentrarono i Vandali nell'isola, quando
appunto veniva in essa introdotto il cristianesimo. Soprav-
vennero poi i Goti, ai quali successero gli udìziali degli
imperatori di Costantinopoli, ivi condotti da Belisario, e che
presto dovettero cedere alla tirannide saracena. Frattanto i
Normanni stabilitisi nelle Puglie ed in Calabria, delle quali
Provincie Roberto Guiscardo intitolavasi Duca, poco dopo la
metà del secolo XI, sedendo in Roma Papa Alessandro II,
col di lui arbitrario consenso intrapresero la conquista
della Sicilia, e incominciando col saccheggio di Messina,
ne lasciarono la terza parte a prò- delle chiese, perchè auto-
rizzati dal Papa a queir impresa. Estinta la dinastia Nor-
manna succedevale la Sveva, ed è abbastanza nota V estin-
396
zione anche di questa coir assassinio di Gorradino, ultimo
principe Svevo.
Carlo I d'Angiò, che bruttava i primordi del suo
regno colle stragi nelle provinole Napolitano , invadendo la
Sicilia non fece che affrettare la distruzione della aborrita
famiglia Angioina, fieramente punita col Vespro Siciliano^
Se non che si succederono poi neir isola le tre dinastie Ar-
ragonese, Austriaco-Spagnola e la Borbonica, ed i bravi Si-
ciliani non ebbero motivo di esser contenti della loro sorte,
perchè sempre fin qui signoreggiati da principi stranieri, pro-
clivi alla tirannide e ben poco solleciti della prosperità pubblica.
Abitanti. — Questa popolazione di isolani distingucsi
per molta perspicacia: la vivacità della loro fantasia non va
disgiunta da un genio innato che gli conduce a discoprire
recondite bellezze e novità in ogni ramo di letteratura. La
dolcezza dì un clima benigno gli rende ilari e gaj ; amano
perciò passionatamente la musica, la poesia e i teatrali spet-
tacoli. Sebbene privi dei necessari soccorsi, suppliscono col-
r ingegno nell' esecuzione e compimento d' ardui lavori nelle
arti meccaniche. Il dispotismo feudale avea reso i vassalli
siciliani aspri e fieri in quelle contrade ove i Signorotti
esercitavano il loro potere arbitrario ; abolite che furono
quelle vergognose istituzioni, convertirono T ereditaria fie-
rezza in cortesia verso gli ospiti e mostrarono di non essere
neppure essi estranei ai doveri dell' urbanità. Il Siciliano in
generale ha mente elevata e gran cuore : le classi agiate ed
il popolo ricco amano del pari la magnificenza, così nei pa-
lazzi come nei sacri edifizì e nelle opere pubbliche. Se siano
caldi di amor patrio ne faccian fede i loro Vespri. Pietosi
ed umani, eressero in ogni località discretamente popolosa
Orfanotrofi, Ospizi e Ospedali: e non trascurano nei loro
consigli municipali la istituzione di scuole pubbliche e pri-
vate e. di opifici per dar lavoro agli indigenti.
J
897
Dialetto. ^— Sono ormai troppo conte le erudite gare
e le dispute letterarie sopra Y anteriorità di questi vivacissimi
isolani nello scrivere in volgare poesia. Attenendomi su tale
argomento air opinione del Tiraboschi, aggiungerò un*avver*
tenza del Landi suo commentatore sull'avere i Siciliani dato
r esempio di terminare le parole colle vocali. Lasciando poi
a parte la diversità delle opinioni letterarie, certo è che Dante
confessò aver fatto i Siciliani le prime poesie in lingua vol-
gare, ed aggiunge il Petrarca che furono anche i primi a
cantare sulla piva argomenti erotici.
Dopo una tal premessa a me non restava che dare un
saggio, col Dialogo consueto del volgare moderno, ossia oggi
usato neir isola : ma un modernissimo opuscolo pubblicato
nel corrente anno dall' i4 6. Gioacchino Di Marzo sulle Ori-
gini e vicende di Palermo di Pietro Ramano, mi obbliga a
trattenermi sulle opinioni emesse da quelleruditissimo scritto-
re. Dichiara il Di Marzo che le italiche. lettere ebbero in Sicilia
grande incitamento ed onore nella corte di Federigo, ma
seguirono poi tempi che non valsero a secondare il progres-
sivo sviluppo della nobile lingua, la quale invece rinvenne
il suo perfezionamento nella Toscana. Trattenendosi poi lo
storico a misurare 1' eccellenza cui pervenne in Toscana l'ita-
liano idioma, non più si curò di voler sapere qual rimanesse
in Sicilia, e se indi alcuna importanza l'Isola meritasse nelle
sue lettere. Vero è, dice il Di Marzo, che l'aulica favella
di Palermo perde ogni incitamento e cultura ; ma il processo
filologico italiano era già attivato fino dai tempi della con-
quista Normanna, per cui nulla valse a corrompere l'indole
della lingua. Fino dai tempi di Giulio formavasi in Sicilia
col volgare il linguaggio letterario, perciò fin d' allora si
ebbero due modi distinti di linguaggio; V uno era il mede-
simo che fin oggi sì parla, e l'altro che si scrive. Che se
mutati i tempi più non si usò il linguaggio nobile, nulla
398
€bbe a risentirne il volgare naturale parlato dal popolo: bene
è vero che i dotti e il governo schivarono in principio
d' usarlo siccome ignobile e plebeo, e però adoperarono co-
munemente il latino. Ma nulla il popolo di quella lingua
sapea; quindi dopo gli Svevi, in mancanza di un volgare
illustre, fu mestieri che in Sicilia si scrivesse la favella
medesima del popolo per tutto ciò che si dovesse esporre
ad intelligenza delle moltitudini. Il qual bisogno, sentito già
nei primi tempi della Normanna conquista, fu vera ed es-
senziale cagione dello sviluppo letterario che venne acqui-
stando la favella del popolo. I Comuni presentavano al Go-
verno i Capitoli dei quali domandavno conferma, e le regie
Cancellerie rispondevano in latino. Ma il volgare sempre più
si estese fino a divenire presso che comune nelle scritture
siciliane; imperocché l'ostentazione d'uria lingua morta,
comunque classica e favorita dai dotti, recava piccolo osta-
colo all'uso della lingua vivente nel popolo, e corrispon-
dente alle idee ed ai bisogni universali. Frattanto ài tempi
di Martino uscivano nel puro volgare privilegi, sanzioni e
statuti; e per tutto il quattrocento, anzi fino alla metà del
secolo appresso, la favella popolare comunemente prevalse
in ogni maniera di scritture.
Questi cenni storico-filologici del Ch. Ab. Di Marzo
meritano pienissima approvazione: ma egli procede poi a
dare un saggio del Dialetto Siculo quale era in uso dopo
la metà del secolo XV, pubblicando un opuscolo del Ran-
sano; al quale aggiungendo poi una cronichetta dell'entrata
del Re Alfonso di Aragona in Napoli verso la metà del se-
colo XV, ne estrae un centinaio di voci e meravigliato in
certa guisa di non trovarle registrate nel vocabolario, della
Crusca corretto ed accresciuto dal Manuzzi, manifesta senza
mistero il suo intendimento di farle adottare.
Ciò mi pone nella necessità di dare un saggio delle
399
scritture del Bansano, e della preindicaia crmichetta. Ram-
menterò poi che Dante scriveva nel volgare fiorentino nel
secolo XIII, e il Boccaccio nel XIV, mentre i due seguenti
saggi siciliani sono del secolo XV : ognuno potrà farne op-
portune deduzioni.
Origini e vicende di Palermo di Pietro Ransano : si
copiano i soli argomenti dei capitoli nei quali è repartita
la relazione. « 1. Li Panhorraitani per questo demoslrano
» una eximia leticia cum festi, luminarii et altre spettaculi
» bellissimi a vidirili, imperoche Ysabella soro di Henrico
» re de la Hispania è stata maritata cum Ferdinando re
» de Sicilia figlio de re Joani di li Aragoni. Appresso si
s) descrivi la crudili tempesta de lo mari, per la quali multi
» navìgii si foro annegati ne lo porto panhormitano ; et, cum
» quista causa data, da poi multu profundamenti si descri-
» vino li primi principi! de la felice cita de Palermo.
» 2 Di la grandi tempestati et di Io neufragio lu quali
» fu sei jorni poi di la festa predicta in lu porto di Pa-
» lermo.
» 3. Di za innanti si fa mencioni di lo sito di Pa-
» lermo, et di quilli chi primo la fundaro et in ipsa habi-
» taro, ampliare et conservare.
» 4. Di za innanti si fa menzioni comò Palermo ej chilali
» antìquissima ; et quisto si prova per fortissimi raxuni.
» 5. Di cza innanti si fa mencioni di quilli chi varia-
» menti parlaro, innanti quisto tempo, di li primi edificaturi
» di Palermo.
» 6. La terza opinioni falsa ; et è di quilli chi dissiro
» ehi fu fatta da li Grechi ; et fassi menzioni di li populi
» chi primo habitaro Sichilia.
» 7. Di cza innanti si narra di lo auturi la ventali di
» zo chi si divi per vero et per certo teniri di quilli chi
» primo fichiro la chitati di Patlermo.
400
» 8. Como Palermo sempri fu chìtati lìbera da quando
» fu babitata, et sempre fu cbitati pacbìfica fina a Io tempo
» obi li Cartagìnisi cum grandi 8tolu passaru et suttamìsiro
» a loro imperio Sicbilia. Et corno Palermo in quilli tempi
s> era numerata intro li grandi et clarissimi cbitati obi erano
>> in Sicbilia.
» 9. Como Palermo, vinuto cbi fu a li mano et signoria di
» li Romani, cbi foroliPanbormitani sempri fidilissimì sicomo
» innanti baviano stato a li Cartaginisi; et comu per li Romani
» patere multi dapni et ajutaroli ad baviri una clarissima
» Victoria, in la quali foro pigiati cbento quaranta elefanti
» di li Cartaginisi : per la quali cosa la cbitati di Palermo
» multo fu per lo mundo celebrata et nominata.
» 10. Como Palermo tanto piassi et tanto fu cara a li Ro-
» mani, cbi poi dilo tempo di la prima guerra punica la ficbiro
» romana colonia; czoej cbi multi Romani babits^ro in ipsa cum
» li cbitatini, Panbormitani declarandoli; cbi veni a diri quisto
» nomo colonia.
» 11. Como, poi cbi Palermo fu facta colonia di Ro-
» mani, foro li Panbormitani misi in libertati intro li altri
» cbitati di Sicbilia, e li Panbormitani bappiro repubblica
» corno li cbitatini cbi vinniro in libertati; et fu per quislo
t> cbiamata et decorata di quisto nobilissimo titulo. Urbs
» foelix Panhormus,
12. » Ex quo facta fui romana colonia, summo
» Pretorum imperio sum semper recta Panhormos.
» Nomine me genilrix donavit maxima Roma :
» Urbs; et hoc titulo voluit clarere superbo.
» Nominor urbs foBJix: quia libertate Quirites
» Me voluere frui; prae cuoctis urbibus unsm
» Scìrer; et, ut populi romani fìlia, patres
» Hoc aquile insigni me donavere decoro.
» 13. Como Palermo fu antiquamenti grandi et ricca
401
» et abuiidata chitati : et quisto si prova impoco palori per^
» uno bono et manifesto argumento.
D 14. Como, poichì lo stato di la republica romana
» vinni in mano di li imperaturi, li Panhormitani li foro longo
» tempo fidili, per fin chi fu Sichilia occupata da li Sara-
» chini. Et poi liberata da li Normandi, foro li Panhormitani
» et la chitati loro multo dignificati da re Rogeri et dalli
» altri re soi successuri.
» 15. Li operi oy vero edificii facti di novo, reparati
» et ornati fora li mura di la terra. »
Ai precitati argomenti delle notizie storiche del Ran-
sano venne apposto il termine seguente :
« AuRELiu Mediolanensis vieti quista opera et maravi- ^
» glausi. Accussì dissi : Innanti una tanta anachina di lo
» mundo si destrudirà, chi tanta opera deperirà ! »
Darò ora un saggio della Cronica dell' entrala del Re
Alfonso di Aragona in Napoli, dettata nel 1442, o 43.
« Tornandu de le terre de Abruzzu et de Puglia, merci a
» Deu odie su' ttuti a sua manu, venni a Beneventu, et in
» locu applicati ttuti li baroni di lo regno di Napoli, illocu
» proposse suo parlamento. Et fatta la propositione, parteru
» de la dieta cita, et vinero ad Aversa .... e poi venesene
» apresso Napuli .... ove havianoli preparatu un carù
» trionphalle di 4 rotte, tutto deoratu ; supra lo qualle caru
» ci venne un vestimentu afforatu et un cathafalcu cum
» 4 catregi; et a ciescaduna ci era una thore deorata ; et
» allo mezu di lo cathafalcu era una bella seggia coperta
» de un solenne pannu brocatu di oro, et alli pedi era slesso
» lo drappu brocatu di oro. lo qualle tenia lo duca Raineri
y> per sopra cellu quando lo recippero. Et da nanti lo dictu
» signore, era la sua divisa, appelata lo seggio periculosu.
» Et in locu lo dictu Re scavalcau .... et dapoi montao
)) sopra lo caru, et assetaosi sópra la ditta seggia ; et,
SI6
402
^ » avanti chi il dictu caro si movessi, li venne dinanti una
» bella tramessa et festa fatta per li mercanti fiorentini in
» la forma sequente : .
y> In primis xu homini a cavallu vestutti di giupponi car-
» mexini cum sollecti di violato inbrudati de perni curo
» grandi punti ben tratti senza altra roba ; la qualli cha-
» squiduno tinia una verga in la manu manca, di uno dardu
>) di colori violatu. Et apreséu era un altro calhafalcu, sopra
» lo qualli era uno bastimentu factu, in Io qualli era unu
» infanti chi stava sopra lo capu di un altro ; et lu supranu
» stava in forma de una dongela scapilata cum una corona,
» la qualli tink a la manu : a la qualli dongela dichianu
» Fortuna. Appressu era un altro cathafalcu, sopra la porta
» de lo qualle era un' altra dongela solo forma di lusticia,
» et de la parte da rieri era una segia mollo bene arnesata
» di brocato di oro; sopra lo qualli erano 3 angeli con-
» slitutti in molta bona manera, la qualle mostravano che
)) teniano una corona imperiale ; et, in la manera che sta-
» vano, tulhomo giudichava che quelli tenessero la dieta
» corona ; e, si così fussi stallo che V havessero tenuta, non
» forono stati infanti carnali cosi comò erano, che non l'ha-
» veriano potutto tenire, chi la vertù de 1i brazza non lo
» haveriano potuto comportare il carigo ; però chi tulhomo
» chi li guardava si maravigliava de la dieta manera de
» tenera li dicti infanti la dieta corona et non mostrare ha-
» verne passione, né fatiga ; anzi stavano a tutto loro di-
» lecto. Apresso de lo dicto cathafalco erano 7 dongele solo
» forma et significanza di 7 virtuti cardinali. Et apresso era
» uno altro cathafalco, sopra lo qualli era un perno; et sopra
» lo dicto perno era un pomo in significancia de lo mondu;
» et sopra lo dictu pomu ci era un altro perno, sopra lo
» qualli ci era piccola seggia. Solamente ci stava un homo
» inpedi, quassi che scassamente se potia refermare. Et lu
403
y> dictu homo, chi stava di sopra, era tutto armato et tenia
» un sceptro in manu, et havia una girlanda di lauru supra
» la testa per arme, et stava soto forma di Cesaro ; et corno
» fu dinanti lu di tu Signore, li disse le pareli seguente :
Eccelsi! re e Cesare novellu,
lusticia; Cam forteza et temperantia,
Prudeotia, charitdte, fede e spiraoza
Vi favoraDO triunpharì supra altu bella,
Si histi donni tirrai ìb consello.
Questa sedia hanno fattu per tua stancia;
Coli coroni poterasti far dìssensa,
Si la justicia torci al sigillo;
£ la ventura, si ti possa al ci ino,
Non ti dà rota; Tey quelle fallaci.
Me, que triunfay, mes* a declino.
Ecce mundd vidi que mutacion fassi ;
Que non sta firmo; et questo predestino,
Et questo volle Dio, perch'i li piaci
Alfonso re di pace,
Cristo te salve in gran prosperitate et grandiza ;
La bella Florenzia in sua libertate.
Sono questi i saggi del volgare illustre palermitano del XV
secolo. A me non spetta pronunziar giudizii: starò aspet-
tando, se piaccia all' infatigabile Sig. Manuzzi, ed ai valen-
tissimi Deputali del Vocabolario della Crusca di adottare le
nuove voci che si trovano sparse nella citata Cronica,
Frattanto farò conoscere il moderno vernacolo dei Paler-
mitani, col mezzo del consueto Dialogò.
\u
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
ED UN SERVITORE.
Padrone. Ebbene, Bali-
sta, hai tu eseguite tutte le
commissioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino ;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città, ma
poi è piovuto tanto !
Padr. Che al solito sei
stato a fare il poltrone in
un' osteria, per aspettare che
spiovesse I E perchè non hai
preso r ombrello?
Serv. Per non portarquel-
r impiccio; e poi jeri sera
quando andai a letto non pio-
veva più, se pioveva, pio-
veva pochissimo : stamani
quando mi sono alzato era lut-
to sereno, e solamente a leva-
ta di sole si è rannuvolato.
Più tardi si è aliato un gran
vento, ma invece di spazzare
le nuvole, ha portato una gran-
TRADllZIONE
NEL. DIALETTO
PALERMITANO.
Patruni. Oh Battista ; hai
fattu li ciimmissioni eh' tu ti
detti ?
Servù. Sissignuìi, lassi-
curu, chi sugnu sta tu puntuali
cchiù di chiddu eh' hai pututu.
Stamatina a unniei vri e un
quartu m erti già avviatu; a
durici uri e mezza avia fattu
cchiù di metà di strata, e a
tririci uri e tri quarti arrivai
nta cita ; ma poi nun ha cis-
satu un momento di chiuovirii
Patr. Già si sa; si è stalu,
o to solitu, nta gualchi taverna
a fari u pulruni, pri aspittari
chi avissi scampatu. E pircln
nun ti purtasli u paracqua ?
' Se R V . Pri nun aviri s'aulru
mpicciu; e poi jeri sira quannu
mi ivi a curcari nun chiuveva
cchiù, puru chiuveva tanlu
picca chi un si poteva sintiri ;
stamatina qnannu mi susivi,
hi cielu era sirenu; ma quannu
spuntau u suli s accuminzau a
nuvulari, poi accuminzau un
venia furiissimu, ma inveci di
fari spariti li nuvuli, ha pur-
405
dine che ha durato mezz' ora,
e poi acqua a ciel rollo.
Padr. Così vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto quasi
niente di ciò che ti avevo or-
dinato ; non è vero?
Serv. Anzi spero che ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
Serv. Nel tempo che pio-
veva mi sono fermato in bot-
tega del sarto, ed ho visto
con questi miei occhi racco-
modato il suo soprabito con
bavero e fodere nuove ; la sua
giubba nuova, e i pantaloni
colle staffe erano finiti, e la
sottoveste stava tagliandola.
Padr, Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo. e il calzolajo, e
di questi non ne hai cercato?
Serv, Sì signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio, e non gli mancava
che orlare il nuovo. 11 cai-'
zolajo poi aveva terminati gli
stivali, le scarpe grosse da
caccia, e gli scarpini da ballo.
Pabr. Ma in casa di mio
talu na nivi chi ha duratu men-
zurayepoi accuminzau uno-
equa chi si cugghieva cu li cali.
Patr. Già mi vurristi davi
a ntendirichi nun hai fatiu qua-
si nenii di tuitu chiddu cK iu
ti aveva dittu; un è veru?
Serv. Anzi speru chi sarà
cunientu quannu ci dirò lu giru
chi ficiy nira cita, in dui un,
Patr. Sintemu li tuoi vap-
parii !
Serv. Mentri chi chiuveva
io era vicinu a la putta du cu-
sturieriy e pri ripararimi vitti
cu miei occhi chi a la sua fac-
chino ci avevanu già misu u
cuddaru e la fedirà nova : la
sua giammerga turchina ed i
causi cui staffi eranu finuti, e
ahchistava taghiannulucileccu,
Patr. Tantu megghiu. Ma
eri puru vicinu o cappiddieri, e
a u scarparu; ma nun ci isti
sicuramenti ?
Serv. Sissignuri. U cappi-
ddieripuHzziava u so cappeddu
vecchiu, e un duveva fari autru
chi mettiri r orlu a u nuovu.
U scarpuru avia finitu li sti-
vali, li scarpi grossi di caccia,
e li scarpini di ballu:
Patr. Ma ti scurdasti lu
406
padre quando sei andato»
che questo era l'essenziale?
. Serv. Appena spiovuto, ma
non vi ho trovato né suo padre,
né sua madre, né suo zio, per-
chè jeri r altro andarono in
villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno sarà stata
in casa?
Serv. No signore, perchè
avevano fatta una trottata al
Molo vicino l'Acquasanta ed
avevano condotto il bambino
e la bambina.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa ?
Sert. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor pa-
dre, la cameriera e due servi-
tori erano con sua cognata, e
il cocchiere avendo avuto l'or-
dine di attaccare i cavalli per
muoverli, se ne era andato col-
la carrozza verso la Favorita.
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
Serv. Non vi ho trovato
che il garzone di stalla, ed a
lui hp consegnato tutte le let-
tere, perché le portasse a chi
doveva averle.
Padr. Meno male. E la
cchiu essenziali, di m ncasa
di me patri?
Serv. Oh ci ivi appena chi
scampau, ma^ un ci iruvai né
so patri, né so mairi, e un c'era
nemmenu su ziu,pirch% avanteri
sinni jeru n campagna e ci ri-
starunu tutlànnotti,
Patr. Ma me frati, e sua
muogghi eranu 'ncasa ?
Serv. Nonsignuri; pircK%
avevanu fatlu una truttata o
Muolu vicinu /'Acquasanta, e
s avevanu purtatu upicdriddu
e i figghi fimmini.
Patr . E tutt a servitù un
e era 'ncasa?
Serv. U cuocu era 'ncam-
pagna cu suo signur patri, a
caramarera e i criati eranu n-
semmuta a sua cugnata, e u cuc-
chieri chi aveva avutu V ordini
di attaccari i cavaddi pri miio-
virli, si n era jutu cu a car-
rozza ver su a Favurita.
Patr. Dunca a casa era
vacanti?
Serv. Un ed truvai autru
cu siìnplici garzuni di stadda,
e ci cunsignai tutt' i littri pri
purtarli a cui li duveva aviri.
PAmMenumali,E lapru-
407
provvista per domani?
Serv. L' ho fatta : per
minestra ho preso della pa*
sta, e intanto ho comprato
del formaggio e del burro.
Per accrescere il lesso di vi-
tella, ho preso un pezzo di
castrato. Il fritto lo farò di
cervello, di fegato e di car-
ciofi. Per umido ho compra-
to del majale, ed un anatra
da farsi col cavolo. E sicco-
me non ho trovato né tordi,
né starne, né beccacce, ri-
medierò con un tacchino da
cuocersi in forno.
Padr. e del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perchè costava po-
chissimo. Ho compra losogliole,
triglie, razza, nasello e aliuste.
. Padr. Cosi va benissimo.
Ma il parrucchiere non l'avrai
potuto vedere?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e cioccolata,
cosi ho parlato anche a lui.
Padr. E che nuove ti ha
date?
vista pri dumani ?
Serv L'aju faitu, Primi-
mesira pigghiavi pasta : e caciu
primusali, e butiru. Pri fari
cuociri u gugghiu di vitedda
pighiai un pezzu di castratu;
farò 'na frittura di ficatu, e di
cacuocciuli; pri umidu accatta-
vi carni di puorcu] e un ani-
tra pri farisi cu cavuli ; ma
nun mi rinisciu di iruvari né
turdiy ile starniy né biccacci ;
ci arrimiirò e un gaddu d'in-
nia nfurnatu.
Patr. e pisci nun ni pi-
ghiasti ?
Serv. Ansi uni pigghiai
tanti, pircKx custavanu puchis-
simu; accattai swgghiuli, trig-
ghi, e alausti.
Patr Benissimu: ma u
varveri un Ihai potutu vidiri?
Serv. Sissigìiuri; u sapi
eh' iddu avi a putta vicinu a
chidda du drughieri unni io oc*
cattavi u zuccaruy i spezzii, i
garofaìi, a cannedda, e u de-
culatti ; dunca io u vitti mentri
iddu niscieva, e cci parrai,
Patr. E chi f hadittii?
408
Sehv. Mi ha detto che
r opera in musica ha fatto
furore, ma che il. ballo è stato
fischialo ; che quel giovine
signore suo amico perde l' al-
tra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire colla diligenza
per Calta nissetta. Mi ha detto
pure che la signora Lucietta
ha congedato il promesso spo-
so, e ha fatto giuramento di
non volerlo più.
Padr. Gelosie.... questa sì
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara tutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli migliori;
tra i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
Serv. Ma diltu chi finirà
'nmmica fici furiiri, ma chi u
ballu fu fischiaiu ; chi ddu si-
gnuri suo amicu V aulru sira
pirdìu ajucari tutti scummissi
e chi ora aspittava di partiri
cu a diligenza pri Caltanisset-
ta : mi dissi puru, chi a signura
Lucietta detti cuncedu o suo
prumissu spusu, e giurau di
nun vidirlu cchiù.
Patr. Gilusti I Oh sta cuo-
sa mi faridiriy mapinsamu a
nui.
Serv. Si vossìa è cunten-
tu, vaju a manciari un mw^cuni
di pani e mi vivu un bicchieri
di vinu, e poi tuornu a pig-
ghiari i so cum^nni.
Patr. Ora aspetta ; io divu
nesciri, pirchè hojuprimura di
iri a fari gualchi cuosa; senti
dunca i me ordini^ e poi man-
cirai e ti ripusirai quantu ti
pari e piaci,
Serv. E so cumnunni.
Patr. Pru pranzu pripara
tuttu nto megghiu salottu. Pig-
ghia a tuvagghia, e i salvietti
li chiù fini, e tra piatti scegghi
chiddi di purdllana, e procara
di nun fari mancari ne piatti
409
maachino né scodelle, né vas-
soj. Accomoda la credenza con
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Serv. e quali posate met-
terò in tavola?
Padr. Prendi i cucchiai
d'argento, le forchette e i
coltelli col manico d' avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini siano
quelli di cristallo arrotato. Ac-
comoda poi intorno alla tavola
le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà ^servita
puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna.
Tu sai quanto è stucchevole
quella vecchia! Metti in ordi-
ne la camera buona, fa' riem-
pire il saccone e ribattere le
materasse. Accomoda il letto
con lenzuola e federe le più
fini, e cuoprilo col zanzariere.
Empi la brocca di acqua, e
sulla catinella distendi un
asciugamano ordinario ed uno
fine. Fa' tutto in regola, e la
mancia non mancherà.
Serv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
cupputi, riè spilluonghi. Pripa-
ra a evidenza, cum frutti, ra-
dna, nm, mennuli cunfitturi
e buttigghi.
Serv. E quali pusati divu
mettiri a tavula ?
Patr Pigghia i (yucchiari
d' argentu, e i furchetti e t cu-
tedda d*avoriu; e ricordati
cK i buttigghi e i bicchieri e i
bicchirini fussiru chiddi ammu-
lati. Metti poi i megghiu seggi
ntornu a tavula,
Serv. Nun dubiti chi sarà
servitù,
Patr. Ricoì^dati chistasira
veni me nunna ; sai quaniu è
siccanti sia vecchia ! Prepa-
ra a cammara buona, fa in-
chiri u pagghiuni, e battiri i
inatarazza. Cv^onza u lettu
culinzVfOla, e mesti di cliiu-
tnazsu i cchiù fini, e mettici
anchi a zappagghiimiera. In-
chi a bruocca d'acqua e nto
vacili metti una iuvaghia ur-
dinqria, e una fina. Hai 'ntisu?
chi poi pinsirò a tia.
Serv. Pri diri, u veru m'ha
urdinatu tanti cuosi!,.. basta..,
stia sicuru chi farò tuttu.
410
DIALETTO DEL CRt^PPO DI MALTA
CON ILLUSTRAZIONI ETNOLOGICHE.
È nota r opinione di quei geologi che considerarono le
Isole del Mediterraneo come riunite nei primitivi secoli al
continente. Fra quei che scrissero sul Gruppo di Malta, pen-
sarono alcuni che restassero fra loro divise le isole che Io
compongono dai terremoti ; opinarono altri che venissero di-
staccale dalla Sicilia (supponendo che ne facessero parie) in
forza di una comunicazione sotterranea dell' Etna ; taluni fu-
rono di parere che il distacco succedesse non dalla Sicilia
ma dall' Affrica! Nessuno però seppe additare V epoca di quel
cataclisma; ora poiché deducesi dalle, storie che quindici
secoli prima di G. C. era questo gruppo com'è al dì d'oggi,
sarebbe quindi vanissima pretesa di voler determinare la
sua origine.
Tré sono le isole che formano il Gruppo; Malta di oltre
370 chil., Gazo di 117 circa; Cornino di 2 circa: piccola
superficedi 490 chil. circa. Ma la posizione del Gruppo eccitò
sempre negli stranieri il desiderio di possederlo. Difatti non
meno di quindici furono i popoli che successivamente, in
un modo piij o meno pesante, esercitarono in Malta il loro
dominio: non dispiaccia che se ne faccia un rapido ricordo.
Nei più vetusti tempi dominarono Malta i Fenicii pel
corso di circa 8 secoli. Nella terza Olimpiade succederono
ad essi i Greci, che chiamarono l' Isola maggiore Melita, per
r ottimo miele che vi si raccoglie. Cinque secoli av. G. C. se
ne impadronirono i Cartaginesi; ma i Romani ad essi la tolsero,
restandone padroni per 670 anni; e prestando favore all' in-
dustria di quegli isolani, ottennero che i loro tessuti fossero
tenuti in Roma come oggetti di lusso. Nei bassi tempi prima
411
i Vandali» poi i Goti approdarono a Malta; discacciati indi a
non molto dagli Arabi neir 870, lasciandone il comando a
un Emiro. Ma dopo V invasione di Sicilia fatta dai Normanni,
doverono i Maltesi subire il giogo di quegli stranieri, poi degli
Svevi e degli Angioini, e finalmente pel corso di due secoli
e mezzo restarono sotto la dominazione degli Spagnuoli, fino
cioè al fatale Carlo V.
Quel famigerato despota, che considerò sempre l'Italia
come uno dei suoi dominii, volendo indennizzare i Cavalieri
Gerosolimitani spossessati di Rodi, die loro le Isole di Malta
a titolo di feudo dipendente dalla Corona di Sicilia ; e i
Maltesi avvisati di quelle trattative imperiali col Gran Mae-
stro dell'Ordine, tentati invano i mezzi di sventarle, nel Giugno
del 1538 firmarono r atto sinallagmatico della coatta sommis-
sione.
Nel corso di 268 anni furono governati i Maltesi da 28
Gran Maestri; dei quali 12 di nazione francese, 8 spagnuoli,
4 italiani, 3 portoghesi e un tedesco. Primo di essi fu il
francese Villiers, ultimo l'alemanno Hompesch, che senza
darsi il menomo pensiero di vegliare alla difesa delle isole,
ne firmò invece la cessione nel 1798, e sene partì vilmente
in lejìipo di notte, dopo essersi assicurata una forte pensione.
Dispogliati gli isolani dai nuovi padroni francesi, si tro-
vano sotto i! comando militare del generale Vaubois, ed
eccitano un incendio insurrezionale che- si diffonde per la
campagna : e poiché V invasore si chiude e si fortifica nella
città Valletta, cedono i malcauti Maltesi al consiglio del Re
borbonico di Napoli, rivolgendosi all'ammiraglio inglese
Nelson con domanda di soccorso, e questi invia il commo-
doro Ball; iKquale fu ben sollecito di inalberare nella città
la bandiera britannica, ove essa sventola tuttora senza tema
che alcuno Y abbassi, non essendo punto sperabile una re-
stituzione come quella delle Isole Jonicbe.
^7
412
Abitanti. — L' isolamento e la piccola estensione di un
gruppo di sole tre isole, tenne esposti gli abitanti di Malta
ad esser preda di tutte le invasioni che successivamente pre-
dominarono sul mediterraneo ; ciò non dimeno conservarono
il loro tipo caratteristico, per congenita ripugnanza di amal-
gamarsi con i loro oppressori. Opina il Miege che i Maltesi
provengano da razza africana: se egli intende risalire al-
l' epoca vetustissima dei primitivi abitanti delP Italia, mi
uniformerò al suo parere, poiché seguendo la orme dell' imm.
Romagnosi può darsi libica origine al primitivo italico
incivilimento: ma se quello scrittore francese vuol trovare
i Maltesi di razza berberica, perchè piccoli, muscolosi e di
colore olivastro, avvertirò esser quelle le naturali caratteri-
stiche della massima parte degli isolani del Mediterraneo.
I Maltesi sono attivi ed agili; congiungono la forza al
coraggio, e il coraggio alla sobrietà: sono poi indubitabilmente
i più abili marinari del Mediterraneo. Singolarissimo è in
essi r amore di patria : sobrio e frugale vive il Maltese con-
tento di mediocrissima fortuna nelle sue isole, che chiama
fiore del mondo; e allorché se ne allontana, giammai non
rinunzia alla speranza di ritornare a finirvi i suoi giorni. Il
Maltese è religioso per intimo convincimento, quindi compie
a quei suoi doveri senza ostentazione : se nonché nei tra-
scorsi tempi sarebbe stato capace di trascendere in eccessi,
a difesa dei riti della sua chiesa e dei ministri del culto.
È altresi pacifico e tranquillo ; perciò con estrema facilità si
calma, provocato che sia alle risse; gelosissimo della sua
riputazione, riguarda come un'onta incomportabile Tessere
citato alla Corte Criminale. Ardente nei desiderj e sensibile
negli oltraggi è per natura sospettoso e geloso : mal fondata
però é l'accusa degli stranieri, che lo dissero inclinato ai
furti: il Console Miege che tenne a Malta il domicilio per
un dodicennio, dichiarò che in rapporto alla popolazione i
/
o
413
delitti di furto erano stati in numero molto minore che nei
paesi del na^ssimo incivilimento. Potrebbero piuttosto rim-
proverarsi a questa italiana. famiglia altri difetti sociali, non
invincìbili però perchè provenienti da mancanza d' istruzione,
alla quale provveder dovrebbe il Governo: mercè un tale
soccorso potentissimo cesserebbe altresì il Maltese di limi-
tare la sua industria nell' agricoltura e nelle arti alla servilità
di una imitazione ereditaria, dando prova dello italico in-
gegno che in esso non ebbe ancora opportunità di svolgersi.
Molti autori opinarono che il dialetto Maltese fosse un
arabo corrotto; ed altri andarono a ricercarne i radicali
nientemeno che nell' antico Fenicio. I ragionamenti di quei
filologi furono più speciosi che solidi: col volger degli anni
dovè naturalmente sparire affatto il primitivo linguaggio, e
cambiarsi sostanzialmente col variare dei dominatori. L'idioma
usato attualmente in Malta ed al Gozo è un mescuglio di
voci e frasi provenienti da diverse lingue; ed è da notarsi
che ben lo intendono gli abitanti delle più vicine coste
della Berberia : giovi il ricordare a tal proposito, che nel
naufragio sofferto nel 1830 dai marinari dei legni francesi
Silene e Aventure, un pescatore maltese potè liberare dalla
morte quegli infelici, facendo credere ai Beduini col suo
linguaggio nativo che quei navigli erano inglesi. In conse-
guenza di non piccole difTjcoltà nella pronunzia si rese
necessario di determinare un alfabeto con regole gramma-
ticali, onde scrivere correttamente il maltese: quella gram-
matica fu pubblicata nel 1791 da un erudito filologo; e Sir
Freve antico ambasciatore d'Inghilterra in Spagna fece
tradurla in italiano nel 1827: quel libro non andava esente
da errori, modernamente però furono corretti dall' Ab. Bol-
lanti, già Direttore della Biblotcca R. di Malta.
Nella pubblicazione della mia Corografia non mancai
di fare le più vive premure, per aver tradotto in maltese
"<>
ù
414
il consueto Dialogo, ma non potei ottenere il mio intento.
Ora poi, mercè la somma cortesia del Console italiano re*
sidente in Malta, ebbi non solo la bramata versione, ma
volle darsene special cura il Dott. G A. Vassallo Professore
di Letteratura italiana in quella R. Università. E poiché gli
piacque aggiungere erudite avvertenze storico-critiche sul
linguaggio Maltese, ne darò qui di buon grado un transunto.
Considerava il Dott. Vassallo, che Malta per lunghissimo
tempo subite avendo le medesime sorti politiche e civili
dell'Italia Meridionale e della Sicilia, la lingua italiana
balbetlavasi in queir isola fino dai suoi primordi : ed i primi
versi popolari che uscirono dalla corte del secondo Federigo,
e la Fresca Uosa aulentissima del siciliano Giulia di Alcamo,
in grazia della vicinanza, della dipendenza politica, delle
molte relazioni commerciali, ripetevansi e cantavansi anche
in Malta. Se non che ducento e venti anni di dominazione
araba dovettero per necessità influire sul popolare linguaggio;
tanto più che considerabile era il numero degli invasori in
quel gruppo d'isole stabiliti. A ciò si aggiunga che il com-
mercio dei pochi indigeni facevasi colla vicina Berberia e
colle Spagne, paesi essi pure di quel tempo dominati dagli
Arabi. Si conclude che V elemento arabo restò nel vernacolo
maltese; che se la signoria degli Arabi non recò notabile
alterazione nelle parti essenziali della civiltà, fu quello un
frutto manifesto del cristianesimo, perchè precede di qual-
che secolo r araba invasione.
415
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
KD UN SERVITORE.
Padrone. Ebbene, Balista,
hai tu eseguite tutte le com-
missioni che ti-ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino ;
alle sette e mezzo ero a metà
di- strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città i ma
poi è piovuto tanto!
Padr. Che al solito sei sta-
to a fare il poltrone in un'oste-
ria, per aspettare che spioves-
se! E perchè non hai preso
l'ombrello?
Serv. Per non portar quel-
rimpiccio;epoi jeri sera quan-
do andai a letto non pioveva
più, se pioveva, pioveva po-
chissimo : stamani quando mi
sono alzato era tutto sereno,
e solamente a levata di sole
si è rannuvolato. Più tardi si
è alzato un gran. vento, ma
invece di spazzare le nuvole,
ha portato una grandine che
TRADUZIONE
NEL DIALETTO
DI MALTA.
SiGNUR. U hecch, Paiist,
aghmilt il huejjeg collha li
ghettlech taghmel?
Seftur. Signur , natich
chelma, li fittixt naghmelcol-
lox mill ahiar li staiL Da 7
ghodu fissitia u quart coni
ucollox fittriek ; fis-sebgha u
nofs chelli nofsa, u fid-disgha
niekes quart coni diehel il beli.
Imma mbaghd dich xita !
Sion. Tridx tara V ititi
dhalt geuua xi hanut, chi/
ihobb taghmel, biex iistennà
ix-xita tisha! Ghaliexma hadx
r umbrella ?
Seft. Biex ma nokghodx
nitghabba biha : il bierah fil
ghaxia, meta mort norkod,
ma chieniix izied xita, jeu,
jechchienelyirkieka. Da 'l gho-
du, meta komt, chien collox safi,
biss fi tlv>gh ix-'ocemx ragia
bada isahhab. Flit uara kàm
rih kauui, li min floc mu fa-
nes is-shab, kankal hafna
silg li diem nieìfel nofs sigha,
416
ha durato mezz' ora, e poi
acqua a ciel rotto.
Vadr. Così vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto qua-
si niente di ciò che ti avevo
ordinato; non è vero?
Serv. Anzi spero che ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
SERv.Nel tempoche pioveva
mi sono fermato in bottega del
sarto, ed ho visto con questi
miei occhi raccomodato il suo
soprabito con bavero e fodere
nuove; la sua giubba nuova e i
pantaloni colle staffe erano fi-
niti e la sottoveste stava ta-
gliandola.
Padr. Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo e il calzolajo, e di
questi non ne hai cercato?
Serv. SI signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio, e non gli mancava
che orlare il nuovo. Il calzolajo
poi aveva terminati gli stivali,
le scarpe grosse da caccia, e
gli scarpini da ballo.
u mbaghd odia bil kliel.
SiGN. B* dana collu trid,
tgheidli illi inti ma aghmili,
tista theid, xein milli jen
ghetilech, ux tas-seu?
Seft. Le, nitma ueoll li
inti iibka biex ma tgheid xein,
meta tcun iafid-daura li dori
il beh f saghtein.
SiGN. Nisimghu il bravuri
tighoc,
Seft. Uakt ix-xiia dhalt
ghand il hajjai, u rati bghai-
nejja is^surtun tighac imscum
bil ghonk u V inforor giodod,
il gistacor il gdid u 7 kalziet
bli staffi chienu lesti, u issi-
dna chien ifassalha.
SiGN. Tajjeb uisk. Dich
in-naha emm ucoll tal cpiepel
u li scarpar : fitiixlom xei IH
danna ?
Seft. Mela, signur : dac
tal cpiepel chien kighed iseuui-
lech il cappell il kadnn, u ma
chienx fadallu hlief iberfel il
gdid. Li scarpar chien ttcol-
lox lesta li stuali, iz-zarbun
ohxon tal caccia^ u izzarbun
tal ballu.
417
Padr. Ha ìd casa di mio
padre quando sei andato ,
che questo era l'essenziale?
Serv. Appena spiovuto,
ma non vi ho trovato né suo
padre, ne sua madre, né suo
zio, perché jeri l'altro andarono
in villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno sarà stata
in casa ?
Serv. No Signore, perchè
avevano fatta una trottata, ed
avevano condotto il bambino
e le bambine.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa ?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor
padre, la cameriera e due ser-
vitori erano con sua cognata, e
il cocchiere avendo avuto l'or-
dine di attaccare i cavalli per
muoverli, se ne era andato col-
la carrozza fuori di città.
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
Serv. Non vi ho trovato
che il garzone di stalla, ed
a lui ho consegnate tutte le
lettere, perché le portasse a
chi doveva averle.
Padr. Meno male. E la
SiGiN. Imma id-dar ta mis-
sieri meta mori ? ghaliex da
chien V akua.
Seft. Malli shat ix-xita,
imma la sibt il missierech,
la r ommoc, la 7 ziiichy gliax
il hierahtlula marru ir-rahal
u rakdu hemm.
SiGN. Imma hia u martu
chienu ghallinkas id-^dar?
Seft. Le, Signur, ghax
chienu marru iduru daura,
u hadu mahhom iz-zghar.
SiGN. Imma issefturi chie-
nu colla barra mid^-dar?
Seft. Il eòe chien mar ir-
rahal ma missierech; il cam-
riera u zeug sefturi chienu
marru mal mara ta hùch;
u 7 cuccier billi chienu kalulu
jarma il carrozza chien hareg
biha.
SiGN. Mela ma chien emm
hadd id-dar?
Seft. Ma sibtx emm hlief
il giuoni ta li stalla, u lilu
tait il nitri crolla biex joho-
dom fein ghandu johodom.
SiGN. Ghallinkas. UUpro-
«7
418
provvista per domani ?
Serv. L'ho fatta : per mi-
nestra ho preso della pasta, e
intanto ho comprato del for-
maggio del burro. Per ac-
crescere il lesso di vitella,
ho preso un pezzo di castra-
to. Il fritto lo farò di cer-
vello, di fegato e di carciofi.
Per umido ho comprato del
majale, ed un' anatra da farsi
col cavolo. E siccome non
ho trovato né tordi, né starne,
né beccacce, rimedieròcon un
tacchino da cuocersi in forno.
Padr. E*del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perché costava po-
chissimo.Hocomprato sogliole,
triglie, razza, nasello ealiuste.
Padr. Così va benissimo.
Ma il parrucchiere non avrai
potuto vederlo?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e cioccolata,
così ho parlato anche a lui.
Padr. Echenuoveti badate?
Serv. Mi ha detto che
r Opera in musica ha fatto
vision ta ghada ?
Seft. Aghmiltha : ghat-ti
sjir xlrait il ghagin, u xlraii
ucoll il giobon u 7 butir, Biex
inzìd mal buHuf tal vitella
xlrait biccia castrat. Il leali
nahmdu ta muhh, fuuied u
kakocc. Ghal istvff'att xlrait
biccia majjal u uizza li nagh-
milom bil cabocci, U billi ma
sibtx imlievetz la stcyrni, la
beccacci, impattu b' dundian
il forn.
SiGN. U hitt ma xlrait xein?
Seft. fsbah din, xtrait ha-:
fna, ghax chien b' xein : xtrait
linguali, triti rojj, naselli u
auisti.
Sion. Tajjeb uisk. Imma il
parrucchier ma stailx jeuilla
tarah?
Seft. lìaitu iva^ billi hu
ghandu 7 hanut hdein il mar-
cier mnein xlrait iz-zoccor,
il bzary l' imsicmer tal kronfol,
il cannella, u iccicculata, hecc
ucoll kellimt lilu.
SiGN. U X ahbariet tàc?
Seft. Kalli li l'apraghag-
boc uisky imma il ballu chellu
419
furore , ma che il ballò è
stato fischiato; che quel gio-
vine signore suo amico perde
r altra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire con la diligenza
per Livorno. Mi ha detto pure
che la signora Lucietta ha con-
gedato il promesso sposo, e ha
fatto giuramento di non voler-
lo più.
Padr. Gelosie.... questa sì
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio uà poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara tutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli miglio-
ri; tra i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
manchino né scodelle, né vas-
soj. Accomoda la credenza con
it'tisfir, li dac il giuoni signur,
habib tighac, il-leil li ghadda
tilef ftl^-loghob V imhatri li
ghamel collha, u li issajistenna
l' isiefer malli isib. Kalli ucoll
UH is-signura Lucietta ba-
ghfitu 7 gharus li chellha, u
halfet li ma tridux izied.
SiGN. Ghira... V dan tas-
seuua nidhac. Immu nahsbu
issa ghal affariet taghna.
Seft. Jech joghgboCy jen se
V immur niecol buccun u
nixrob tazza mbity u nigi
dkmc biex inservich,
Sion. Billi jen imgha^ggel u
irrid nohrog malair, isma
r euuel dàc li ngheidlech^ im-
baghd lista tiecol u iistrich
chemm joghgboc,
Seft. Gheidli, gheidli.
SiGN. Ghal pranzu li ghan
dna naglmlu lesti collox fìs-
sala iz-zghira. Ghandech ti-
chu tvagli u srievet mill ahiar;
piatti tal fajenza u kis li ma
jonksux scutelli u gabarreiet.
Lesti il credenza bil frottiet;
ghenebf gens, leus, huejjeg tal
420
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Srrv. e quali posate met-
terò in tavola ?
Padr. Prendi i cucchiai
d'argento, le forchette e i
coltelli col manico d' avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini sia-
no quelli di cristallo arrotato.
Accomoda poi intorno alla ta-
vola le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna. Tu
sai quanto è stucchevole quella
vecchia! Metti in ordine la ca-
mera buona, fa'riempire il sac-
cone e ribattere le materasse.
Accomoda il letto con lenzuola
efedere le piùfini,ecuoprilocol
zanzariere. Empi la brocca di
acqua, e sulla catinella disten-
di un asciugamano ordinario
ed uno fine. Fa'tutto in rego-
la, e la mancia non mancherà.
Serv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
helu, cunfetiuri, xi mbejjet fil
flieocchen.
Seft X pusaii ghandi «a-
ghmel fuk il meida ?
SiGN. Li mgharef tal fidda;
schiechen u fricchety dauc tal
màncu tal avoriu ; u làs li
7 fliexc'hen tal Urna, il-tazzi,
cbar u zghar, icunu min dauc
tal cristal mulal. Dauuar il
meida U siggieì mill ahiar.
Seft. Naghmel coUox seuua
chf ghetlli.
SiGN. Ftacar li illeilaghauda
tigi innanna. Taf chemm hi
siccanti dich ix-xiha! /fran-
giala r ahiar camra ; imliela
is-sakku u farfar li mìierak
Ifrex is-sodda b' hzor u nve-
sii mill ifien, u kighed il mw-
schettiera. Imla il bukal bl%U
ma u fuk il friscatur ifrex
xngaman la coljum u ihor
fin. Aghmel collox seuua, u
hecch ma tankos xi hagia
ghalich.
Seft. Uisk huejjeg ghetili
naghmelf m' ux ciait imma
collox naghmel.
LJkJ
421
NOTA.
Il eh. Prof. Vassallo, che con tanta cortesia corrispose alla do-
manda della traduzione del Dialogo nel vernacolo Maltese, facendo
plauso a un tal pensiero, ne avvertiva della necessità assoluta, che
le prove di torchio fossero rivedute e corrette in Malta. Dna tale
avvertenza imbarazzava assai, perchè trovata ben giusta; e difalti
recherà non lieve sorpresa la stranezza delle voci e la loro grande
differenza da quelle usate in tutti gli altri dialetti italiani.
Fortunatamente fui avvertito trovarsi in Firenze la concittadina
Sig. Elena Pierotti, la quale essendosi trattenuta in Malta pel corso di
alcuni anni, imparò praticamente e per principj grammaticali non il
solo idioma inglese ma il vernacolo ^falt€se ancora. Con somma gen-
tilezza essa si prestò alla correzione delle bozze stampate, e ripetè
quella revisione per ben quattro volle. Ciò indica la perdita di tempo
che avrebbe cagionata la ripetuta spedizione delle stampe a Malta; e
siano dunque rese le dovute grazie a quella cortese istruitissima gio-
vinetta.
422
DIALETTI DELLA SARDEGNA.
CON ILLUSTRAZIONI ETNOLOGICHE.
In forza di un politico avvenimento, di cui non può
rendersi altra ragione se non quella di un supremo co-
mando, i dominii goduti in Italia fino a questi ultimi anni
dalla R. Casa di Savoia costituirono \ì Regno Sardo, facen-
dogli prendere il nome da un' isola del Mediterraneo a
quello stato aggregata da poco più di un secolo ! Vittorio-
Amedeo II cambiò è vero il titolo di Duca in quello di Be
per siffatto acquisto, dovendo bensì fare tristo cambio della
Sardegna colla Sicilia per cagione degli intrighi dell' audacis-
simo cardinale Alberoni; ma siccome quell'avveniniento ricor-
dava la sua rassegnazione alle vicissitudini della sorte, potevasi
presumere che nel ricomporsi alla calma l' ordine politico
dell'Europa sconvolto dalle ultime rivoluzioni, i successori
del primo Re che in Torino risedevano, godendo una vasta
e ricca e bella parte dell'Italia superiore, cessassero d'in-
titolarsi regnanti dal minore possesso della Sardegna, ma
così loro piacque, ecL è ben giusto rispettarne i motivi;
tanto più che quella loro ereditaria modestia, accompagnala
da sublimi virtù molto rare nei Sovrani assoluti, vennero
finalmente premiate col titolo grandiosissimo e ben meritato
di Re d' Italia.
Ora dunque perlustrar dovendo la Sardegna, seconda
in grandezza tra le Isole dell'Italia, premetterò i consueti
brevi cenni etnografici, per render più chiare le ricerche
sulle condizioni fisico-morali di questi isolani. Sorge la
Sardegna in punto quasi centrale tra Y Italia, la Berberia,
la Spagna e la Francia, distante da esse per uno spazio poco
differente. Nei suoi monti, e in special modo in quelli della
423
parte settentrionale, sono frequentissime, le sorgenti d' acqua
dolce, rare invece nella parte opposta di mezzodì e delle
pianure, essendo ivi quasi tutte salmastrose. Al che si ag-
giunga che numerosi sono gli stagni, dei quali Solino ed altri'
antichi scrittori fecero spesso menzione; tra questi Silio Italico
che die un cenno dei numerosi marazzi. Restano questi es-
siccati nei mesi estivi ed autunnali, pur nondimeno rendono
insalubre Taere dei luoghi circonvicini. Un altro naturale
nemico dei Sardi è un vento chiamalo dagli antichi Volturno
molto temuto specialmente nei calori estivi e indicato per-
ciò col nome di maledetto. Ma della insalubrità di Sardegna
scrissero ben anche gli antichi, tra i quali Cicerone, Tacito,
Pomponio Mela, Cornelio Nipote e Silio Italico ; ed infatti
le basse valli e le uliginose pianure sono infette da quella
malaria, cotanto fatale nelle maremme toscane e romane.
Chiamarono i Greci Ichnusa quest'isola, e secondo Pau-
sania furono i primi a colonizzarla i Pelasgi discesivi dalle
coste d'Etruria: potrebbero qui citarsi moltiplici altre opi-
nioni, in mezzo alle quali la più probabile è quella del-
l' invasione di Etruschi e di Fenicii, i più antichi navigatori
cioè del Mediterraneo ; difatti vengono spesso dissotterrate
iscrizioni fenicie. Nella prima metà del secolo VI di Roma
approdarono alla Sardegna i Cartaginesi, che presto furono
scacciati dai Romani. Questi conquistatori ridussero l' isola a
fiorente cultura, che sotto l' impero d' Augusto crebbe ancor
di più; e nel progresso di quell'incivilimento i montanari
stèssi si assuefecero al giogo imperiale e presero il lin-
guaggio e i costumi dei vincitori ; non sarà inutile l'avver-
tire che nel XIX dell'era volg. vennero confinati in que-
st' isola non meno di quattromila fra Giudei ed Egiziani, e
pare che questi vi portassero un primo albore di luce evangelica.
Al tempo delle invasioni dei barbari trovasi che Gen-
serico nel 471 si rese padrone della Sardegna, introducen-
424
dovi un governo depredatore e tirannico. Succedeva poi
Telila Re dei Goti, ma fu scacciato da Narsete. Se non che
nel 70^ i Saraceni fecero in quest'Isola la prinaa incursione
e tornandovi dopo due anni, tutto devastarono e saccheg-,
giarono, spogliando chiese e sepolcri ; e dopo aver passato
a fil di spada la guarnigione greca si stabilirono in varii
punti deir Isola. Dopo la caduta del regno Lombardo vi
approdò nel 1000 Musetto Re de' Mauri, il quale si sarebbe
impadronito anche di Pisa senza il coraggio della famosa
Chinzica. Frattanto Papa Giovanni XVIII bandi una crociata
contro i Mori di Sardegna, e i Pisani poterono impadronirsene.
Essi divisero V isola in quattro Giudicali, di Cagliari cioè,
di Logudoro, d'Arborea e di Gallura ; ma quei Giudici feu-
datari della Pisana repubblica si arrogarono poi titoli di Re,
ed ebbero frequenti mischie fra di loro : certo è intanto
che i Pisani incoraggirono l'agricoltura, attivarono miniere
e fortificarono diverse città.
Se non che presumevano i Papi che i Pisani ricono-
scessero come loro dono la signoria di Sardegna, ma non
l'ottennero né colle minaccio né colle scomuniche; ed i Papi ne
investirono arbitrariamente i Re di Arragona, ai quali succede-
rono quei di Castiglia che si costituirono neirisola colla forza, e
vi si mantennero colla violenza e colle estorsioni. La lunga do-
minazione spagouola portò in Sardegna il dialetto Catalano,
ma nessun miglioramento né istruttivo né amministrativo.
Frattanto in uno di quei congressi nei quali le grandi Po-
tenze bene si aggiustano con i possessi altrui, in forza del
trattato di Londra del 1720 Vittorio Amedeo di Savoia dovè
contentarsi della Sardegna invece della Sicilia, ma procurò con
ottime disposizioni di migliorarne le condizioni, in ciò imi-
tato costantemente dai suoi successori.
Abitanti. — Gli abitatori della Sardegna andarono sog-
getti come quelli di tante altre Isole al rimpiccolimento
425
del corpo; ma quel difetto, se tale può dirsi, vien compen-
sato da belle forme, e da una vigoria muscolare notabilis-
sima. 11 Sardo è di mediocre statura, ma svelto e sottile
della persona, di colorito bronzino, capello nero, fisionomia
animata e vivace. Hanno le donne grandi occhi neri e sot-
tigliezza di taglio : possono assai presto contrarre matrimonio
e sono fecondissime. Raro è che nei due sessi si trovino im-
perfezioni fisiche, salvochè in qualche abitante delle città e
per un genere di vita difettoso.
Amano i Sardi passionata mente la patria loro, ma tal-
volta sono assai ingiusti verso gli stranieri, spregiando ben
anche i servigi che questi potrebbero loro rendere. Sono
dotati di vivace fantasia e grande mobilità di spirito ; quindi
più inclinati alla poesia che alle scienze esatte. Si è voluto
rimproverare loro una certa abituale scaltrezza, conseguenza
naturale di una nazione ingegnosa ma molto povera : certo
è intanto che per natura sono ospitali, e laboriosi per ca-
priccio. Amano la caccia, la danza e i piaceri della mensa,
siccome pure il lusso del vestire, senza darsi briga alcuna
di tesaurizzare. Nella religione sono alquanto esaltati ma
sinceri : sono costanti assai nelle affezioni come nell' odio,
ma la gelosia raramente disturba la pace domestica.
Malauguratamente esistono anche in quest'Isola divi-
sioni cittadinesche siccome in Corsica, ma la destra del
Sardo non impugna quasi mai le armi contro il fratello e
lo stretto congiunto, bensì contro il vicino che gli recò of-
fesa; e quando lo sdegno lo acciechi in guisa da toglier,
la vita al nemico, ciò è sempre effetto di animosità indivi-
duale. Il mancar di parola alle promesse matrimoniali, il
furto di qualche capo di bestiame, e cose consimili, produ-
cono d' ordinario il tristo effetto della vendetta, che il Sardo
si crede in diritto di disfogare senza ricorrere alla giustizia
governativa. Si è esagerato però sul carattere feroce dei
426
montagnoli ; basti il dire che I' ospitalità esercitata anche
col nemico è per essi una virtù naturale; hanno altresì la
generosa delicatezza di non abusare della forza, se sia mag-
giore di quella dell'avversario con vistosa sproporzione.
L' alta nobiltà, pei suoi rapporti con quella del Piemonte, di-
messe in gran parte il fasto vanitoso ereditato dagli Spa-
gnoli : altrettanto dicasi delle dame ; se non che quelle per-
tinenti alla classe meno agiata abbisognerebbero d' una mi-
gliore educazione. Le donne del popolo, cosi dei villaggi
come delle campagne, sono abbandonate ad una totale igno-
ranza : è loro occupazione principale il far pane, tessere e
filare, ma quasi mai si prestano ai lavori dell' agricoltura.
Tutto il sesso femminile ama del pari la danza, e special-
mente la nazionale.
Linguaggio dei Sardi. — La lingua dei Sardi è com-
posta di dialetti differenti, che secondo alcuni letterati del-
l'Isola possono ridursi a due. Vuoisi che l'idioma di questi
Isolani sia più armonioso di tutti quelli usati nelle contrade
settentrionali della Penisola; del Genovese e del Piemonte-
se è più grato sicuramente, alle orecchie almeno dei Tosca-
ni. Tutte le voci della lingua sarda finiscono per vocali, o
nelle due consonanti set, carattere derivato manifestamen-
te dal latino. È anzi da osservarsi che fu conservata gran
quantità di voci di quella classica lingua, e perfino alcune
frasi usate tuttora senza alterazione veruna: da mihi duos
panes: columba mea est in domo tua: cras, deus. Alcune pa-
role non hanno perduta che la finale m nel singolare, pren-
dendo però la s nel plurale; tali sono domu, centu, pagu, tan-
tu, loru: altre infine hanno subita la variazione delle lettere
t) in 6 e della / in d; villa, in bidda; venire in beniri: di-
modoché può applicarsi ai Sardi il noto motto dello Scali-
gero
Felices quibus vivere est bibere.
427
I cantoni di Bitti e di Budusò, pertinenti alle montagne
sulle quali il fmme Tirso ha la sua origine, sono quelli
ne'quali il dialetto nazionale sembra aver conservato non
solamente una maggior quantità di voci latine, ma alcune
tracce altresì dell'antica lingua che usarono i Romani. Al-
cuni scrittori ravvisarono nell'idioma dei Sardi anche gran
quantità di parole derivate dal greco: per sostenere il loro
asserto ricorsero alle etimologie forzate e talvolta assurde,
ma certe voci sono al certo di ellenica radice, for^e in se-
guito dei traffici commerciali avuti per lungo tempo da que-
sti Isolani coi Greci.
Ritornando ai dialetti debbo confessare che nella prima
produzione dei medesimi, ad onta di ripetute richieste, non
mi fu dato ottenere la versione del consueto Dialogo: per
supplire a tal mancanza ricorsi ai dotti scritti del P. Ma-
dao, limitandomi bensì a trascrivere ÌOrazione Domenicak
nei due seguenti vernacoli.
ORAZIONE DOMENICALE
In Dialetto di Cagliari.
Babbu nosta, qui ses in celu:
siat saoctificadu su nomini tuu:
bengiat a nos su regnu luu; siat
facta sa voluntadi tua, conienti
in celu, et aici in terra: su pani
nostu de ogni dì dainos-iddu boi,
et perdonanos is peccadus nostus,
conienti nos aterus perdonaus a
is depidoris nostus: Et né nos las-
sis arruiri in sa tentationi; sino li-
beranos de mali. Amen.
In Dialetto di Logudoro.
Babbu nostru, qui stas in sos
chelos; sancii Head u siat su nomen
tou: benzat a nois su regnu tou:
fìacta siat sa voluntade tua, co-
mente in su chelu asi in sa terra:
su pane nostru de ogni die dona-
nostu he, et perdònanus sos pec-
cados nostros, comente nos ateros
perdonamus sos inimigs nostros. Et
né nos lasses ruere in sa tentatione;
sino liberanos de male. Amen.
4?8
In questa mia riproduzione dei Dialetti Italiani mi tro-
vai favorito di versioni in vernacoli sardi da due distinti
soggetti, meritevoli entrambi di alta stima, e soprattutto poi
della mia speciale gratitudine. Se non che mi imbarazzava
la scelta; mi atterrò quindi al partito migliore.
Mi si avverte prima di tutto che^i dialetti della Sar-
degna a tre principalmente si riducono; il meridionale il cen-
trale ed il settentrionale. Si aggiunge poi, che siccome il me-
ridionalos comprende il dialetto di Cagliari e quel d'Oristano,
così a quest'ultimo mi si consiglia di sostituire quello di Usini^
che fa parte del vernacolo Logudorese,
Per conciliare le diverse opinioni mi attenni al partito
di produrre la traduzione nei Dialetti di Usini, o Logudo-
rese, e di Sassari, In tal modo a me sembra che possa pren-
dersi un'idea molto esatta dei diversi linguaggi in Sardegna
adoperali.
459
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
ED UN SBRVITCRB.
Padrone. Ebbene, Balista,
hai tu eseguite tutte le com-
missioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città , ma
poi è piovuto tanto!
Padr. Che al solito sei sta*
to a fare il poltrone in un'oste-
ria, per aspettare che spioves-
se! E perchè non hai preso
r ombrello ?
Serv. Per non portar quel-
l'impiccio; epoijeri sera quan-
do andai a letto non pioveva
più, se pioveva, pioveva po-
chissimo: stamani quando mi
sono alzato era tutto sereno,
e solamente a levata di sole
si è rannuvolato. Più tardi si
è alzato un gran vento, ma
invece di spazzare le nuvole,
TRADIZIONE
NEL. DIALETTO
DI USIMI. *
Padronu. Ebbene, Batista,
ha$ fattu totlu sas commis-
siones qui thapo dadu?
Servidore. Mtssignore, li
poto assigurare d' esser istadu
puntuale cantu hapo potidu,
Custu manzanu a sas ses e unu
quartu fia già in viaggiu; a
sas sette e mesa aia fattu
meidade de caminu, e a sas
otto e tres quartos intraia in
zittade ^ ma poi hai piopidu
tantu!
Padr. Qui, a su solitu, ses
istadu a fagher su mandrone
in s osteria, prò ispettare qui
zesseret de piòtre : e proile no
has leadu su paracqua?
Serv. Pro no giùgher cussu
impicdu ; e poi erisera cando
so andadu a lettu non pioiat
pius, si pioiat, pioiat paghis-
simu. Custu manzanu, cando
mi so pesadu faghiat unu
tempus bellissimu, e solamente
a s alzada de su sole, s est
isconzadu. Pius tardu sest
pesadu unu grand entu, ma
1
430
ha portato una grandine che
ha duralo mezz' ora, e poi
acqua a ciel rotto.
Padr. Così vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto qua-
si niente di ciò che ti avevo
ordinato; non è vero?
Serv. Anzi spero che ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
SERv.Nel tempoche pioveva
mi sono fermato in bottega del
sarto, ed ho visto con questi
miei occhi raccomodato il suo
soprabito con bavero e fodere
nuove; la sua giubba nuova e i
pantaloni colle staffe erano fi-
niti e la sottoveste stava ta-
gliandola.
Padr. Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo e il calzolaio, e di
questi non ne hai cercato?
Serv. Sì signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio, e non gli mancava
che of lare il nuovo. Il calzolajo
poi aveva terminati gli stivali,
invece de dissipare sas nues,
hai battidu unu colpu de ran-
dine qui hat duradu mes ora,
e poi abba a dilluvixi.
Padr. Gai mi cheres fagher
intender de no haer fattu qiuisi
niente de su qui f hapo nadu,
no est beru?
Serv. Anzis ispero qui Vis-
signoìia dei esser cuntenta,
cando hat a ischire su giru
qui hapo fattu prò sa zittade
in duas oi^as.
Padr. Intendimus custasva-
lentias tuas.
Serv. Cando pioiat, mi so
firmadu in sa buttega de su
drapperia e hapo idu cun custos
ojos mios acconzadu su sopra-
bitu de F. 5. cun su collu e
sa forra noa: su estire a eoa
de rundine e sos pantalones
a tirante fint finidos, e fit se-
stende su sottabitu.
Padr. Tantu mezus. Ma
tenisti puru a pagos passos su
sumbreraju e su calzolaju, e
custos non hs has chilcados?
Serv. Sissignore. Su sum-
breraju puliat su sumb^eri
ezzu de V. S. e non li re-
staiat che a orizare su nou.
Su calzolaju aiat finidu sos
lì
431
le scarpe grosse da caccia, e
gli scarpini da ballo.
Padr. Ma in casa di mio
padre quando sei andato,
che questo era l'essenziale?
Serv. Appena spiovuto, ma
non vi ho trovato nèsuo padre,
né sua madre, né suo zio, per-
ché jeri r altro andarono in
villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno sarà stata
in casa?
Serv. No signore, perchè
avevano fatta una trottata
fuori di città , ed avevano
condotto il bambino e la
bambina.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa ?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor pa-
dre, la cameriera e due servi-
tori erano con sua cognata, e
il cocchiere avendo avuto l'or-
dine di attaccare i cavalli per
muoverli, se ne era andato col-
la carrozza verso la Favorita.
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
Serv. Non vi ho trovalo
botfes, sas iscarpas de cazza,
e SOS bottinos de ballu.
Padr. Ma a domo de babbu
cando ses andadu, qui custu
fit s essenziale ?
Serv. Appena hat finidu de
pioer ; ma non bi hapo incon-
iradu né su babbu, né sa ma-
ma, né su fiu, proite innanti
eris sunt andados in campa-
gna e bi sunt istados tolta
notte.
Padr. Frade meu però, o,
a su mancu sa muzere det
esser islada in domo ?
Serv. Nossignore , proite
aiant fattu una trottada foras
de zittade, e s aianl giutu cum
ipsos su pizzinnu e sapizzinna.
Padr. Ma sa servitudine fit
tolta foras de domo?
Serv. Su coghineri fit an-
dadu in campagna cun su
babbu de V. S. , sa camerera
e duos servidores fint cun sa
connada, e su carrozzeria aende
apidu s' ordine de attaccare sos
caddos prò los movere, si nd'est
andarlu a trottare.
Padr. Duncas sa domo fit
boida ?
Serv. Non bi hapo^ incon-
432
che il garzone di stalla, ed a
lui ho consegnato tutte le let-
tere, perchè le portasse a chi
doveva averle.
Padr. Meno male. E la
provvista per domani?
Serv. L* ho fatta : per
minestra ho preso della pa-
sta, e intanto ho comprato
del formaggio e del burro.
Per accrescere il lesso di vi-
tella, ho preso un pezzo di
castrato. Il fritto lo farò di
cervello, di fegato e di car-
ciofi. Per umido ho compra-
to del majale, ed un* anatra
da farsi col cavolo. E sicco-
me non ho trovato né tordi,
né starne, né beccacce, ri-
medierò con un tacchino da
cuocersi in forno.
Padr E del pesce non ne
hai compralo?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perchè costava po-
chissimo.Hocompratosogliole,
triglie, razza, nasello e aliuste.
Padr. Così va benissimo.
Ma il parrucchiere non l'avrai
potuto vedere?
Serv. Anzi siccome ha la
tradu que su muzzu de istalla,
e a ispe hapo consignadu toltu
SOS Hileras prò las giùghere
a chic las deviai haere,
Padr Mancu male. E sa
provista prò cras ?
Serv. L' hapo fatta : pi^o
minestra hapo leadu pastas,
e intantu hapo comporadu su
casu e su butiru. Pro crescher
su budidu de vitella hapo
leadu unu biculu de crastadu
Sa frittura l' hapo a fagher
de carveddos, de fidigu e de
iscarzoffa. Pro umidu hapo
comporadu peta de majale e
un anade qui s'hat a cogher
cum cauta. E si comente no
hapo incontradu né turdos, né
perdias né beccaccias, bì hapo
a rimediare cum unu dindu
cottu in furru.
Padr. E pische no n has
comporadu ?
Serv. Anzis n hapo leadu
in quantidade, proite costaiat
paghissimu. Hapo compoì^adu
sogliola, triglia, razza, nasellu
e aliusfa.
Padr. Gai andai benissimu.
Ma su piluccheri non r has
potidu Hdere?
Serv. Anzis, si comente hai
133
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e cioccolata,
così ho parlato anche a lui.
Padr. e che nuove ti ha
date?
Serv. Mi ha detto che
l'opera in musica ha fatto
furore, ma che il ballo è stato
fischiato ; che quel giovine
signore suo amico perde Y al-
tra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire alla prima oc-
casione. Mi ha detto pure che
la signora Lucietla ha conge-
dato il promesso sposo, e ha
fatto giuramento di non vo-
lerlo più.
Padr. Gelosie.... questa sì
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Pad^. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
sa buttega cuceanixi a su dro-
gheri, in ne hapo fattu sa pro-
vista de su tuccaru, pibere,
colovuru, cannella e ciocohUe,
gai hapo faeddadu ancora a
ipse,
Padr. E ite notizias that
dadu?
Serv. M* hai nadu que
r Obera in musica hat fattu
fwvrCy ma que su ballu est
istadu frusciadu; que cuddu
giovanUy amigu de V, S. per-
desit s' ateru sero, a su giogu
tottu sas iscummissas, e que
conio ispettaiat de partire a
sa pìima occasione. Af hai
nadu puì^ que sa Signora
Lucietta hat cungedadu suptv-
missu isposuy e hat fattu giù-
ramentu de non lu ider pius.
Padr. Belosias!.. custa si
qui mi fagh&t a rier ; ma pen-
semus corno a nois,
Serv. Si Vissignoria si cun-
tentat, mandigo unu biculu de
pane e bio una tazza de inu,
poi so subitu a su cumandu
sou.
Padr. 5i cernente hapo pres-
se e devo andare foras de
domo, isculta pìima su qui ti
naro, e poi mandiga e bie
431
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara tutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli migliori;
tra i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
manchino né scodelle, né vas-
soj. Accomoda la credenza con
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Serv. E quali posate met-
terò in tavola ?
Padr. Prendi i cucchiai
d'argento, le forchette e i
coltelli col manico d' avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini siano
quelli di cristallo arrotato. Ac-
comoda poi intorno alla tavola
le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna.
Tu sai quanto é stucchevole
quella vecchia! Metti in ordi-
ne la camera buona, fa' riem-
pire il saccone e ribattere le
materasse. Accomoda il letto
cantu cheres.
Serv. Cumandel pMu.
Padr. Pi^o su pranzu qui
devimus fagher, prepara toUu
in sa sa li Ha noa Lea sa mezus
tiaza e sos frebbeuccos pius
bonos : de sos piaitos sebera
caddos de porcellana, e pro-
cura qui non bi manchent né
sos piatfos copudos né sas
soffattas. Pro sa fruita, pre-
para, uà, nughe, mendula,
dulches, confitiura e binu tm-
both'gliadu.
Serv E qualesposadashapo
a pòvere in iaula?
Padr. Lea sos cucciaris de
prata, e sas furchellas e sos
burteddos cun sa maniga de
avorio; e ammentadi qui sas
carroffìnas, sas tazzas e sos
calighes sient de cristallu ar-
rodadu. Pone poi in giru a
sa iaula sas mezus cadreas.
Serv. Del esser scrvida pun-
tualmente.
Padr. Ammentadi qui cnsiu
f^ero benit gìdj'i mia: tue ischis
cantu est mimulusa cussa ezza!
Pone in ordine sa mezus ca-
mera; faghe pienare su sac-
cone e iscuzulare sa tremata.
Prepara su letiu cun sos lon-
435
con lenzuola e federe le più
fini, e cuoprilo col zanzariere.
Empi la brocca di acqua, e
sulla catinella distendi un
asciugamano ordinario ed uno
fine. Fa' tutto in regola, e la
mancia non mancherà.
Serv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
folos e $as cobertas pius fines,
poi coberilu cum unu velu prò
sa zinzula. Piena sa brocca
de abbtty e in su lavamanu
pone un abbamanu ordinariu
e unu fine. Faghe tottu in
regula, e sas istrinas non fhant
a mancare.
Serv. In veridade Vissi-
gnoria m hai coniandadu me-
das cosas, ma hapo a fogher
tottu.
ANNOTAZiONI E OSSERVAZIONI ( JUAMMATIGALI.
* Il dialetto d'Usini fa parie del dialetto centrale o logufhrese,
^ Il dialetto logudorese e meridionale non ha veramente futuro
semplice. Quindi non si dirà: avrò, farò, verrò, saprà. . . ma convien
volgere la frase a questo modo: ho ad avere, ho a fare^ ha a ve-
nire^ ho a sapere.
436
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
ED UN SERVITORE.
Padrone. Ebbene, Bali-
sta, hai tu eseguite tutte le
commissioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino ;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città, ma
poi è piòvuto tanto I
Padr. Che al solito sei
stato a fare il poltrone in
un'osteria, per aspettare che
spiovesse 1 E perchè non hai
preso r ombrello?
Serv. Per non porta r quel-
l'impiccio; e poi jeri sera
quando andai a letto non pio-
veva più, se pioveva, pio-
veva pochissimo : stamani
quando mi sono alzato era lut-
to sereno, e solamente a leva-
ta di sole si è rannuvolato.
Più tardi si è alzalo un gran
vento, ma invece di spazzare
le nuvole, ha portato una gran-
TR.4DUZI0NE
NEL DIALETTO
DI SASSARI, i
Padronu. Ebbe, Battista,
hai fattu tutti li commissioni
chi f aggiu datu?
Servidori. Missignori. Li
possu assigurà d'esse istadu
puntuali^ quantu aggiu pò-
dudu. Stamani alli sei e un
quariu era già in vinggiu;
alli setti e mezzu era a midai
di lu camminu, e alli ottu e
tre quarti entraba in zittai;
ma poi ha piobidu tantu. . .
Padr. Chi a lu solilu sei
istadu a fa lu mandroni a
r osteria, pa ispittà chi finissi
di piuìÀ ! E palchi no hai
pigliadu lu paracqua?
Serv. Pa' non puìta ' chissu
imbarazzu : e poi arimani a
sera, quandu sogu andadu a
lettu, non piobia piti, o si
piobia,piobiapoghissimu. Sta-
mani, quandu mi sogu pisadu
era tuitu sirenu, e solamente,
air escida di lu soli, s'è an-
neuladu Poi sé pisadu un
gran/ ventu, ma inveci di dis-
sipa li nui, ha arrigadu un
437
dine che ha durato mezz' ora,
e poi acqua a ciel rotto.
Padb. Così vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto quasi
niente di ciò che ti avevo or-
dinato ; non è vero ?
Serv. Anzi spero che ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
Serv. Nel tempo che pio-
veva mi sono fermato in bot-
tega del sarto, ed ho visto
con questi miei occhi racco-
modato il suo soprabito con
bavero e fodere nuove ; la sua
giubba nuova, e i pantaloni
colle staffe erano finiti, e la
sottoveste stava tagliandola.
Padr, Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo, e il calzolajo, e
di questi non ne hai cercato?
Serv. Sì signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio, e non gli mancava
che orlare il nuovo. Il cal-
zolajo poi aveva terminati gli
stivali, le scarpe grosse da
caccia, e gli scarpini da ballo.
colpu di grandim chi ha du-
radu mezz ora, e poi eba a
dilluviu. -
Padr. Cosi vuoi fammi in-
tendi chi no hai faltu qxjbasi
nienti di lu chi f aggiu oidi-
nadUj no è veru?
Serv. Anzi isperu chi Vis-
signoria sarà cuntenta, quandu
cunnoscirà lu giru chi aggiu
fatta pa la zittai in dui ori,
Padr. Intendimu li to' va-
lenta.
Serv. Quandu piohia, mi
sogu filmadu in la butrèa di
lu droppèri, e aggiu vistu cun
V occi mei accomodadu lu so-
prabidu di Vissignoria cun lu
cullettu e la fodretta noba: lu
so' vestiri nobu e li pantaloni
cun li tiranti crani finidi, e lu
sottabidu Vera sistendi.
Padr. Taniu megliu. Ma
v' erani puru a poghi passi,
lu sumbreragiu e lucalzolagiu,
e quisti non V hai cilcadi ?
Serv. Sissignori: lu sum-
breragiu pulia lu sumbreri
vecciu di V. S e non li mancaba
che orizà lu nobi$. Lu calzo-
lagiu poi abia finidu li botti,
li scarpi grossi di cazza e li
scarpini di òaddu.
438
^ADR. Ma in casa di mio
padre quando sei andato ,
che questo era l'essenziale?
Serv. Appena spiovuto,
ma non vi ho trovato né suo
padre, né sua madre, né suo
zio, perchéjeri l'altro andarono
in villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno sarà stata
in casa?
Serv. No Signore, perchè
avevano fatta una trottata, ed
avevano condotto il bambino
e le bambine.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa ?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor
padre, la cameriera e due ser-
vitori erano con sua cognata, e
il cocchiere avendo avuto lor-
dine di attaccare i cavalli per
muoverli, se ne era andato col-
la carrozza fuori di città.
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
Serv. Non vi ho trovato
che il garzone di stalla, ed
a lui ho consegnate tutte le
lettere, perché le portasse a
Padr. Ma in casa di babbu
meju, quandu vi sei andadu,
chi quistu era ressenziaii?
Serv. Appena ha zissadu
di piolÀ; ma non v aggiu in-
contradu né lu babbu, né la
mamma, né lu ziu, palchi
innanzi d* arimani so andadi
in campagna, e vi so istadi
tutta la notti.
Padr. Mefradeddu^ però,
a lu mancu la mugleri sarà
istada in casa?
Serv. Nossignori , palchi
abiani fattu una trottala fora
di zittai, e s abiani pultadu lu
pizinnu e la pizinna.
Padr. Ma la selviiù era
tutta fora di casa?
Serv. Lu cuzineri era an-
dadu a campagna cun lu
babbu di V. S. e la camerera
e dui servidori crani cun la
cugnada, e lu carrozzeri,
abendi andu V oldini di attacca
li cabaddi, tantu di falli mobt
si nera andadu a trotta.
Padr. Dunca la casa era
bioda ?
Serv. Non v* aggiu incon-
tradu che lu galzofii di stalla,
e a eddu aggiu cunsignadu tutti
liJettari, palchi li pultessi a
439
chi doveva averle.
Padr. Merio male. E la
provvista per domani?
Serv. L'ho fatta : per mi-
nestra ho preso della pasta, e
intanto ho comprato del for-
maggio e del burro. Per ac-
crescere, il lesso di vitella,
ho preso un pezzo di castra-
to. Il fritto lo farò di cer-
vello, di fegato e di carciofi.
Per umido ho comprato del
majale, ed un' anatra da farsi
col cavolo. E sicicome non
ho trovato né tordi, né stame,
né beccacce, rimedieròeon un
tacchino da cuocersi in forno.
Padr. E del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perché costava po-
chissirao.Hocomprato sogliole,
triglie, razza, nasello e aliuste.
Padr. Cosi va benissimo.
Ma il parrucchiere non avrai
potuto vederlo?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, ga-
chi erani indirizzati.
Padr. Mancu mali. E la
provista pai dimani ?
Serv. Laggiù fatta : pai
minestra aggiu pigliadu pasti,
e intantu aggiu cumparadu lu
caxu^ e lu butiru. Par au-
menta lu buddidu di viteddu
aggiu pigliadu un pezzu di
castradu. La frittura /' aggiu
a fa di zalbeddi di. figadu e
di iscalzossa. Par umidu aggiu
cumparadu carri di majali, e
una anada da cuzissicun cauta.
E si cumenti no aggiu in-
contradu né ismurtidiy né
branizi, né beccacce v' aggiu
a rimedia cun un dindu vottu
in forru.
Padr. E pesdu non n' hai
cumparadu ?
Serv. Anzi n aggiu pigliadu
assai, palchi custaba poghis-*
simu. Aggiu cumparadu so*
gliele, triglia, razza, nasello
e aliusta.
Padr. Cosi anda benissimu.
Ma lu balberi non V haivistu?
Serv. Anzi, si cumenti la
so' butrèa è vizina alla butrèa
di ìu droghèri, in ui aggiu
fattu la provista di lu zuc-
440
rofani, cannella e cioccolata,
così ho parlato anche a lui.
PADR.Echenuovetihadate?
Serv. Mi ha detto che
r Opera in musica ha fatto
furore , ma che il ballo è
stato fischiato; che quel gio-
vine signore suo amico perde
r altra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire alla prima oc-
casione. Mi ha detto pure che
la signora Lucietta ha con-
gedato il promesso sposo, e ha
fatto giuramento di non voler-
lo più.
Padr. Gelosie.... questa si
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, è
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Papr. Per il pranzo che
caru, pèbaru, garofanu, cicu-
latti, COSI aggiu fabeddadu
ancora a eddu.
Padr. E chi notizi t'ha da-
du?
Serv. Mlia ditu chi l'Oba-
ra in musica ha failu furori,
ma chi In baddu Ihani fm-
sciadu; chi chiddu giobanu,
amigu di V.S ha pessu l'al-
tra sera, a lugiogu, tutti l'i-
scummissi, e chi abà ispitlaba
di paia alla prima occasioni.
M'ha ditu ancora chi la Si-
gnora Lucietta ha cungedadu
lu promissu isposu, e ha fattu
giuramentu di non vulellu piti.
Padr. Gelosia. . quistasi
chi mi fazi a ridi. Ma pinse-
mu abà a noi.
Serv. Si V S. si cwfitenia,
unagnu un pezzu di pani e bi-
gu una tazza di binu; e poi
torrn subitu a piglia li socu-
mandi.
Padr. Si cumenii aggiu
pressa e debu andà fora di
casa, da attenzioni prima a
lu chi ti digu, e poi magna e
riposa quantu ti piazi.
Serv. Cumandia puru.
Padr Pà lu pranzu chi
441
dobbiamo fare, prepara tutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli miglio-
ri; tra i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
manchino né scodelle, né vas-
soj. Accomoda la credenza con
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Skrv. e quali posate met-
terò in tavola ?
Padr. Prendi i cucchiai
d' argento, le forchette e i
coltelli col manico d' avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini sia-
no quelli di cristallo arrotato.
Accomoda poi intorno alla ta-
vola le seggiole migliòri.
Serv. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna. Tu
sai quanto è stucchevole quella
vecchia! Metti in ordine la ca-
mera buona, fa'riem pire il sac-
cone e ribattere le materasse.
Accomoda il letto con lenzuola
e federe le più fini,ecuoprilo col
zanzariere. Empi la brocca di
acqua, e sulla catinella disten-
di un asciugamano ordinario
debimu fa, prepara tuitu in
la più bedda sala. Piglia la
megliu tubaglia e li megliu
telzibucchi. Li piatii siani di
porcellana, e procura chi nm
manchiani né li piatti tondi
né li safatti. A la fruitxi non
vi manchia lua, nozi, menda-
la, dolzi, conditura e vini im-
bottigliadi.
Serv. E quali pusadi aggiu
a poni in taula?
Padr Piglia li cucciari di
praia e li fulchetti e li cui-
teddi cun lu manigu d' avorio ;
€ ammentadi chi li carr affini,
li lazzi e U calizini siani di
crisiallu arrodadu. Prepara
poi, in giru alla taula, li megliu
cadrei.
Serv. Sarà selvida puntuaU
mente.
Padr. Ammentadi chi ista-
sera veni gioja meia : tu sai
quantu è nojosa chissà veccia!
Poni in oldini la megliu ca-
mera ; fa piena lu saccoìii e
iscuzulà la tramnzza ; pre-
para lu lettu cun li linzoli e
li cubelti li più fini, poi cobrilu
cun un velu pa la zinzula.
Piena la brocca d' eba , e in lu
lavamanu lassavi un asciuga-
442
ed uno fine. Fa'tutto in rego-
la, e la mancia non niancherà.
Serv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
manu ordinariu e unu fini.
Fa tuUu in regula, e la mancia
non t' ha a manca.
Servì In veridai V. S.
m*ha cumandadu assai cosi,
ma aggiu a fa tutiu.
AVVERTENZE SUL DIALETTO DI SASSARI.
' Il dialelto di Sassari, a somiglianza del genovese e di altri
ancora, lascia l'ultima sillaba deiriniìnito, dicendo e$se', /a, amò, an-
dò^ veni, per essere fare, amare, andare, venire.
'L'è Goale italiana cambia generalmente in i: p. es. puntuale,
signore, amore, furore, fame, core, dice puntuali signori, amori,
furori, fami, cori.
' Molti osano, come in alcuni paesi del Pisano, di cambiare la
r \n l e viceversa ; p. es. pultà, filmi, sdvì, pall^ per portare, fir-
mare, servire, partire,
^ Le consonanti generalmente hanno suono dolc e: la t poi e la
Il doppia cambiano quasi sempre injl; p. es. fratello, amato, dato,
usato, andato, bello, sorella, dicono fradeddu, àmadu, dadu, usadu
andadu, beddu, suredda.
^ h'x nella parola caxu si pronunzia come j francese faime.
. j
443
DIALETTI DELL'ISOLA DI CORSICA
(ITALIA FRA^CESE)
CON ILLUSTRAZIONI ETNOLOGICHE.
La Corsica risveglia col suo nome il ricordo dei due
prodigii ai di nostri avvenuti ; Napoleone il più grande dei
contemporanei viventi , postosi alla testa dei Francesi,
costituenti la Nazione la più grande del mondo cono-
sciuto!
Chi ardisse accusare l'asserto di falsità o di esagera-
zione, resterebbe solennemente smentito dalla storia.
Ne spiace di additare l'antica Cyrnos distaccata dalla
patria naturale: è questo però il solo caso, nel quale un po-
polo vada immune dall'accusa xii ingrato, se si gloria di fra-
ternizzare con una nazione straniera, dimenticando quella
cui per natura appartiene ; e ciò anco in forza della tiranni-
de esercitata sull'Isola dai Genovesi.
Sorge la Corsica tra la Sardegna e le coste deiritalia-
na penisola, in vista della Francia e non lontanissima dall'Af-
frica; quindi bagnata dalle acque per le quali debbono ve-
leggiare molti dei navigli diretti a Levante o reduci da quei
paraggi: si può dunque far eco a ciò che ne scrisse lerudito
Jacobi, che in grazia delle preindicale condizioni la dichia-
rava colmata a dovizia dei doni della natura.
Senza ripetere le consuete vanissimo congetture sulla
provenienza dei primitivi abitanti, certo è che nel 494
di Roma, quando Cornelio Scipione prese d'assalto Alena
una delle più antiche città, godeva la Corsica assoluta indi-
pendenza, grazie al valore degli abitanti. Dai quali infatti fu
discacciato Scipione, e 23 anni dopo M. Claudio tornò all'im-
444
presa: che se C. Papirio li vinse, trovò in essi cosi vigoro-
sa resistenza, che Roma li accettò tra i confederati: poi li
assoggettò, perchè tre volte si ribellarono, e C. Mario ricorse
al consueto oppressivo compenso di dedurvi una Colonia che
fondò Mariana, e Siila ne pose un'altra in Aleria.
Fino air ultima crisi del vacillante Romano impero,
cui la Corsica apparteneva, essa dovè subirne le sorli: fu poi
invasa da Genserico al quale la ritolsero gli imperatori d'O-
riente. Sopravvennero più tardi i Longobardi costretti dai
Greci a ritirarsi: ma sorgeva intanto il maomettismo che dava
vita e grande audacia alla razza piratica dei Saraceni che
sparsi pel Mediterraneo commettevano ovunque trovavano
da approdare ogni genere di rapine. I discendenti di Carlo
Magno, ai quali nulla costava il donare terre usurpate, ten-
tarono di mettere la Corsica sotto la temporale autorità del-
la Chiesa; ma nò i Papi, né i Marchesi di Toscana potero-
no salvarla dalli sbarchi frequenti di quei ladroni, finché la
dominazione dei tre Ottoni non procacciò un poco di pace
all'Italia.
Nei primi anni del secolo XI i Baroni della Corsica,
seguendo l'esempio di alcune città Lombarde, si dichiararo-
no indipendenti; e i Comuni si emanciparono; quindi fazioni e
sangue finché nel 1347 si tenne una Dieta, nella quale i
Corsi si sottomisero volontari alla Repubblica Genovese. Ben
presto i nuovi padroni, distratti da gravi cure governative,
formarono dell'Isola un Feudo e ne investirono la Sodetà della
¥ao«a formata di 5 individui, tra di loro discordi in modo che la
Repubblica ritornò ai suoi diritti, collo spedirvi un Governa-
tore. Nella serie di questi Magistrati fu del Continuo distur-
bata la quiete pubblica da sommosse, e violenze, e torbidi
intestini. Fu forza dunque di ricorrere nel 1453alla riunione di
una dieta nazionale che fu tenuta in Morosaglia, la quale
credè provvido il partito il deferire la sovranità dell'Isola al-
445
la ben nota Compagnia di S.Giorgio, corpo politico genove-
se ricco e potente, non molto dissimile dalla Compagnia del-
le Indie orientali della Gran Brettagna.
La Compagnia discacciò prima di tutto gli Arragonesi,
che ritornarono nella Spagna; ma scorso appena un anno
spedi Batistino Doria a far man bassa su tutti i baroni e
i tirannelli dell'Isola; alcuni dei quali, come Raffaello Leca
opposero pertinace resistenza ma doverono poi tutti cedere,
e così la Compagnia dominò senza rivali. Senonchè venne
Genova in potere di Francesco Sforza Duca di Milano, che man-
dò nell'Isola un suo Luogotenente, cui i Corsi si sottoposero.
Succeduto Galeazzo a Francesco Sforza, presto cadde
sotto il pugnale di assassini, lasciando erede un fanciullo
sotto la tutela della Duchessa: dalla di cui debolezza traendo
partito il Campofregoso, uomo altiero, rapace, tirannico,
riesci a farsi cedere la Corsica dalla Reggente e fu solle-
cito di collegarsi col Leca, ma dovè presto rifugiarsi in Ge-
nova. Allora Rinuccio Leca pensò di rivolgersi al Signore
di Piombino Appiano IV, discendente dai Malaspina già Conti
di Corsica, il quale accettò e spedì nelllsola il fratello Ghe-
rardo, che ricevè il titolo di Conte di Corsica, prestando
giuramento di governare con giustizia.
Brevissimo fu il dominio dell' Appiani di Piombino, pre-
sto discacciato dalla Compagnia di S. Giorgio, e questo sol-
levò un governo insulare arbitrario e dispotico, che produsse
una rivoluzione non più politica ma morale. La vendetta
privata, considerata fino ai dì nostri come carattere speciale
dei Corsi, fino d'allora si naturalizzò dall'Isola, ma come
compenso alla mala amministrata o negata giustizia. Incomin-
ciò a spopolarsi in modo spaventoso il paese, per volonta-
ria espatriazione; e i reclami fatti ai Direttori della Com-
pagnia restarono sempre senza effetto, e non fruttarono che
vane promesse.
446
Quest ultimo riflesso storico mi conduce al risultato fina-
le delle mie etnologiche investigazioni sul carattere dei Corsi,
di cui in seguito terrò proposito. Tralascio dunque i ricordi,
ora inopportuni, e delle guerre di Sampiero, e del ridevole
episodio del Re Teodoro, Barone tedesco di Newkoff, e di
Pasquale Paoli, limitandomi a prender nota del possesso del-
la Corsica, presa dai Francesi colle armi nel maggio
del 1768. Corse ormai circa un secolo dacché quest'Isola
fu distaccata dall'Italia: la luminosa comparsa fatta poi da
non pochi personaggi corsi nel vasto campo della storia eu-
ropea, farà meglio comprendere qual grave perdita abbia
fatta l'Italia nel dover rinunziare al naturale possesso di
quesf Isola !
Abitanti. — È questo un «articolo di somma impor-
tanza, per la necessità di dover purgare dalla esagerata ac-
cusa dello straniero il carattere morale di questa famiglia di
orìgine italica. La quale vuoisi a ogni costo specificare, col
darle la trista divisa di una passionata proclività alle ven-
dette, senza aggiungere l'inseparabile riflesso sulle cause
politiche che dolosamente svolsero tra i Corsi quel germe.
Solo ne spiace, che per giustificare questi isolani, debbansi
accusare altri connazionali, i Genovesi cioè: senonchè la di •
fesa è consacrata a un popolo intiero, mentre la colpa ricade
non più sulla nazione ligure, ma sul Governo che la do-
minò nei trascorsi tempi; e i cattivi governi si trovarono
in ogni età, per flagello delle popolazioni.
Fino alla metà del secolo XIV erano celebrati i Corsi
per la loro attività, industria e prodezza nell'armi. Mala-
guratamente nel 1347 si diedero in accomandigia alla Re-
pubblica di Genova; avvenimento che venne accompagnato
dalla peste portatavi da un naviglio di bandiera Ligure: e
fu quello il primo dono funesto fatto ai bravi isolani da un
governo di forma repubblicana, e di massime più che ti-
447
Tanniche. Si svolse infatti indi a non molto il germe mici-
diale delle fazioni : il popolo si divise tra i Cagionacci ed
i Risfagnacci ; poi il francescano Giovanni die vita alla sella
dei Giovannali : ne conseguirono quelle frequenti rivolte, che
mai più si calmarono.
Frattanto non contenti i Governatori genovesi di oltrag-
giare la popolazione con insultante dispotismo, riescirono
nel dare effetto al più iniquo disegno che un tiranno im-
maginar possa, quello cioè di concedere impunità ai delitti
con arbitrario asilo dei rei, colla iniqua mira di eccitare
gli offesi alla vendetta ! È dunque un fruito pestifero della
genovese Oligarchia il maleagurato naturalizza mento della
vendetta in Corsica. L'impunità e T ingiustizia diedero ori-
gine alla costumanza, tuttora in qualche località mantenuta,
di conservare le armi e le spoglie sanguinose dei parenti o
amici assassinati, per mettere quegli oggetti sotto gli occhi
di altri congiunti o di allri amici ed eccitarli alla vendetta.
In ogni azione generosa continuarono i Corsi a dispiegare
fermezza, valore, amore patrio : ma l' iniquità di negar la
giustizia nei due secoli XIV e XV fece riguardare la ven-
detta come un diritto, un punto d' onore, un dovere sacro
di non lasciare impunite le aggressioni ! Quel falso principio
restò talmente radicato nell'animo dei Corsi, che fino a
questi ultimi tempi, e forse tuttora si solennizzano in al-
cune località le riconciliazioni, se ne stipula latto per mano
di notaro, indi si apre il sacro tempio per cantarvi il
Te Deum, È da sperarsi che il regime francese, cui l'isola
è soggetta, pervenga a spengere quei germi funesti : al-
lora il popolo Corso comparirà ovunque qual seppe con-
servarsi nel distretto di Bonifazio, ove le vendette sono de-
litto ignoto: quegli abitanti pacifici, tranquilli, laboriosi ed
onesti, offrono le conservate qualità del tipo italiano. Vuoisi
anzi notare che tra questi isolani si mantennero, ad onta di
UH
tante pubbliche sventure, nobilissimi principii di disprezzo
pel danaro e di amore all'indipendenza. Ne facciano fede
gl'ospiti stranieri, maravigliati che niuno abbia steso la
mano per domandar ricompensa dei servigi prestali, e che
non di rado sia ben anche stata rifiutata. Fino dai tempi
di Strabene erasi osservato, che i Romani non si curavano
di aver Corsi per loro schiavi ; ciò formando il loro elogio
per la nobile alterezza di mostrar repugnanza alla schiavitù,
siccome accade anche al dì d'oggi. Sulle pendici delle più
aspre montagne il paesano mena rozza vita ed è alquanto
superstizioso per ignoranza, ma fiero della libertà che vi
gode. In conclusione potrà tenere il Corso un posto distinto
fra i popoli inciviliti, tostochè avrà deposto al tutto il bar-
baro spirito della vendetta; poiché alla vigoria della persona
e alla prodezza nelle armi unisce disposizioni felicissime al-
l' opere dell' ingegno.
Altrettanto dicasi delle donne di Corsica : il loro tem-
peramento carattere non degenera dalle lodevoli qualità
del sesso maschile. Nei tempi antichi esse non erano sola-
mente pudiche, laboriose, prudenti, ma avevano anche il
pregio dell' intrepidezza. Pietro di Corsica ce le dipinge,
dame e paesane, disputanti di virtù sociali, sollecite negli
affari domestici. Nel celebre assedio con cui nel 1420 Al-
fonso V d'Arragona strinse Bonifazio, furono vedute le donne
armate di forche ferrate, combattere corpo a corpo col ne-
mico, al fianco dei loro mariti. Margherita Bobia postasi
alla difesa del baluardo dominante la porta, fece cadere in
pezzi le, prime scale a colpi di pietra. Le storie moderne
ci additano le Corse sempre valorose: nella guerra del 1768
il coraggio dell' armata fu vigorosamente secondato da por-
tentosi patriottici sforzi femminili Una madre che in quelle
guerre avea perduto il maggior figlio, ebbe 1' ardimento di
fare venti leghe a piedi per consegnare al Paoli V altro che
449
le restava, dichiarando di voler consacrare^ esso pure alla
difesa della patria. Chi viaggia per la Corsica spesso in-
contra vecchie e fanciulle a cavallo che viaggiano da un
paese all'altro con sorprendente franchezza: il Valéry, che
perlustrava l'isola nel 1833, narra che in una gita nella
quale aveva a compagno il Maire del Comune, incontrò la
di lui bella e giovine figlia a cavallo, seguita da donne di
servizio cavalcanti anch'esse, e con un figlio lattante in
braccio che mai gettò un grido : quel tenore di vita fino
dai più teneri anni deve per necessità contribuire alla vi-
goria delle fibre ed alla forza d'animo anche delle isolane:
solamente è da dolersi che esse pure partecipino con bar-
bara gioia allo spirito di vendetta.
Dialetti. — Il Sig. Valéry, che dedicò vari annj alia
erudita perlustrazione delle Italiane contrade, mentre cita
nella Corsica Guagno e Vico per la bontà dell' idioma che
vi si parla, e mentre loda il non corrotto francese che ado-
prano i Corsi, dichiara che il dialetto di queir isola è il
meno alterato ed il più intelligibile fra gli altri vernacoli
italici. Di questa asserzione giudichino pure a lor talento
quelli che abitano le diverse italiane contrade : avverto in-
tanto, che siccome il dialetto anche di una sola provincia
non è mai rigorósamente lo stesso in tutti i paesi che la
compongono, così riguardo alla Corsica mi procacciai pri-
mieramente la traduzione del consueto Dialogo nel verna-
colo degli abitanti di Corte, perchè luogo centrale in cui
meglio che altrove si è conservata l'antica e originaria
favella di quell' isolani : si vedrà in esso comunemente so-
stituita Xu alla 0, proprietà che si osserva nei primitivi
linguaggi italici : e il filologo vi potrà rimarcare eziandio
qualche forma di vetusto latino ; p. e. la preposizione indù
invece di in, come leggesi nei vetusti frammenti dì Lu-
cilio e di Ennio.
29
450
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
ED UN SERVITORE.
Padrone. Ebbene, Batista,
hai tu eseguite tutte le com-
missioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino ;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città; ma
poi è piovuto tanto!
Padr. Che al solito sei sta-
to a fare il poltrone in un'oste-
ria, per aspettare che spioves-
se! E perchè non hai preso
r ombrello ?
Serv. Per non portar quel-
l'impiccio; epoi jeri sera quan-
do andai a letto non pioveva
più, se pioveva, pioveva po-
chissimo: stamani quando mi
sono alzato era tutto sereno,
e solamente a levata di sole
si è rannuvolato. Più tardi si
è alzato un gran vento, ma
invece di spazzare le nuvole,
ha portato una grandine che
TRADUZIONE
NE L DIALETTO
CORSO DI CORTE.
Padrone. Dimi o Batti, ai
fattu e commissioni che f àciu
datu ?
Servitore. Ignor sì e b' as-
sicuru eh' io so sfaiu puntuale
più che ò possutu : stamane a
sei ore e un quartu caminau ;
e a seti' ore e mezza eru a
mità di strada, e alle ottu e
tre quarti entrau in città ;
ma è pioutu tantu !
Padr. Che si statu a fa u
poltrone indù n osteria per
aspettare che slanciasse; e
perchè u n ai pigliatu u pa-
racqua ?
Serv. Per un portare quellu
imhrogliu ; e poi en sera quan-
du mi n andedi a lettu un
piuiva più, se piuiva, piuiva
appena; stamane quandu mi
sonu alzatu era serenu ; al-
l' alzata di u sole sé annuulàtu;
più terdi $' è levatu un gran
ventu, ma in bece di portare
via % nuuli, a portatu una
grandine che è durata una
451
ha durato raezz' or?i, e poi
acqua a ciel rotto.
Padr. Così vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto qua-
si niente di ciò che ti avevo
, ordinato; non è vero?
Serv. Anzi spero che ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
Serv.NcI tempo che pioveva
mi sono fermato in bottega del
sarto, ed ho visto con questi
miei occhi raccomodato il suo
soprabito con bavero e fodere
nuove; la sua giubba nuova e i
pantaloni colle staffe erano fi-
niti e la sottoveste stava ta-
gliandola.
Padr. Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellaio e il calzolajo, e di
questi non ne hai cercato?
Serv. Sì signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio, e non gli mancava
che orlare il nuovo. Il calzolajo
poi aveva terminati gli stivali,
le scarpe grosse da caccia, e
gli scarpini da ballo.
Padr. Ma in casa di mio
mezz' ora eppoi acqua a [un-
tane.
Padr. E cusi boli fammi
capire di un n ave fatiu nulla
di quellu che t' aciu dettu :
né veru?
Serv. Speru anzi che sarete
cuntenlu quandu saperde u
giru eh' aciu fatto per a città
in due ore.
Padr. Sentimmu e tu pro-
dezze.
Serv. Per iuttu u tempu
che piuiva mi so fermatu in
bottea del seriore, aciu vistu
cui mie cechi arangiaia a
vostra flacchina cu u collettu
e frodere nove ; u vostru ve-
stitu turchino, e i calzoni coi
tiranti eranu finiti, e ujleccu
u tagliava.
Vadvì. Tantumegliu.Perchèun
si statu da u cappellaiu edau
scherparu che eranu a cantu;
e di queslu un n ai cercatu ?
Serv. Ignor si, anzi u
cappellaiu nettava u vostru
cappellu vecchiu e li mancava
di orlare u novu ; e u scher-
paru avea. finite e vostre botte
e i scherpi grossi pe a caccia
e e scherpine per u ballu.
Padr. Mo in casa di u mio
452
padre quando sei andato,
che questo era l'essenziale?
Serv. Appena spiovuto, ma
non vi ho trovato né suo padre,
né sua madre, né suo zio, per-
ché jeri r altro andarono in
villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno sarà stata
in casa ?
Serv. No signore, perchè
avevano fatta una trottata fuori
di città, ed avevano condotto
il bambino e la bambina.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa ?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor pa-
dre, la cameriera e due servi-
tori erano con sua cognata, e
il cocchiere avendo avuto l'or-
dine di attaccare i cavalli per
muoverli, se ne era andato col-
la carrozza verso Bastia.
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
Serv. Non vi ho trovato
che il garzone di stalla, ed#a
lui ho consegnato tutte le let-
tere, perché le portasse a chi
doveva averle.
babbu quandu si statu che era
ciò che m'importava?
Serv. Appena stando di
piove, ma un ci trovai né u
vostra babbu né a vostra
mamma, né ancu u vostru ziu,
perchè V altr' eri andederu in
campagna e si fermornu là a
durmire.
Padr. U mio fratellu però
a ro maglia almancu ci sera
stata in casa ?
Serv . Igniornòperchè aveano
fattu una (ruttata e aveanu
portatu u cirùcuh e e cirù-
cule.
Padr. Ma a servitù era tutta
fora di casa ?
Serv. U cucinaju era an-
datu in campagna in cu u
vostru babbu ; a cameriera cun
due servi erano in cu a vostra
cugnata, e u cucchiere avendu
avutu l'ordine di attaccare i ca-
valli per moverli se nera andatu
colla cherozza versu Bastia.
Padr. Dunque in casa un
e era nissumu?
Serv. Un ci aciu trovatu
che u gherzone di stalla, e a
ellu r aciu consegnatu tutte e
lettere perché e portasse a chi
e dovea avere.
453
Padr. Meno male. E la
provvista . per domani?
Serv. L' ho fatta : per
minestra ho preso della pa-
sta, e intanto ho comprato
del formaggio e del burro.
Per accrescere il lesso di vi-
tella, ho preso un pezzo di
castrato. Il fritto lo farò di
cervello, di fegato e di car-
ciofi. Per umido ho compra-
to del majale, ed un anatra
da farsi col cavolo. E sicco-
me non ho trovato né tordi,
né starne, né beccacce, ri-
medierò con un tacchino da
cuocersi in forno.
Padr. E del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perchè costava po-
chissimo. Hocomprato sogliole,
triglie, razza, nasello e aliuste.
Padr. Così va benissimo.
Ma il parrucchiere non l'avrai
potuto vedere?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e cioccolata,
così ho parlato anche a lui.
Padr. Mancu male. E a
prmsta per dumane ?
Serv. L' aciu fatta : pe a
minestra aciu pigliatu paste,
e intantu aciu compratu u
casdu e u butiru. Per cresce
u bullitu di vitella aciu cum-
pratu un pocu di castratu. U
frittu u feraciu di cervellu, di
featu e di artichiocchi. Per
V umidu aciu presu di u porcu
e un anatra che farò cu u
caulu; e siccome un n aciu
trovatu né torduli, né starne,
né beccacce, rimedieraciu cu
un gallinacciu che u cocerò in
di u fornu.
Pabr. Di i pesci ne ai cum-
pratu ?
Serv. Ignior à, ne aciu pi-
gliatu molta perchè costava
pochinu. Aciu cumpratu so-
gliole, triglie, razza, nasellu e
aliguste.
Padr. Bene via. Ma u pi-
luccheru un V ai pututu vdè?
Serv. Anzi, siccome ha a
bottea accantu a quella di u
droghieru, indue aciu cumpratu
zucchera, peveru, garofani ,
cannella e cioccolata, e cum
aciu parlatu ancu a ellu.
29*
454
Padr. e che nuove ti ha
date?
Serv. Mi ha detto che
r opera in musica ha -fatto
furore, ma che il ballo è stato
fischiato; che quel giovine si-
gnore suo amico perde l'altra
sera al giuoco tutte le scom-
messe, e che ora aspettava
di partire colla diligenza per
Ajaccio. Mi ha detto pure che
la signora Lucietta ha congeda-
to il promesso sposo, e ha fatto
giuramento di non volerlo più.
Padr. Gelosie.... questa sì
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara tutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli miglio-
ri; tra i piatti scegli quelli di
Padr. E che nutizie t'ha
datu?
Serv. M' ha dettu che a cu-
media in musica Jia fattu fu-
rorBf m^a u ballu è statu fi-
schiatu; che quel giovinottu
vostru amicu a sera l altra
perse tutte e scommesse a u
jocu, e che appettava per per-
tire cu a diligenza per Ajacciu.
M ha dettu ancoraché a signora
Lucietta ha datu u congedu a
u promessu sposu, e ha fatiu
juramentu di un lu vedere più.
Padr. Gelusie. . . questa sì
che mi fa ride, ma pensiamo
a noi.
Sevr. Si bo vi cuntentate,
mangiu un pocu di pane e
beju un vicchieru di vinu e
vengu subitu a pigliare i vostri
cumandi.
Padr. Sai che aeiu furia e
deu andare fora di casa ; senti
primxi cosa t' ordinu, e dopu
mangierai e ti riposerai quantu
ti piacerà.
Serv. Dite puru.
Padr. Per u pranzu che
avemmu da fare, acconcia tuttu
indù solottu più bellu, piglia a
tuaglia e i tuaglioli più fini;
tra i piatti scegli quelli di
455
porcellana, e procura che non
manchino né scodelle, né vas-
soj. Accomodala credenza con
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Serv. e quali posate mat-
terò in tavola ?
Padr. Prendi i cucchiai
d'argento, le forchette e i
coltelli col manico d' avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini sia-
no quelli di cristallo arrotato.
Accomoda poi intorno alla ta-
vola le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna. Tu
sai quanto è stucchevole quella
vecchia! Metti in ordinala ca-
mera buona, fa'riempire il sac-
cone e ribattere le materasse.
Accomoda il letto con lenzuola
e federe lepiùfini,ecuoprilocol
zanzariere. Empi la brocca di
acqua, e sulla catinella disten-
di un asciugamano ordinario
ed uno fine. Fa'tutto in rego-
la, e la mancia non mancherà.
Serv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
porcellana e precura che non
manchi né scodelle né bantiere.
Arangia a credenza in cu e
frutte, uva, noci, amandule,
confetti e buttiglie.
Serv. E e posate, quali aciu
da mette in taula ?
Padr. Piglia i cucchiari
d' argentu e i cultelli in cuu
manicu d' aoriu, e ricordati e
caroffe e i vicchieri e i vie-
chierini sianu di cristallu arro-
tata. Arangiq poi intorno a a
taula e cheree e più bone.
Serv. Sarete servitù cun
tutta a puntualità.
Padr. Ricordati che stasera
bene Caccara. Tu u sai quantu
ella stucca ! metti all' ordine
a camera megliUj fa empie u
saccone e ribatte e strapunte.
Fa u lettu cu e lemsolaeascionie
più fini e coprilu in cu u zin-
zaliere. Empi a dar cita d ac-
qua y e sopra u bacile stendi un
asciugamanu ordinarìu e unu
fine : fa tutte e cose in regula,
e a mancia un ti sarà per
mancare.
Serv. A dire u veru m'avete
ordinatu tante cose, ma fero
tutta.
456
DIALETTO D« AJACCIO.
Feci già l'avvertenza, che in Vico e Guagno si parla Vita-
liano meglio che altrove. Vico è una piccola e antica città
dedita all'industria per quanto lo 4)ermette la condizione del
paese: noterò anzi per incidenza che in quel convento di
S.Francesco, ora cadente in rovina, fece i suoi studi elemen-
tari il celebre Conte Pozzo di Borgo. Sulla strada da Vico a
Guagno trovansi le rovine del castello di Zurlina, luogo storico;
e nel fiume di Amone gli avanzi di altra rocca già appartenente
all'illustre Gio. Paolo di Leca. Ed anche in Sari restano in
piedi due castelli già posseduti dal ricco e potente Rinuc-
ciò di Leca: anzi a breve distanza giacciono le rovine di
Rocca Tagliata, cagione un tempo di aspre guerre tra i Le-
ca e i Genovesi. Da tutto ciò sembra di poter dedurre, che
in quel distretto siasi conservato meglio che altrove il pri-
mitivo linguaggio italiano, perchè i predetti Leca, acerrimi
difensori della indipendenza patria, non vollero promiscuan-
ze con famiglie straniere. Ma Vico è luogo principale di uno dei
cantoni costituenti il circondario d'Ajaccio; e questa città,
capoluogo della Corsica, fu pure il paese nativo di Napoleo-
ne il Grande ; quindi ragion voleva che si scegliesse il ver-
nacolo di Ajaccio nella traduzione del seguente Dialogo.
457
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
BD UIC SERVITORE.
Padrone. Ebbene, Bati-
sta, hai tu eseguite tutte le
commissioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino ;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città, ma
poi è piovuto tanto !
Padr. Che al solito sei
stato a fare il poltrone in
un' osteria, per aspettare che
spiovesse ! E perchè non hai
preso r ombrello?
Serv. Per non portarquel-
r impiccio; e poi jeri sera
quando andai a letto non pio-
veva più, se pioveva, pio-
veva pochissimo : stamani
quando mi sono alzato era tut-
to sereno, e solamente a leva-
ta di sole si è rannuvolato.
Più tardi si è alzato un gran
vento, ma invece di spazzare
le nuvole, ha portato una gran-
TRADUZIONE
NEL DIALETTO
D'AJACCIO.
Patroni. Ebbeni, o Batti,
hai fatlu tutti i commissioni
chi t'achiu dati?
Servu. Urne Signori vipossu
accirtà di esse statu puntuali
quantu achiu pututu. Stamani
a sei Ole e un quartu erujà
in caminu ; a i setti e mezzu
eru a mità strada, ed a ottu
e tre quarti intrava in cita ;
ma poi è piuvutu tantu !
Patr. e chi auto soìitu si
statu afau pultroni in un usta-
ria per aspiltà chi stanciassi
di piova ? E perchè nun hai
pigliatu Vumbrelu?
Serv. Per nun purtà quel-
limpicdu; e poi eri sera qundu
andai in lettu nun piuvia piti,
si piuvia, piuvia puchissimu.
Stamani quandu mi sogn al-
zatu era tuttu sirenu, e sula-
menti a livatadi soli s'è tur-
natu a annuvulà. Più tardi
s'è livatu un gran ventu, ma
inveci di scaccia li nuvuli, ha
purtatu una grandini ch'è du-
458
dine che ha durato mezz' ora,
e poi acqua a ciel rotto.
PÀDR. Così vuoi farmi ìq-
tendere di non aver fatto quasi
niente di ciò che ti avevo or-
dinato ; non è vero ?
Serv. Anzi spero che ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr. SentianQo le tue pro-
dezze.
Serv. Nel tempo che pio-
veva mi sono fermato in bot-
tega del sarto, ed ho visto
con questi miei occhi racco-
modato il suo soprabito con
bavero e fodere nuove ; la sua
giubba nuova, e i pantaloni
colle stafiFe erano finiti, e la
sottoveste stava tagliandola.
Padr, Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo, e il calzolajo, e
di questi non ne hai cercato?
Serv. S\ signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio, e non gli mancava
che orlare il nuovo. Il cal-
zolajo poi aveva terminati gli
stivali, le scarpe grosse da
caccia, e gli scarpini da ballo.
rata mezzora, e poi è piuvu-
lu ad acqui fraghi.
Patr. Cusi voi dammi a
capì di nun ave fa tlu quasi
nienti di quantu t'avio ordina-
tu; un né veru?
Serv. Anzi speru chi sare-
ii cuntentu, quandu sapareti
u jiru ch'aghiu fatta per cita
in dufore.
\ Patr. Sentimi i toprudezzi.
Serv. In lu tempu chi più-
via mi so firmatu in buttega
di lu sartori, ed achiu vistu
cun quist occhi accunciata la
vostra flacchina cun cullettu e
fodari novi : la vostra jàcchetta
nova e li calzoni cu li staffi
eranu finiti, « lu jilecco lu
tagliava.
Patr. Tantu megliu. Ma
avii ancu a pochi passi u cap-
pillaru e n scarparu e di quisti
nun ìli hai circatu?
Serv. Signorsì : u cappillaru
ripassava u vostru cappellu
vecchiu, e nun li ristava piti
chi a orla u novu. U scarpaio
avia finiti i botti, % scarpi
grossi da caccia, e i scarpini
da ballu.
459
Padr. Ma in casa di mio
ire quando sei andato ,
che questo era l'essenziale?
Serv. Appena spiovuto,
ma non vi ho trovato né suo
padre, né sua madre, né suo
zio, perché jeri l'altro andarono
in villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno sarà stata
in casa?
Serv. No Signore, perchè
avevano fatta una trottata, ed
avevano condotto il bambino
e le bambine.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor
padre, la cameriera e due ser-
vitori erano con sua cognata, e
il cocchiere avendo avuto l'or-
dine di attaccare i cavalli per
muoverli, se ne era andato col-
la carrozza verso Bocognano.
Padr. Dunque la casa era
vuota?
Serv. Non vi ho trovato
che il garzone di stalla, ed
a lui ho consegnate tutte le
lettere, perché le portasse a
Patr. Ma in casa di bapu
quandu si andatu chi quistu
era l'issinziali?
Serv. Appena è slanciata
r acqua, ma un ci aghiu tru-
vatu ni vostru bapu, ni vostra
Mammay ni vostru ziu, percKi
l altro jornu son andati in
campagna, e ci hannu durmitu.
Patr. Me fratellu però e a
so mogli almenu sarà sfata in
casa?
Serv. Signornò parchi avia-
no fattu una (ruttata, e avianu
purtatu lu zitellu e la zitella.
Patr. Ma li servi eranu
tutti fora di casa?
Serv. U cucinaru era an-
datu in campagna cun vostru
bapu, la cammariera e dui
sei'vi eranu cun vostra cugna-
ta, e lu cucchieri avendu avu-
tu l'ordini di attacca li caval-
li per falli passià si nera
andatu cu a carrozza ver su
Bucugnanu-
Patr. Dunqui a casa era
biota?
Serv. Nun ci aghiu truva-
tu chi hi garzoni di stalla,
ed aghiu cunsignatu tutti li
lettari ad ellu parchi ellu i
460
chi doveva averle.
Padr. Meno male. E la
provvista per domani?
Serv. L'ho fatta : per mi-
nestra ho preso della pasta, e
intanto ho comprato del for-
maggio e del burro. Per ac-
crescere il lesso di vitella,
ho preso un pezzo di castra-
to. Il fritto lo farò di cer-
vello, di fegato e di carciofi.
Per umido ho comprato del
majale, ed un' anatra da farsi
col cavolo. E siccome non
ho trovato né tordi, né starne,
né beccacce, rimedierò con un
tacchino da cuocersi in forno.
Padr. E del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perchè costava po-
chissirao.Hocomprato sogliole,
triglie, razza, nasello e aliuste.
Padr. Cosi va benissimo.
Ma il parrucchiere non avrai
potuto vederlo ?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e cioccolata,
così ho parlato anche a lui.
purtassi a chi li duvia ave.
Patr. Menu mali. E lapru-
vista per dumani ?
Serv. L' aghiu fatta : per a
minestra aghiu pigliatu pasta,
e intantu aghiu cumpratu fur-
magliu e butiru. Per cresce lu
btdlitu di vitella^ aghiupigliatu
unpezzu di castratu. Lufrittu
lu farachiu di cirvelliy di fegatu
e d'artichiocchi. Per Vavcomudu
aghiu cumpratu machiali e un
anitra per falla cu lu carbusciu,
e siccumi nun aghiu truvatu ni
tordudi, ni stami, ni biccaz-
zi rimidiarachiu cun un gal-
linacciu da cocesi in lu fornu.
Patr. E pesciu nun ni hai
cumpratu?
Serv. i4 nzi ni aghiupigliatuin
quantità,perchi cvstava puchis-
simu. Aghiu cumpratu sogliule,
irigliy razza, nasellu e ligusti.
Patr. Cusx va binissimu.
Ma lu pirucchieri nun l'avarai
pututn vedi?
Serv. Anzi siccumi ha la
buttega accantu a quilla di lu
marcanti di cumistibili du-
v' aghiu fattu pruvista di zuc-
caru,pevaru,garofani, cannella
e cicculata, cusi aghiu parlai u
ancu ad ellu.
461
Padr . e che n uo ve ti ha date?
Serv. Mi ha detto che
r Opera in musica ha fatto
furore , ma ch'é il ballo è
stato fischiato; che quel gio-
vine signore suo amico perde
r altra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire colla diligenza
per Bastia. Mi ha detto pure che
lasignoraLucietta ha congeda-
to il promesso sposo, e ha fatto
giuramento di non volerlo più.
Padr. Gelosie.... questa sì
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai é ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara jtutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli migliori;
tra i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
Patr. e chi nutizie t'ha dati?
Serv. M'ha dittu chi l'ope-
ra in musica ha fattu furori,
ma chi lu ballu è statu fischia-
tu ; chi quillu giovanu signo-
ri vostru amicu ha persu l'al-
tra sera a ujocu tutti li scum-
messif e chi ora aspittàva di
partì cu la diligenzaper Bastia.
M' ha dettu dinò chi la signora
Luciuccia ha licenziatu lu so
prumessu sposu ed ha ghiu-
ratu di nun vulellu più.
Patr. Gilusie. . . quista sì
chi mi face ridi Mapinsemu
or à noi.
Serv. Se séti cuntentu, man-
ghiu un pocu di pani e biu
un bicchieri di vinu, e poi so
subitu a li vostri cumandi.
Patr. Siccumi aghiu furia
e devu andà fora di casa,
senti prima cosa /' ordinu e
poi manghiarai e ti ripusarai
quantu ti piaciarà.
Serv. Cummandati puru.
Patr. Per lu pranzu eh' a-
vemu da fa, pripara iuttu in
lu salottu bonu. Piglia la tu-
vaglia e i tuvaglioli più boni :
tra i piatti scegli quilli di
purzillana e guarda chi nun
462
manchino né scodelle, né vas-
soj. Accomoda la credenza con
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Serv. e quali posate met-
terò in tavola ?
Padr. Prendi i cucchiai
d'argento, le forchette e i
coltelli col manico d' avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini siano
quelli di cristallo arrotato. Ac-
comoda poi intorno alla tavola
le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà servita
.puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta seì"à viene mia nonna.
Tu sai quanto è stucchevole
quella vecchia! Metti in ordi-
ne la camera buona, fa' riem-
pire il saccone e ribattere le
materasse. Accomoda il letto
con lenzuola e federe le più
fini, e cuoprilo col zanzariere.
Empi la brocca di acqua, e
sulla catinella distendi un
asciugamano ordinario ed uno
fine. Fa' tutto in regola, e la
mancia non mancherà.
Serv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
manchinu ni piatti a suppa ni
guanteri. Acconcia la evidenza
cun frutti, uva, noci, amanduli,
dolci, cunfitturi, e buttigli.
Serv. E chi pusati mitto-
rachiu in tavula?
Patr. Piglia icucchiaridar-
gentu e i cuUelli cu lu manicu
d'avoriu; e ricordati chi li ca-
ra/fi, i bicchieri e % bicchirini
sianu quilli di vetru arrutatu.
Acconcia poi intornu a la ta-
vula i migliò seda.
Serv. Sareti servitù a pun-
tinu.
Patr. Ricordati chi stasera
veni minnonna. Tu sai quantu
quista vecchia èspizzicaghiola!
Metti alVoì^dini a camara bo-
na, fa empie u sacconi e batti
i strapunti. Fa lu letta cu i
linzoli e li ascùmii più fini e
coprilu cu a zinzalera. Empi
u misciarolu d'acqua, e stendi
sopra u bazzi un asciuvamanu
ordinariu ed unu fini. Fa tuttu
in regula e a mancia un ti
pò manca.
Serv. M'ai^eti urdinatu da
veni molti cosi, ma farachiu
tuttu.
46à
ANNOTAZIONI SULL'ORTOGRAFIA E LA PRONUNZIA
DEL DIALETTO DI AJACCIO.^
Nel dialetto ajaccino si impiega l'i invece dell' e anche ai sin-
golare ; r u, invece deli' o, il t invece del d, e negli articoli si sop-
prime quasi sempre Y e : si dice per esempio u pani per il pane.
Nel verbo essere si dice soghu per sono, nei verbi andare
amare ec. si dice amu, vane^ amarachiu, andarachiu, per amo, vado,
amerò, andrò ec.
464
DIALETTO DI BASTIA.
Bastia è così prossima al littorale toscano, da merita-
re una speciale indagine sul vernacolo in essa usato. Frequen-
tissima e quasi continuata è la comunicazione dei Livorne-
si con quei di Bastia, principalmente per ragioni com-
merciali. A ciò si aggiunga che Bastia è città ragguar-
devole, situata in forma di anfiteatro sul pendìo d'una mon-
tagna in mezzo a giardini di olivi, di aranci e di cedri; e
dalla parte del mare specialmente presenta un pittorico col-
po d'occhio. Questa città possiede un Teatro, nel quale in
alcune stagioni dell'anno vengono rappresentate Opere in
musica da cantanti che provengono ordinariamente dalla Tos-
cana, e questa pure è una delle occasioni di comunanza fra
il popolo di Bastia ed i Toscani.
È da notarsi intanto che il dialetto di Bastia è un- mi-
scuglio di voci toscane, francesi, genovesi e di Corte. Elide
il popolo le ultime sillabe, e non usa quasi mai la o sosti-
tuendole la u; come assai spesso la i tien luogo della e.
Il suono delle vocali è sempre molto stretto. La lettera che
ha un suono tutto particolare è il g, il quale viene pronun-
ziato con un' emissione di voce che tiene il mezzo tra il
suono naturale ordinario di quella lettera e la j: così Giu-
seppe, Giulebbe, si pronunzierebbero tra Ghiseppe e Juseppe,
Giuleppu e Juleppu. Anche il e si prnunzia con un suono
bastardo tra quello del eh e del ci; così orecchia si pronun-
zia con una voce che tiene il mezzo tra orecchia e oreecia.
L'ultima sillaba degli infiniti non si pronunzia mai: p. e. can-
tare, andare, suonare, si pronunziano canta, andà, suona.
Finalmente il v poco si usa essendo surrogato dal b; bento
per vento.
465
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
ED UN SERVITORE.
Padrone. Ebbene, Batista,
hai tu eseguite tutte le com-
missioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in città ; ma
poi è piovuto tanto!
Padr. Che al solito sei sta-
to a fare il poltrone in un'oste-
ria, per aspettare che spioves-
se! E perchè non hai preso
r ombrello ?
Serv. Per non portar'quel-
rimpiccio; epoi jeri sera quan-
do andai a letto non pioveva
più, se pioveva, pioveva po-
chissimo: stamani quando mi
sono alzato era tutto sereno,
e solamente a levata di sole
si è rannuvolato. Più tardi si
è alzato un gran vento, ma
invece di spazzare le nuvole,
ha portato una grandine che
TRADUZIONE
NEL DIALETTO
DI BASTIA.
Padr. Ebbe, Batti, hai fatta
è cummissioni chi t'aghiu datu?
Serv. Sciò po' sta sicuru
eh* 60 so statu puntuale più
eh' aghiu pututu. Sta matina
a le sci e un quertu, era già
in motu; a le sette e mezzu,
era a rnezza strada, e a ott'ore
e tre querti, entrava in città.
Ma dopu è piuvitu tantu!
Padr. Né ? chi saresti statu
a lu solitu a fa u pultrone in
quakhosteriaper aspetta chel-
lu slanciassi ? Perchè un n'hai
pigliatu lu paracqua ?
Serv. Un l a^hiu pigliatu,
per un n ave quell impicciu
e pò eri sera quandu andai a
lettu un piuvia più o si pur
piuvia, era poca cosa: sta mane
quandu mi so rizzatu era tuttu
serenu, e solamente a levata
di sole, s'è annuvulatu. Più
terdi s' e mossu un gran bentu,
ma a loghu di spazza i nuvu-
liy ha purtatu una grandine
30
466
ha durato mezz' ora, e poi
acqua a ciel rotto.
Padr. Così vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto qua-
si niente di ciò che ti avevo
ordinato; non è vero?
Serv. Anzi spero che ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per città
in due ore.
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
Serv .Nel tempoche pioveva
mi sono fermato in bottega del
sarto, ed ho visto con questi
miei occhi raccomodato il suo
soprabito con bavero e fodere
nuove; la sua giubba nuova e i
pantaloni colle staffe erano fi-
niti e la sottoveste stava ta-
gliandola.
Padr. Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo e il calzolajo, e di
questi non ne hai cercato?
Serv. S\ signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio, e non gli mancava
che orlare il nuovo. Il calzolajo
poi aveva terminati gli stivali,
le scarpe grosse da caccia, e
gli scarpini da ballo.
Padr: Ma in casa di mio
ch!è durata mezzora, e pò
acqua a fiumi.
Padr. E cus% tu boli dammi
a intende d'un nave fattu quasi
niente di quellu ch'io travia
cummandatu?
Serv. Eo anzi spera chi
sciò sera cuntentu quandu sciò
sapere u giru cKojghiu fattu
pela città in dufore,
Padr. Sentimu le to' bravure.
Serv. In lu tempuchipiuvia,
mi si fermatu in buttèa di lu
seriore e aghiu bistu cui mio
proprj occhi arrangiatu a so
flacchina cu lu cullettu e le fro-
dere nove: il so bestitu novu
e u pantalone cui suppié erano
finiti, e lu gilè stava taglien-
dulu.
Padr. Tantu megliu. Ma
aviépuru a pochi passi u cap-
pellaru e lu scherparu : da
questi un ci si statu?
Serv. Signor s%. Ucappel-
laru ripulia ù $ò cappellu bec-
chiù, e un li mancava che d'&i'là
u novu. U scherparu poi avia
finitu le botte, i scherpi grossi
pè la caccia, e le scherpine da
ballu.
Padr. Ma in casa di papà
467
padre quando sei andato,
che questo era l'essenziale?
Serv. Appena spiovuto, ma
non vi ho trovato né suo padre,
né sua madre, né suo zio, per-
chè jeri r altro andarono in
villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno sarà stata
in casa ?
Sbrv. No signore, perchè
avevano fatta una trottata fuori
di città, ed avevano condotto
il bambino e la bambina.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa ?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor pa-
dre, la cameriera e due servi-
tori erano con sua cognata, e
il cocchiere avendo avuto l'or-
dine di attaccare i cavalli per
muoverli, se ne era andato col-
la carrozza verso Bastia.
Padr. DunquQ la casa era
vuota ?'
Serv. Non vi ho trovato
che il garzone di stalla, ed a
lui ho consegnato tutte le let-
tere, perché le portasse a chi
doveva averle.
Padr. Meno male. E la
quandu ci si andatu^ che era
V essenziale ?
Serv. Appena stanciatu, ma
nun ci aghiu truvatu né lu so
papà né la so mammà né lu
so ziu, perché l'altr eri andanu
in campagna e ci hanu dur-
mitu.
Padr. U mio fratellu però
la so moglia alnfienu sera
stata in casa?
Serv. Signor nò, perchè
avianu fattu una (ruttata, e
avianu purtatu cun elli u zi-
tellu e la zitella.
Padr. Ma la sermtù era
tutta fuori di casa ?
Serv. U cucinaru era an-
datu in campagna cu lu so pa-
pà; a camerera e i dui servi
eranu cu la sa cugnata, e u coc-
chiere avendu avutu l'ordine
d'attacca li cavalli per falli fa
un pò di motu, si nera anda-
tu a trutta.
Padr. Dunque la casa era
hiota?
Serv. Un ci aghiu truvatu
che lu glierzone di stalla e é
ad ellu ch'aghiu cunsegnate tut-
te le lettere per cK ellu le par-
lassi a chi le duvea ave.
Padr. Menu male. E le prò-
m
provvista per domani?
Serv. L' ho fatta : per
minestra ho preso della pa-
sta, e intanto ho comprato
del formaggio e del burro.
Per accrescere il lesso di vi-
tella, ho preso un pezzo di
castrato. Il fritto lo farò di
cervello, di fegato e di car-
ciofi. Per umido ho compra-
to del majale, ed un anatra
da farsi coi cavolo. E sicco-
me non ho trovato né tordi,
oè starne, né beccacce, ri-
medierò con un tacchino da
cuocersi in forno.
Padr. e del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perchè costava po-
chissimo. Ho comprato so-
gliole, triglie, razza, nasello e
aliuste.
Padr. Così va benissimo.
Ma il parrucchiere non l'avrai
potuto vedere?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
vista di zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e cioccolata,
così ho parlato anche a lui.
PADR.Echenuove ti badate?
viste p&i' dumane?
Serv. So fatte: per mine-
stra aghiik pigliatu pasta, ein-
tantu aghiu cumpratu furmo-
gito e butiru. Per cresce lu
lessu di bitella aghiu pigliaiu
un pezzu di castratu. CI frit-
tu u feraghiu di cerbellu, di
fegatu e di artichiocxihi : per
umidu aghiu cmnpratu majale
e un anatra da fassi cu lu
cavulu : e siccome un n aghiu
truvatu né tordi, né starne, né
beccacce, rimsdieraghiu oun un
gallinacciu da cocesi in lu
fornu.
Padr. E pesce un n hai
cumpratu ?
Serv. Anzi n aghiu pigliata
in quantità perchè costava po-
chissimu. Aghiu cumpratu so-
gliole, triglie, razza, nasellu e
aliguste.
Padr. Cusì va benissimu.
Ma lu piluccheru, nun V hai
pudutu bede?
Serv. Anzi siccunie la so
buttèa è accantu a quella di
lu drughere duve aghiu fattu
pruvista di zucchera, peveru,
garofani, cannella e doccukUa,
COSI aghiu par latu a/nch'adellu.
Padr, E chi nuove t'hadatu?
469
Serv. Mi ha detto che
r Opera ia musica ha fatto
furore , ma che il ballo è
stato fischiato; che quel gio-
vine signore suo amico perde
r altra sera al giuoco tutte le
scommesse, e che ora aspet-
tava di partire colla prima
occasione. Mi ha detto pure che
la signora Lucietta ha congeda-
to il promesso sposo, e ha fatto
giuramento di non volerlo più.
Padr. Gelosie.... questa sì
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Padr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
dobbiamo fare, prepara tutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli migliori ;
tra i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
manchino né scodelle, né vas-
Serv. M'ha detiu che l'Ope-
ra in musica, ha fattu furorey
ma chi lu balìu è statu fi-
schiatu; chi quelh giovonu
signoru amicu di signoria, per-
dì l'altra sera a lujocu tutte le
scùmesse, e cK ora ^tia di
perte cu la prima occasione.
M'ha pura dettu chi la signora
Lucietta ha licenziatu lu so
innamuratu e ha juratu di un
bedelu mai più.
Padr Jelusie, . . questa si
chi mi face ride : ma pensemu
a noi.
Serv. Si sciò si ountenta,
mangiù un morsu di pane, e
bqu un sorsu di binu, e tor-
nu subitu ù, piglia li so or-
dini.
Padr. Siccome aghiu furia
e devu andà fuori di casa, sen-
ti prima cosa ti ordinu, e poi
manjerai e ti riposerai quantu
ti piacerà.
Sfrv. Sciò dica.
Padr. Pe lu pranzu di'ave-
mu da fa, prepara tuttu in
lu salottu bonu. PiffHa la tu-
vaglia e i tuvaglioli più belli :
tra li piatti, sdegli qtteUi di
purzellana: e prucura eh un
manchinu né seudelle né bas-
so*
470
soj. Accomoda la credenza con
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Serv. e quali posate met-
terò in tavola?
Padr. Prendi i cucchiai
d'argento, le forchette e i
coltelli col manico d'avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini siano
quelli di cristallo arrotato. Ac-
comoda poi intorno alla tavola
le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna.
Tu sai quanto è stucchevole
quella vecchia! Metti in ordi-
ne la camera buona, fa' riem-
pire il saccone e ribattere le
materasse. Accomoda il letto
con lenzuola e federe le più
fini, e cuoprilo col zanzariere.
Empi la brocca di acqua, e
sulla catinella distendi un
asciugamano ordinario ed uno
fine. Fa' tutto in regola, e la
mancia non mancherà.
Serv. Per verità ella mi
ha ordinato molte cose, ma
farò tutto.
so». Arrangia la credenza cu le
frutte, uva, nod, amandule dol-
ci, confetture e bini in bottiglie.
Serv. Chi posate metterà-
ghia in tavula?
Padr. Piglia li cucchiari
d'arigentu, le furcine e i cultelU
cu lu manicu d*avoriu, e ri-
cordati chi le buttiglie e i bic-
chieri siano quelli di ctHstallu
arrotatu. Arrangia poi intornu
la tavula e seggiule più belle.
Serv. Sciò sarà servitù
puntualmente.
Padr. Ricordati chi sta sera
bene mamma-^ara. Tu sai
quantu ella è fastidiosa l Pre-
parali la più bella camera,
fa riempie lu saccone e batte
li materassi. Fa lu lettu cu
le lenzole e asdonie le più
fini e coprilo cu la $ò zanzie-
rera. Empi la poi à eau e
sopra la curette distenti un
asciugamano ordinariu e unu
fine. Fa tuttu in regula, e
nunti mancherà lu io bellu
rigalu.
Serv. Per di lu beru, sciò
mha ordinatu molte cose, ma
sera fattu tuttu.
474
DIALETTO DELL^ELBA.
CON ILLUSTRAZIONI ETNOLOGICHE.
Se per convenzione stabilita tra i più illustri Geografi,
diverse isole di varia estensione, così vicine da potersi tra
di loro vedere e talvolta ancora più distanti, formano un
Arcipelago f anche la Toscana ha dunque il suo. Le Isole
infatti ad essa pertinenti non sono in sì piccol numero da
formare semplice gruppo, stantechè se ne contano fino a
sedici compresi i minori isolotti, ed ora può aggiungersi di
nuovo anche la Capraja, sebbene nella formazione del nuovo
Regno d' Italia siasi lasciata politicamente unita alla provincia
di Genova.
Ma sole sei sono le Isole abitate dell' Arcipelago Toscano,
e tra queste primeggia notabilmente quella dell'Elba; era
quindi ben naturale che a questa io rivolgessi le mie etno-
logiche investigazioni e che ivi mi procacciassi la versione
del consueto Dialogo. Noterò primieramente che la popo-
lazione dell'Elba è formata di uomini generalmente robusti
e di buona costruzione : giusta è la loro statura e raramente
eccede in altezza : la carnagione è olivastra, scuro il pelame.
L' Elbano è assai dolce di carattere, ma proclive alla fierezza
tostochè vogliasi urtarlo. La divisione in piccolissime fra-
zioni della proprietà territoriale è la causa primaria che
rende quelli Isolani facili a muover hsse : ma le divisioni
e i partiti cessano suU' istante, se loro si richieda di far
mostra di forza e di unione nazionale.
Il linguaggio usato nell Elba è il toscanOy variandone
la preferenza con accento un poco serrato. A Marciana, e
in modo più speciale a Capoliveri, la pronunzia viene ac-
compagnata da sgradevole cantilena. A Lungone si fram-
472
mischiano voci napolitano e spagnuole al toscano idioma,
perchè restò il suo territorio lungamente soletto a quei due
reami. Vuoisi avvertire che nel vernacolo di questi isolani
i nomi propri vengono abbreviati nel vocativo e proferiti
quasi per metà ; Anto, Francò, Giambatì invece di Antonio,
Francesco, Giambattista. Si noti altresì che la preposizione
a è spesso usata ove non avrebbe luogo, per esempio chiama
a Cecco in luogo dì chiama Cecco ; che la doppia rr viene
proferita come una sola consonante ; tera, fero, per terra e
ferro. Finalmente gli articoli e segnacasi il, gli, ai i
vengono sempre mutati in fo e li; p. e. fatti dare lo resto,
rispetta li santi, guarda alli piedi ; invece di fatti dare il
resto, rispetta i santi, guarda i piedi. Più esatta idea potrà
prendersi del popolare linguaggio degli Elbani dalla tradu-
zione del seguente Dialogo : esso è in vernacolo Capolivere,
prescelto come tipo più pronunziato di tutti gli altri usati
neir Isola.
473
DIALOGO ITALIANO
TRA UN PADRONE
BD UN SERVITORE.
Padrone. Ebbene, Bali-
sta, hai tu eseguite tutte le
commissioni che ti ho date?
Servitore. Signore, io pos-
so assicurarla di essere stato
puntuale più che ho potuto.
Questa mattina alle sei e un
quarto ero già in cammino ;
alle sette e mezzo ero a metà
di strada, ed alle otto e tre
quarti entravo in Portofer-
raio; ma poi è piovuto tanto!
Padr. Che al solito sei
stato a fare il poltrone in
un' osteria, per aspettare che
spiovesse 1 E perchè non hai
preso l'ombrello?
Serv. Per non portar quel-
l'impiccio; e poi jeri sera
quando andai a letto non pio-
veva più, se pioveva, pio-
veva pochissimo : stamani
quando mi sono alzato era tut-
to sereno, e solamente a leva-
ta di sole si è rannuvolato.
Più tardi si è alzato un gran
^ Le vocali segnate col " si pronurzìano molto strette; le altre come si usa
dai Toscani.
TRADIZIONE
NEL DIALETTO
DI CAPOLIVERI. ^
Padrone. Obbene, lista,
faceste tutte le commisioni che
fi diedi?
Servidore. Gnossi; ioposso
accertallo di essere stato più
preciso che ho potuto. Stamane
alle seje e un quarto ero per
la via, alle sette e mezzo ero
a mezza via, e alle otto e tre
quarti entravo in Feraja ; ma.
pòi è puovuto tanto !
Padr. Che al solito sini
staio a fa il poltrone allostù-
ria, per aspetta che spiovesse!
O perchè un pigliasti l'om-
brello?
Serv. Per non porta quel-
lo mpicdo; eppòijersera quando
me ne andai a letto un pio-
veva, pioveva pògo pòchis-
simo; stamane quando mi so
levato era tutto sereno, e sólo
a levata di sóle si è mugolato;
sul tardi si è levato un gran
vento, ma invece di leva U
474
vento y ma invece di spazzare
le nuvole, ha portato una gran-
dine che ha durato mezz' ora,
e poi acqua a ciel rotto.
Padr. Così vuoi farmi in-
tendere di non aver fatto quasi
niente di ciò che ti avevo or-
dinato ; non è vero ?
Serv. Anzi spero che ella
sarà contento, quando saprà
il giro che ho fatto per Por-
toferraio in due ore.
Padr. Sentiamo le tue pro-
dezze.
Serv. Nel tempo che pio-
veva mi sono fermato in bot-
tega del sarto, ed ho visto
con questi miei occhi racco-
modato il suo soprabito con
bavero e fodere nuove ; la sua
giubba nuova, e i pantaloni
colle staffe erano finiti, e la
sottoveste stava tagliandola.
Padr, Tanto meglio. Ma
avevi pure a pochi passi il
cappellajo, e il calzolajo, e
di questi non ne hai cercato?
Serv. Sì signore: il cap-
pellajo ripuliva il suo cappello
vecchio, e non gli mancava
che orlare il nuovo. Il cal-
zolajo poi aveva terminati gli
nugoli, è cascata una grandi-
ne che è durata una mez-
zora, e p(H un acqua a sub-
bisso.
Padr. Coà voi fammi in-
teere di un ave fatto nulla di
quanto favo ditto, né vero?
Serv. Nanzi spero che lui
sarà contento, quando saperà
il giro che ho fatto pè Feraja
in dù ore.
Padr. Sentimo un p6 le
tue prodezze.
Serv. In tempo che pio-
veva mi so fermato nella bot-
tega del sarto, e ho visto colli
mi occhi ojccondato il suo so-
prabito col collo e le rovesce
nòve ; la sii giubba turchina
e li calzoni colle staffe erano
finiti, e il giulecco lo stava ta-
gliando.
Padr. Tanto meglio; ma
a poghi passi e era 7 cappel-
lajo e 7 calzolajo, e di quessi
n'ha cercato?
Serv. Gnossi: il cappel-
lajo puliva il su cappello vec-
chio, e un ci mancava che
orla il novo. Il calzolaro pòi
aveva terminati li stivali, li
I
475
stivali, le scarpe grosse da
caccia, e gli scarpini da ballo.
Pàdr. Ma ìd casa di mio
padre quando sei andato ,
che questo era l'essenziale?
Serv. Appena spiovuto,
ma non vi ho trovato né suo
padre, né sua madre, né suo
zio, perché jeril'altroandarono
in villa, e vi hanno pernottato.
Padr. Mio fratello però, o
sua moglie almeno sarà stata
in casa?
Serv. No Signore, perchè
avevano fatta una trottata,
verso S. Martino, ed avevano
condotto il bambino e le
bambine.
Padr. Ma la servitù era
tutta fuori di casa?
Serv. Il cuoco era andato
in campagna col suo signor
padre, la cameriera e due ser-
vitori erano con sua cognata, e
il cocchiere avendo avuto l'or-
dine di attaccare i cavalli per
muoverli, se ne era andatocol-
la carrozza verso Lungone.
Padr. Dunque la casa era
vuota ?
Serv. Non vi ho trovato
scarpóni da caccia e li scar^
pini da balh,
Padr. Oh n casa di mi pà
quando ci sini andato, che
quesso era l'essenziale?
Serv. Appena eh' è spio-
vuto, ma un ci ho trovo a
niuno; né 7 su babbo, né la
su mamma, né 7 sii zio, per-
chè jer laltro andenno n villa,
e ci so restati.
Padr. 'L mi fratello però,
la sii moglie almanco sarà
staia n casa?
Serv. Gnornò, perchè ave-
va fatta una camminata verso
S. Martino, ed aveveno por-
tato ti bimbo, e le bimbe con
eli,
Padr. Ma la servitii era
tutta fora di casa ?
Serv. // coco era andato
n campagna col su sigfior pa-
dre ; la camberiera e li dù
servidori ereno colla su cu-
gnata, e il cucchiere avendo
auto l'ordine di attacca li ca-
valli per movelli, se'n era
andato colla carezza verso
Lungone.
Padr. Dunque la casa era
bella vuota?
Serv. Un e ho trovato
476
che il garzone di stalla, ed
a lui ho consegnate tutte le
lettere, perchè le portasse a
chi doveva averle.
Padr. Meno male. E la
provvista per domani ?
Serv. L'ho fatta : per mi-
nestra ho preso della pasta, e
intanto ho comprato del for-
maggio e del burro. Per ac-
crescere il lesso di vitella,
ho preso un pezzo di castra-
to. Il fritto lo farò di cer-
vello, di fegato e di carciofi.
Per umido ho comprato del
majale, ed un' anatra da farsi
col cavolo. E siccome non
ho trovato né tordi, né starne,
né beccacce, rimedierò con un
tacchino da cuocersi in forno.
Padr. E del pesce non ne
hai comprato?
Serv. Anzi ne ho preso in
quantità, perché costava po-
chissimo.Hocompratosogliole,
triglie, razza, nasello e aliaste.-
Padr. Così va benissimo.
Ma il parrucchiere non avrai
potuto vederlo?
Serv. Anzi siccome ha la
bottega accanto a quella del
droghiere, dove ho fatto prov-
atiro che 7 garzone di stalla,
e a elio ho dato tutte le let-
tere, perche le portasse a ihi
andeveno.
Padr. Manco male ; o la
povvista per dimane ?
Serv. L'ho fatta: pella
minestra ho pigliato pasta, e
'ntOMto ho crompato del cacio
e del baro. Per cresce il lesso
di vitella ho pigliato un pezzo
di castrato. La fritlv/ra la fa-
ro di cervelle, di fegheto e di
carciófini. Per umido ho erom-
palo di majale ed un'anatra
da farsi col cavolo. Un avendo
trovato, né tordi,, né pernicie,
né beccaccie arrimediarò con
un gallinaccio da cócessi in
forno.
Padr. O pesdo n hai
croinpato ?
Serv. Mene ngiaro! n'ho
pigliato un budelljo, perche
era a bòn marcato. Ho crom-
pato sogliole, triglie, razza,
merluzzo e rigoste.
Padr. Cosk va benissimo :
'/ perrucchiere un l'averaipo^
tuto vede?
Serv. Anzi siccome la su
bottega é accanto a quella del
droghiere, 'nduve ho provvisto
477
vista di zucchero, pepe, ga-
rofani, cannella e cioccolata,
così ho parlato anche a lui.
Padr. e che nuove ti ha
date?
Serv. Mi ha detto che
l'opera in musica ha fatto
furore, ma che il ballo è stato
fischiato; che quel giovine si-
gnore suo amico perde laltra
sera al giuoco tutte le scom-
messe, e che ora aspettava
di partire colla diligenza per
Marciana. Mi ha detto pure
che la signora Lucietta ha
congedato il promesso sposo,
e ha fatto giuramento di non
volerlo più.
Padr. Gelosie.... questa si
che mi fa ridere ; ma pen-
siamo ora a noi.
Serv. Se ella si contenta
mangio un poco di pane e
bevo un bicchier di vino, e
torno subito a ricevere i suoi
comandi.
Pàdr. Siccome ho fretta
e devo andare fuori di casa,
ascolta prima cosa ti ordino,
e poi mangerai e ti riposerai
quanto ti piacerà.
Serv. Comandi pure.
Padr. Per il pranzo che
lo zucchero, 'Ipepe, li garofani,
la cannella, e la cioccolata,
cosi parlai anco con elio.
Padr. O che nòve t'ha
dato?
Serv M'ha ditto che la
commedia in musica ha fatto
bene, ma 7 balb l hanno fi-
stiato; che quel giovanotto si-
gnore su amigo ha perso jer-
laltra sera al giòco tutte le
scommesse, e che aora aspet-
tava di parti colla carrozza
pè Marciana, M'ha ditto an-
co che la sora Luciola ha la-
sciato il su promisso spòso, e
ha fatto giuramento d'un ve-
dello più.
Padr. Gelosie . . . questa
sì che me fa ride : ma pen-
samo a noi aora.
Serv. Se lui si contenta
mangio un pò di pam, bejo
un bicchier di vino, e vengo
subbilo a piglia li sìa comandi.
Padr. Siccome ho furia, e
devo usci' di casa, senti prima
quella che t'ordino, e dopo
mangerai e ti riposerai quanto
ti parerà.
Serv. Dica pure.
Padr. Pel pranzo che do-
478
dobbiamo fare, prepara tutto
nel salotto buono. Prendi la
tovaglia e i tovaglioli miglio-
ri; tra i piatti scegli quelli di
porcellana, e procura che non
manchino né scodelle, né vas-
soj. Accomoda la credenza con
frutta, uva, noci, mandorle,
dolci, confetture e bottiglie.
Skrv. e quali posate met-
terò in tavola ?
Padr. Prendi i cucchiai
d' argento, le forchette e i
coltelli col manico d' avorio,
e ricordati che le bocce, i
bicchieri ed i bicchierini sia-
no quelli di cristallo arrotato.
Accomoda poi intorno alla ta-
vola le seggiole migliori.
Serv. Ella sarà servita
puntualmente.
Padr. Ricordati che que-
sta sera viene mia nonna. Tu
sai quanto é stucchevole quella
vecchia! Metti in ordine la ca-
mera buona, fa'riempire il sac-
cone e ribattere le materasse.
Accomoda il letto con lenzuola
e federe lepiùfini,ecuoprilocol
zanzariere. Empi la brocca di
acqua, e sulla catinella disten-
di un asciugamano ordinario
ed uno fine. Fa'tutto in rego-
vem ofà, prepara tutto nel sa-
lotto meglio. Piglia la tovaglia
e li tovaglioli più fini : tra li
piatti scegli quelli di porcel-
lana, e sta attento che nun
manchino né scudelle, né vas-
soi. Acconcia la credenza con
delle frutte, uva, noci, aman-
dole, confetti, e bottiglie.
Serv. Le posate quali met-
terò n tavola?
Padr. Piglia li cucchiaj
d'argento, e le forchette colli
coltelli ch'hanno 7 manico
d'aborto, e ricordeti che le
bocce, li bicchieri e li bicchie-
rini siino quelli di cristallo
arotato. Metti poi giro giro
alla tavola le sedie migliori.
Serv. Lui sarà servito
precisamente,
Padr. Rammentati che sta-
sera vene la mi nonna. Sai
quanto é scontrosa quella vec-
chia! Prepara e accomoda la
camberà bòna, fa riempiti sac-
cone e ribatte le materazze,
acconcia 7 letto colli lenzolie
federe le più fine, e coprilo
col zanzaliere. Empie la brocca
delTacqua, e sulla catinella
spiegaci uno sciugamano or-
dinario e uno fino. Fa ógni
479
la, e la mancia non mancherà.
Serv. Per verità ella mi
ha ordinalo molte cose, ma
farò tutto.
cosa 'n regola, e la mancia un
ti mancherà
Serv. Per crxmola un è
pogoy ma farò tutto-
La Raccolta che pubblicai potevasi notabilmente aumen-
tare, ma non tutte le fattemi promesse furono attenute ; per
cui avrei dovuto trattenere soverchiamente la stampa delle
traduzioni che mi pervennero, e queste sembra a me che
bastar possano a giustificare la conclusione colla quale darò
termine a questo lavoro Etnologico.
È noto che tra i nostri moderni filosofi di nota celebrità
primeggiò il Romagnosi, cui doveva necessariamente stare a
cuore la patria, e passionata mente ei l'amava ! Nei suoi
colloqui con soggetti di distinto merito frequente era il caso
di lamentare le sorti d'Italia, e reciproche le esecrazioni
dei pesanti ceppi che V opprimevano ; quindi comuni ardenti
voti di emancipazione dalla schiavitù straniera.
Accadde un giorno che quel sommo Economista venne
favorito di visita da -illustre Magistrato toscano, e presto
nacque tra essi nobile gara di manifestazioni patriottiche
sulla possibilità di riunione dei varj Stati italiani... Ma qual
sarebbe (sfuggiva al Magistrato) la capitale della risorta na-
zione ? E il Romagnosi con vivo entusiasmo esclamava : E
mei domanda un toscano ? Ma in Firenze, ove ebbero la cuna
Dante, il Boccaccio, il Macchiavelli, Galileoy il Buonarroti, non
è usato l' idioma gentile e suonante nella sua purezza ?
Ebbene quei voti di generoso patriottismo, che non po-
tevano allora emettersi se non sommessamente e nel ricinto di
rispettate mura domestiche, in forza di avvenimenti prodi-
480
gosì, vennero ora appunto compiutamente appagati. Firenze
addivenne la Capitale del regno : i Senatori, i Deputati, i
connazionali, gli stranieri che aCQuiranno nella Città del Fiore
non resteranno solameote sorprèsi dei moltiplici monumenti
di belle arti copiosamente in essa sparsi, ma riescirà loro
in special modo gradita la purezza del linguaggio popolar-
mente usato sulle ridentissime rive dell' Arno, fatta discreta
eccezione a pochi idiotismi e a qualche difetto di pronunzia.
Che se in taluno nascerà la brama di porre a confronto
la lingua della nuova Capitale coi dialetti adoperati così nell'al-
ta come nella bassa Penisola e nelle sue Isole, non isdegni
di ricorrere al contenuto in questa Operetta, e senza bisogno
alcuno di vane dispute potrà con facilità convincersi, che il
Conte Ugolino giustamente diceva all'autore della Divina
Commedia.
, Fiorentino
Mi sembri veramente quando io ^ odo.
INDICE.
Proemio Pi
Tradazione d' un Dialogo
RepartizioDe dei Dialetti Italiani modellata sulla diviaipne topografica
delle Provincie
Illustrazioni Etnologiche « -
I. — Dialetti dell' Alta Italia preceduti da lUtutrazioni Etnologiche . .
Dialetti Piemontesi . . . .'
Dialetto Torinese
Avvertenze speciali sul Dialetto Piemontese
Dialetti di Aosta, ^i Ga^l Monferrato e di Novara
Dialetto di Aosta. . . , . ,
Dialetto di Gasale e di Novara .
Dialetti dell' antioo Regno Lomttardo-Yeneto
Dialetto Milanese
Dialetto Mantovano e di Sondrio
Illustrazioni Etnologiche e Dialetti delle Provincie Italiane tuttora sog'^
gatte a dominj stranieri
Abitanti della Svizzera Italiana e loro Dialetti
Dialetto Ticinese
Dialetto di Lugano
Osservazioni sul detto Dialetto . ,
Dialetto Romencio e lUustrazlcmi Etnologiche
Dialetto Romencio ,
Dialetto del Trentino co;i Illustrazioni Etnologiche
Dialetto di Trento f . , . ,
Dialetto delle Provincie Venete con IHofitrasioni Etnologiche ....
Dialetto di Venezia
Dialetti di Valsugana, di Belluno e di Verona con Illustrazioni Etno^
logiche . , , ,
Dialetto di Valsugana . . , . . ^
Dialetto di Belluno e di Verona
Dialetti dell' Emilia con Illustrazioni Etnologiche
Dialetto di Piacenza
Dialetto di Parma e di Borgotaro ...
Osservazioni ed avvertenze sulla pronunzia dei dialetti Piacentino,
Parmigiano e Borgotarese .
Dialetti dell' antico Ducato di Modena «on UlustraaiODi Etnologiche .
91
a
7
9
1t
45
47
«)
26
9»
381
38
64
m
70
71
ivi
9Ì
94
400
408
414
423
429
492
438
444
m
m
464
482
Dialetto Modenese Pag-
Dialetti di Reggio e di Fiumalbo >
Osservazioni ed avvertenze sulla pronunzia del tre Dialetti, Modenese,
di Reggio e del Frignano
Dialetto Bolognese con Illustrazioni Etnologiche
Dialetto Bolognese
Dialetti della Liguria con Illustrazioni Etnologiche
Dialetti della Liguria . . '
Dialetto Nizzardo
Osservazioni e avvertenze sul Dialetto Nizzardo
Abitanti e Dialetto del Principato di Monaco
Dialetto di Monaco
Dialetto Genovese
IL — Principali Dialetti dell'Italia Media, o Centrale con Illustrazioni
Etnologiche
Dialetto Sarzanese *
Dialetto Lucchese
Avvertenze sul vernacolo Lucchese :
Dialetto Cortonese ; . .
Dialetto Fiorentino con Illustrazioni Etnolog iche
Dialetto Fiorentino
Dialetti Pisano e Senese
Avvertenze sul Dialetto Fiorentino
Avvertenze sul vernacolo Pisano e sopra quello della plebe Livornese.
Avvertenze sul vernacolo Senese
Dialetti dell'antico Stato Pontifllcio e di San Marino con Illustrazioni
Etnologiche
Dialetto Romano
Abitanti di Pesaro e loro Dialetto *
Dialetto Pesarese
Dialetto della Repubblica di San Marino con Illustrazioni Etnologiche .
Dialetto di San Marino
III. — Principali Dialetti delV Italia Meridionale con Illustrazioni Etno-
logiche »
Dialetto Napolitano
Traduzione del Dialogo
Osservazioni e avvertenze sulla pronunzia ed indole del Dialetto Na-
politano
Dialetto Abruzzese
Traduzione del Dialogo
Osservazioni sul Dialetto Abruzzese
Dialetto Calabrese '
Traduzione del Dialogo «
Note sul Dialetto Calabrese
Dialetto di Foggia
Traduzione del Dialogo
IV. — Dialetti delle Isole Italiane con lUustrasioni E tnologiche ....
Dialetti di Sicilia con Illustrazioni Etnologiche • .
1721
173
184
186
190
196
200
205
Sili
215
219
234
242
251
255
267
276'
2f77
288
290
291
293
303
312
314
320
3n
344
347
354
356
358
364
368
377
384
385
387
393
394
483
Dialogo nel Dialetto Palermitano: .... , Pag. 40^
Dialetto del Gruppo di Malta con illustrazioni Etnologiche » 410
Dialogo nel Dialetto di Malta » 415
Nota al Dialetto di Malta , . » 421
Dialetti della Sardegna con Illustrazioni Etnologiche . » 4%2 |
Dialogo in Dialetto di Usini p 429
Annotazioni grammaticali » 435
Dialogo in Dialetto di Sassari » 436
Avvertenze sul Dialetto di Sassari » 442
Dialetti dell' Isola di Corsica (Italia-Francese) con Illustrazioni Etno-
logiche » 443
Dialogo nel Dialetto di Corte » 450
Dialetto d' Ajaccio » 456
Dialogo nel Dialetto d' Ajaccio » 457
Annotazioni sull' ortografia e la pronunzia del Dialetto d' Ajaccio . . . » 463
Dialetto di Bastia » 464
Dialoga nel Dialetto di Bastia » 465
Dialetto dell' Elba con Illustrazioni Etnologiche . » 471
Dialogo nel Dialetto di Gapoliveri » 473
Conclusione » 479
-r